sabato 4 marzo 2017




CRITICHE E RECENSIONI 2

a) Maurizio Ferraris, L’imbecillità è una cosa seria, Il Mulino 2016.

Alcuni degli ultimi seminari di Lacan hanno come titolo dei veri e propri calembours o dei giochi di parole fondati quasi sempre sull’omofonia. Le non-dupes errent, ad esempio, che è del 1973-74 e che tradotto suona più o meno I non-fessi errano, è omofono di Le noms du pères, ossia I nomi del padre. Per Ferraris l’’ardua sentenza’ di Lacan vale quasi come indice di un ravvedimento. Se si tiene conto del ruolo fondamentale che lo psicoanalista francese attribuisce al significante Nome-del-padre, ossia di render possibile il buon andamento della vita soggettiva,  la correzione è significativa: ‘i nomi del padre’, scrive Ferraris, «i portatori dell’autorità, quelli che si credono più furbi degli altri, sono degli imbecilli». Io, che ho meno diffidenza verso Lacan e il suo pensiero, leggo l’omofonia un po’ diversamente se non all’incontrario: proprio quelli per i quali il nome del padre ha funzionato sanno più di tutti di essere degli imbecilli, ossia sanno che è del tutto inutile provare a sfuggire all’inconscio e che anzi saranno sempre trattati da quest’ultimo come dei minchioni. Il fatto che si autorizzino a parlare solo in nome del padre – un padre prima  ucciso, poi cotto e mangiato (vedi Totem e tabù) e solo dopo reintegrato attraverso la memoria ma sempre come un padre morto -, vuol dire infatti  che nessuno di loro è padre –  al massimo un  padre putativo -, nessuno ha autorità, nessuno conta niente: fra gli uomini regna l’incertezza, ci sentiamo tutti malfermi sulle gambe, privi  di sostegno, senza un bastone cui appoggiarci, vale a dire imbecilli (in-baculum = senza bastone).
D’altronde nel seminario sulla Lettera rubata, quindi quasi vent’anni prima, parlando delle figure dell’autorità presenti nel racconto di Poe – il Re e la Polizia - , Lacan notava che quando un  uomo è chiamato ad incarnare il più alto dei significanti, quello indicato dalle parole Rex e Augur, per poco che ci creda, finisce sempre per diventare «il simbolo della più enorme imbecillità (imbécillité)». Dal momento che il soggetto è di per sé imbecille, ossia sempre giocato dall’inconscio, quando si crede Re contamina  la figura dell’autorità suprema, ma anche il garante del buon andamento delle cose umane e della felicità individuale e collettiva, dello stesso virus. O il Rex e l’Augur non hanno rapporti con l’uomo e vivono impassibili nell’oltremondo come gli dei di Epicuro oppure sono imbecilli come tutti.
L’imbecillità a ben guardare è un paradosso: per un verso è una cosa seria, terribilmente seria, e vedremo perché; dall’altro gli imbecilli non sono persone serie, combinano sfracelli e procurano un sacco di guai. In particolare l’imbecillità delle élites e degli intellettuali, soprattutto quando si colora politicamente, è la più pericolosa: il caso esemplare è quello dell’imbecille delle prealpi come lo chiamava Thomas Bernhard, cioè di Heidegger, che ha identificato il pensiero rammemorante, il pensiero dell’essere, con la dottrina nazista, definendo lui stesso, ma dopo, a cose fatte, questa commistione una fesseria, un colpo d’imbecillità da cui neppure  i giganti del pensiero  vanno esenti a conferma del fatto che i non-dupes errent.
C’è però il rovescio della medaglia: come già annunciato l’imbecillità è una cosa seria. E lo è perché l’essere imbecilli coincide per Ferraris con la condizione umana, è un dato antropologico. Dietro l’affermazione paradossale e scherzosa fa capolino in realtà la tesi principale dell’antropologia filosofica di primo novecento che si basa, come è noto, sulle coeve ricerche anatomiche e biologiche. Secondo Arnold Gehlen l’uomo, essendo privo di una struttura istintuale precostituita, nasce carente, esposto senza protezioni naturali all’effluvio pulsionale che proviene  dal suo interno e ai pericoli  presenti nel mondo circostante; per Louis Bolk l’uomo nasce prematuro, quando è ancora un feto, e conserva anche da adulto questa sua eterna fanciullezza. Tutto ciò implica una condizione bisognosa e instabile che solo faticosamente e con l’aiuto fondamentale della tecnica l’uomo è in grado di modificare. Ferraris rifiuta ogni prospettiva ‘pentecostale’, ossia la tesi  per la quale l’ordine del senso invece di essere lentamente costruito a partire dalla condizione di imbecillità sia sempre «precedente e indipendente rispetto alle forme in cui si esprime  e ai modi in cui si imprime» e cali «dal cielo come  lo Spirito Santo  nel giorno della Pentecoste» (cfr. M. Ferraris, Emergenza, Einaudi 2016, p. 32).
Da qui la presa di posizione anti-heideggeriana di Ferraris a favore della tecnica che  sopperisce artificialmente a quel bastone naturale di cui l’imbecille è privo facendo in modo che   la sua vita sia meno precaria e faticosa. La tecnica insomma non aliena e non rende gli uomini più stupidi di quanto già non siano  per dotazione naturale.  Quel che si può dire è invece  che la tecnica, soprattutto nella veste della comunicazione veloce e senza limiti resa oggi possibile dai media elettrici,  tende soltanto a potenziare «le occasioni in cui possiamo farci conoscere per quelli che siamo» e che, di conseguenza, a fronte di uno sviluppo e di una diffusione della tecnica sempre più estesi e capillari,  aumenti in proporzione il tasso di imbecillità percepita.  Ma non quello reale che resta invece stabile. E se è vero che l’imbecillità è il «proprio della modernità perché con le potenzialità espressive offerte dal moderno lo stupido si rivela meglio che in qualunque altra epoca più raccolta e silenziosa», lo è altrettanto il fatto che questa sempre più grande  visibilità della imbecillità costitutiva dell’uomo è la condizione per un avanzamento senza precedenti della conoscenza e dell’emancipazione politica e morale. Non si trasforma il mondo senza la spinta proveniente dall’attrito dell’imbecillità e  dalla resistenza  del reale.
Questo libro sull’imbecillità come quello precedente sull’emergenza e come ancora la lunga e argomentata discussione sulla scienza con Paolo Flores D’arcais (cfr., Micromega, ‘Almanacco di filosofia’, Ritorno alla realtà o fughe metafisiche?,7/2016)   sembrano  – questa almeno la mia impressione – delle glosse sempre più chiarificatrici alla tesi sul ‘nuovo realismo’ propugnata qualche tempo fa da Maurizio Ferraris. Nella foga della polemica l’equivoco era quasi inevitabile. È importante allora che Ferraris abbia sentito la necessità di chiarire il senso della sua proposta sciogliendo i fraintendimenti. Che sono a mio avviso essenzialmente due: lo scientismo e il realismo metafisico.
Ciò che caratterizza e identifica il reale è per Ferraris l’inemendabilità: non c’è schema concettuale,  non c’è anarchia epistemologica e neppure costruzione culturale che possano  emendare il reale, ossia modificarlo, farlo essere altro da quel che è e allo stesso tempo migliorarlo, abbellirlo, addomesticarlo. All’inemendabilità fanno eco attrito e resistenza. Ma ciò non vuol dire né che sia reale solo ciò che la scienza certifica ed attesta come tale,  né che lo sia,  come vuole l’ontologia metafisica,  tutto ciò che, per il solo fatto di apparire perfetto al pensiero razionale, vale a dire dotato di tutti gli attributi, sia ritenuto possedere necessariamente anche quello dell’esistenza,  e poco importa che sia l’anima sostanziale, Dio, o per usare un immagine cara a Maurizio Ferraris quando deve spiegare cosa sono gli oggetti naturali, una ciabatta.  Per quanto Kant sia responsabile agli occhi di Ferraris di aver preferito gli schemi concettuali e le forme aprioriche alla percezione sensibile, gli si dovrebbe riconoscere almeno il merito di aver liquidato la metafisica sostanzialistica il cui sottoprodotto erano i deliri del visionario Swedenborg che pretendeva di parlare coi morti.   
Il realismo di Ferraris si potrebbe definire fenomenologico e ciò nella misura in cui il tardo Husserl, tematizzando il mondo della vita, aveva riconosciuto alla percezione da un  lato un ruolo costitutivo nella determinazione del senso degli oggetti, ma dall’altro  anche quello passivo e precategoriale  di un impatto con  le cose in  carne e ossa,  con le loro oggettive modalità di offrirsi e presentarsi, con la loro legalità non dipendente da un sapere scientifico fondato su schemi concettuali.
Tutto ciò, come è ovvio,  non ha evitato  a Husserl la sua botta d’imbecillità: in una lettera  a Edith Stein scritta poco prima di morire,   Husserl fa un’amara scoperta: «Non sapevo che fosse così duro morire. Eppure mi sono talmente sforzato, lungo tutta la mia vita, di eliminare ogni futilità! (…) Proprio ora che arrivo al termine e  che tutto è finito per me, so che devo riprendere tutto dall’inizio».  Si è passata una vita ad imparare a vivere, ad avere una vita quasi perfetta, priva di orpelli e di futilità, una vita da filosofi. E si scopre, quando non c’è più tempo per farlo,  che  bisognava invece passare la vita a imparare a morire. Che imbecilli!


b) Alessandro D’Avenia, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori 2016.

Se il ritratto offerto da Alessandro D’Avenia del più grande poeta nonché intellettuale italiano del secolo XIX corrispondesse al vero, allora  avrebbe ragione Patrizia Valduga a sostenere  che Leopardi è  il poeta  degli adolescenti segaioli. Solo i suoi versi sprezzanti e feroci potrebbero fungere da antidoto alla figurina svenevole, sdilinquita e sdolcinata che fuoriesce dalle pagine del libro di Alessandro D’Avenia. Quasi a mo’ di un ‘perdete ogni speranza o voi che entrate’, ogni speranza di incontrare una versione attendibile di cosa sia stato Giacomo Leopardi per la cultura italiana nella lettura di questo libro, pongo qui i versi di Patrizia Valduga che forse gettano luce più che sul poeta sui suoi lettori adolescenti fra i quali va annoverato Alessandro D’Avenia che fra l’altro non è mai cresciuto: «Si sì! tenetevi la vostra luna!/ Il gobbo l’ha talmente sputtanata/ che non vederla più è una fortuna./ Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi che fai?/ Tu senti che domanda scriteriata…/ Povera luna, che ha da fare mai?/ Tutti gli adolescenti segaioli,/ con l’acne che gli dà le depressioni,/ adorano Leopardi, lune e duoli, /adorano se stessi, pelandroni…/ Io preferisco Pascoli e Manzoni» (Corsia degli incurabili).
In una intervista che si può vedere e ascoltare su youtube Patrizia Valduga ha rincarato la dose: pur riconoscendo a Leopardi lo statuto del grande filosofo e le doti del grande prosatore, ha tuttavia definito i suoi versi, i suoi endecasillabi, meccanici, privi del pathos che deve caratterizzare la poesia. Anche quando fa poesia Leopardi è in realtà un prosatore che semplicemente si limita ad andare a capo troppo presto, che interrompe la frase prima di arrivare al limite del foglio  e produce così l’illusione del verso.
Non mi proverò in nessun modo a contestare e contrastare l’opinione di Patrizia Valduga, il suo preferire versi come «C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,/ anzi d’antico: io vivo altrove, e sento/ che sono intorno nate le viole», a quelli dell’Infinito, di nuovo giudicati meccanici e intellettualistici. Pur non condividendo la sua tesi, penso che sia preferibile la sua impietosa  stroncatura della poesia leopardiana  alla trasformazione di Leopardi  nell’immagine votiva del santo protettore degli adolescenti fragili  e insicuri.
Su Leopardi persistono tuttora fraintendimenti antichi, equivoci longevi, errori d’interpretazione duri a morire: primo fra tutti quello  che fa derivare la vocazione poetica dal dolore per il mancato amore provocato dalle deformità corporee. Un corpo rachitico e gibboso, un corpo malato e difettoso, emarginando Leopardi dal mercato del sesso, lo spingono a sublimare nella poesia il dolore derivante dalla solitudine amorosa. In questa lettura c’è il trionfo dell’adolescente segaiolo: essendo questa l’età delle trasformazioni corporee, il momento in cui il corpo si fa corpo sessuato, non c’è   adolescente (maschio o femmina che sia) che non si senta inadeguato, che non avverta lo scollamento fra l’immagine di sé, l’io ideale,  e il reale del corpo, che non si veda allo specchio brutto, deforme, brufoloso, grasso (l’anoressica docet)  e non pensi al suicidio come estremo rimedio per por fine a un tale abbrutimento giudicato oltretutto  irreversibile.
Tutt’al contrario la vocazione poetica non è l’effetto accidentale di  una ‘vita strozzata’, ma una destinazione cui Leopardi era inviato ancor prima di nascere. Non c’è nessun nesso causale fra il diventar poeta ed un corpo malato, anzi a ben vedere anche la deformità corporea era già inscritta nel destino di Leopardi, era come avrebbe detto Benjamin ‘già sul posto’.
Che Leopardi debba essere poeta è il desiderio del padre, che debba essere deforme quello della madre. È Monaldo che installa Leopardi nella biblioteca di famiglia, che lo obbliga a leggere tutti i libri che vi sono contenuti (compresi quelli licenziosi e libertini sia antichi che moderni), che lo sprona ad imitare i classici, a scrivere trattati e dissertazioni, a diventar poeta, e tutto ciò per riscattare la sua vita degradata dal momento in cui è stato estromesso dal governo degli affari di famiglia. Ed è la madre, come attesta un passo famoso dello Zibaldone, a desiderare, per eccessiva devozione religiosa, o che i figli muoiano da giovani o che almeno siano deformi e malaticci.
A questo punto ciò che dovrebbe interessare una critica intesa come arte dell’interpretazione dovrebbe essere in realtà il modo con cui Leopardi   si appropria di questo desiderio dell’altro che lo costituisce, come lo stravolga, invertendone la direzione e il senso, come si scavi nel terreno del destino uno spazio tutto suo che non può essere però che uno spazio di scrittura. Ad esempio il mandato paterno di diventare un poeta laureato e un erudito è  mantenuto ma allo stesso tempo  trasformato dall’augurio di Pietro  Giordani di  affermarsi come ‘il più grande scrittore italiano’. Ma quel che conta  in questo deragliare del e dal desiderio paterno, è che lo spazio ‘vitale’ di Leopardi sia e resti uno spazio di scrittura. Anche in un film come quello di Mario Martone, per altri versi pregevole nel mettere l’accento sul carattere protestatario di Leopardi e su una certa materialità corporea presente soprattutto nel soggiorno napoletano, si incorre nell’equivoco di sempre: la poesia  sgorgherebbe come un  getto unico direttamente dalla vita. Così l’Infinito  è recitato da una voce fuori campo, mentre la cinepresa riprende il poeta seduto davanti ad una siepe  come se la poesia nascesse per ispirazione diretta tutta  intera in quel momento.
Ma nessuna poesia è stata scritta davanti ad una siepe, tantomeno quella di Leopardi: la poesia si scrive seduti al tavolino, provando e riprovando,  sostituendo le parole,  variandone la disposizione, leggendo ad alta voce (l’ispirazione è questo: il prender fiato per declamare i versi), per sentire il ritmo, la cadenza, il suono e se fra suono e senso c’è, non armonia, ma, finanche nella separazione, rimando e corrispondenza. Il lavoro poetico è un lavoro sulla lingua e con la lingua, non sulla e con la vita.
Ciò è vero a maggior ragione perché la vita, che sia quella di Leopardi o di chiunque altro, è per definizione andata, ossia perduta. Ed ecco la seconda deformazione del desiderio operata da Leopardi: se augurare ai propri figli una morte precoce  o  un corpo deforme e malato, era per la madre un modo per negargli  esistenza e autonomia – dove vai,  chi vuoi conquistare, così brutto come sei non ti si può proprio guardare: resta a casa, nasconditi! -, Leopardi farà esattamente il contrario. Questo corpo lo esibirà, lo porterà in giro, con esso corteggerà le donne e si farà degli amici,  e quanto più il corpo lo farà soffrire, fisicamente e psicologicamente, tanto più lo sottopporrà a ogni genere di stravizi, ad un regime  fatto di cattiva alimentazione,  di mancanza d’igiene, di strapazzi metereologici e di abusi sessuali; di questo corpo insomma Leopardi farà un emblema, un insegna, il suo emblema, la sua insegna. Come ho scritto in un’altra occasione (Patronimicografie, In L’autobiografia della vita malata. Benjamin, Blanchot, Dostoevskji, Leopardi, Nietzsche, Moretti e Vitali) il corpo diventa in Leopardi un significante soggettivo, la maschera con cui,  come Cartesio, fa la sua entrata nel mondo, con cui facendo finta e facendo credere  di essere il poeta solo e disperato, l’adolescente maltrattato e respinto, può lanciare il suo attacco contro tutti i nuovi credenti, tutti  i cruscanti incartapecoriti, tutti gli intellettuali organici, tutti i cantori delle ‘magnifiche sorti e progressive’. Lo stesso pessimismo non è la trascrizione culturale degli scacchi della vita ma la posizione etica e intellettuale da cui si guarda al mondo e a partire dalla quale si può condannare  ogni compromesso, ogni falsa intesa.
Per tornare al libro di Alessandro D’Avenia, a parte l’irritazione provocata dal fatto che si del tu a Leopardi quasi fosse un compagno di banco o di merenda, quel che più colpisce è una descrizione dell’adolescenza il cui livello è degno delle frasi ad alto tasso di sentimentalismo pseudoromantico contenute nei Baci perugina. Così l’adolescenza è rapimento e meraviglia, speranza e sogno, nostalgia e felicità. Mai quell’età amara e difficile che è e soprattutto mai un’invenzione della modernità visto che ancora nel seicento a quindici anni si era uomini fatti, con tanto di spadino, e donne pronte alla riproduzione della specie. L’adolescenza è solo un perverso prolungamento dell’infanzia prodotto dalla formazione del mercato.
E se pure fosse vero che l’adolescenza è l’età della meraviglia (che come ripetono tutti i bravi professori di filosofia e storia  dei licei classici e scientifici italiani è all’origine della  filosofia) ciò vorrebbe dire soltanto che l’adolescenza è l’età della stupidità assoluta, di quello ‘stupor’ con cui si guarda a bocca aperta il mondo, del tutto inebetiti, di quell’imbellicità costitutiva dell’umano di cui parla Maurizio Ferraris.  Se c’è un’età imbecille, questa è senza dubbio l’età adolescenziale.




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