giovedì 28 giugno 2018


 

Un dialogo fra Alberto Abruzzese e me sullo stato del mondo e il destino dei saperi umanistici



ecco caro bruno una scaletta di ragionamenti che vado inseguendo, tanto per spiegari meglio le intonazioni che ho avuto nel mio affrettato intervento all'istituto di studi filosofici e darti modo di giudicarli
un abbraccio
alberto

 
Sintetizzo il ragionamento per punti e schematicamente: 
1.
il dispositivo occidentale della crisi come innovazione e dunque come catena di crisi periodiche necessarie al soggetto moderno, alla sua rigenerazione, si è concluso nella condizione di una catastrofe permanente;
2.
questa condizione terminale consiste nel rapido salto dal capitalismo storico a ciò che viene detto capitalismo finanziario per dire l’avvento di specifiche forme di potere che non si riesce a nominare altrimenti che con parole vuote;
3.
le piattaforme digitali, l'abitare in rete, sono al tempo stesso strumento e rivelazione di tale passaggio d'epoca;
4.
a noi che in maggioranza docenti universitari, viene dato il ruolo di formare professionisti in grado di "lavorare" in una dimensione tecno-scientifica che si è tanto auto-rigenerata all’interno dei propri mezzi strumentali da raggiungere un progresso più che mai esponenziale;
5.
poco o male o inutilmente è servito l'umanesimo che alcuni di noi – interessati a un pensiero critico delle forme sociali (dunque politico) – hanno messo in gioco nella formazione di ceti professionali da destinare al campo delle istituzioni civili, così come della riproduzione di nuovi formatori;
6.
credo sia ormai chiaro quanto proprio dal fallimento della tradizione umanista, in quanto insieme di valori e di pratiche, sia dipesa e dipenda la profonda crisi dei ceti dirigenti, la loro incapacità di agire sulla complessità sociale del mondo presente; l'umanesimo (comprese le sue stesse componenti anti-umaniste) non ha funzionato, ha cessato di funzionare, perché ha rivelato la propria natura reale;
7.
la catastrofe del mondo umano e della natura umanizzata (sempre più velocizzata dal progresso tecno-scientifico) mi pare riscontrabile nelle pratiche del nostro lavoro intellettuale, caratterizzato da una spirale autoreferenziale, da una sorta di evasione nel compiacimento del nostro stesso pensiero, nella continua ricerca di una verità "inesauribile" e che tuttavia diamo di continuo “esauribile”;
8.
una prassi, la nostra, tragicamente lenta e ellittica che contrasta con la rapidissima trasformazione di ogni oggetto, forma e contenuto dell'esistenza umana; 
9.
e invece non c'è più tempo: dato che in gioco c'è più che mai la morte e la sofferenza della carne umana (unica “verità” inemendabile è invece il dolore psicofisico della persona ... il vivente tra carne, oggetto, e soggetto);
10.
non possiamo tuttavia esimerci – come stiamo ancora continuando a fare, sempre in nome della nostra stessa qualità di pensiero – dal tentare qualcosa di concreto che riguardi, ora e subito, ciò che più ci avvicina all'altro da noi e cioè il nostro stesso dolore;
11. nessun altruismo, ma semmai un egoismo estremo: docente e discente accomunati da una medesima necessità di sopravvivenza; insieme per fondare una auto-formazione finalmente in grado di praticare uno scarto di posizione rispetto al nostro ruolo storico. Senza alcuna nostalgia di inquadramento istituzionale
12.
credo che innanzi tutto vada affrontato il nodo più cruciale e rivelatore sempre più emerso con massima chiarezza nel gigantesco scarto tra le tradizioni dell'Umanesimo e le innovazioni tecno-scientifiche: gli attuali regimi di formazione, così evoluti sul piano delle tecnicalità professionali, continuano a "servirsi" delle vecchie vocazioni del soggetto moderno (quella congiunzione tra vocazione e professione che Weber ha individuato nella nascita del capitalismo occidentale;
13.
dovremmo trovare modi di auto-formazione in cui rielaborare una idea di vocazione adeguata al mondo presente delle professioni: prendersi a carico le "persone" gettate in una complessità insostenibile;
14.
le reti digitali sono l’unico territorio in cui potere sperimentare forme di resistenza allo stato di necessità e alla volontà di potenza della natura umana dentro un orizzonte post-umano e dunque post-antropocentrico. 
post scriptum ad evitare ogni fraintendimento sulla natura del digitale: il mondo in rete non è assolutamente "nuovo" ma funziona da potenza rivelatrice del mondo come è sempre stato.

Caro Alberto, ecco un abbozzo di risposta

1) Da quando la storia ha cessato di essere inchiesta e curiosità – nei confronti dei diversi, barbari e stranieri, e nei confronti di  se stessi, come eravamo e non siamo più, come avremmo potuto essere se…, come non essere più quello che siamo stati e siamo ancora (se ne fa ancora di questo genere, ma nelle periferie e ai margini – è il caso del miglior Foucault) – ed è diventata tempo orientato, teleologia, essa è catastrofica. Per datare la cosa lo è dal momento in cui una religione orientale – il cristianesimo ebraico – ha colonizzato l’occidente. A partire dal cristianesimo la storia ha un fine e inevitabilmente una fine, il tempo è ridotto, viviamo sempre nei tempi penultimi, ossia in tempi catastrofici, siamo perennemente in transito. Dopo la caduta di ogni ipotesi provvidenzialistica, che Benjamin datava nel barocco, o si è tentato di laicizzare, umanizzare, il telos, o, dimostratasi falsa anche questa alternativa, lo si è abolito dando spazio al nichilismo. L’ultimo tentativo di risposta che si muovesse ancora nella prospettiva aperta dal messianesimo ebraico-cristiano è stata quella di Benjamin: la catastrofe permanente è anche la rivoluzione permanente. Non esiste il bersaglio verso le quali le forze progressiste si dirigono inevitabilmente e che altrettanto inevitabilmente colpiranno, esiste lo scopo – la redenzione della vita creaturale, ciò che tu chiami corpo sofferente – che coincide col tragitto, che fa tutt’uno con la transizione. I tempi penultimi si infinitizzano e in ogni momento di questo tempo interminabile fa capolino il Messia che di volta in volta salva  ammassi  di macerie umane.


Che cosa si apre alla fine del tempo storico, del tempo orientato?  La spazialità, oggi nella forma delle reti.

2)  Qui bisogna fare un salto teorico: il capitalismo è dall’inizio, ossia da sempre, una macchina astratta schizofrenica (Tausk e Deleuze). Che vuol dire: a) macchina non nel senso dell’utensile o strumento inerte che per mettersi in movimento presuppone la mano ed il cervello, ma in quello della cibernetica, ossia dell’autogoverno e dell’autoregolazione. La macchina come innesto di due o più macchine: quella che produce i flussi e quella che li consuma, quella che li libera  e quella che li blocca, quella che  li spezzetta e quella che li ricompone secondo  logiche diverse da quelle di partenza, la macchina del desiderio e la macchina  del godimento, la macchina che accumula e quella che dilapida. In quanto ai flussi non c’è numero chiuso: dalle merci ai  liquidi seminali, dai capitali alla forza lavoro, passa di tutto. b) astratta nel senso di non essere vincolata a nessuna configurazione empirica: forme statuali, assetti societari, identità sociologiche, strutture psichiche. Astratta nel senso del concetto marxiano del lavoro astratto, del lavoro tout court, in cui si dissolvono le differenze  empiriche dei lavori concreti, scompaiono le incidenze degli strumenti sulla qualificazione del lavoro, si aboliscono i  tempi vissuti per la sua esecuzione a regola d’arte. Il capitalismo ha dissolto la classe borghese su cui pure si è fondato all’inizio della sua storia, può fare a meno dello stato nazionale che è stata la sua incubatrice, ha scompaginato la classe operaia perlomeno nelle sue manifestazioni storico-sociologiche più note. c) schizofrenica nel senso di spaccare l’intero che di volta in volta costruisce e in cui sembra rinchiudersi. Il capitalismo è trasfrontaliero, un invasore clandestino di terrritori altrui, nomade e migrante. Con la forza di un terremoto disegna una linea di frattura nei territori che conquista, li divide e li separa. È deterritorializzante.
Il che non esclude, come è dimostrato dal momento storico che stiamo vivendo, che possa, di fronte al rischio dell’autodistruzione innescato dalla stessa liberazione turbolenta del flussi che lo caratterizza, chiudersi momentaneamente su se stesso, riterritorializzarsi, ripristinando la forma originaria dello stato, lo Ur-staat, ossia la forma dispotica dello stato. Ma solo per il tempo necessario a permettere la nuova accumulazione. Poi riparte. 


3) Da questo punto di vista il capitale è in primo luogo spazio, territori sempre in via di deterritorializzazione, spazi che si dividono da porzioni più vaste e si aggiungano ad altre per formare insiemi nuovi, articolazione e disarticolazione. Qui c’è il secondo salto teorico: bisogna valorizzare in pieno la tesi freudiana secondo la quale lo spazio è la proiezione esterna dell’estensione della psiche. D’altronde la prima rete è stata quella neuronale con i suoi neuroni passaggi e i suoi neuroni barriere: esattamente una macchina desiderante nel senso di Deleuze. La psiche è estesa, ossia si dà in esteriorità, è esteriore a sé: inconscia. Non sa di sé e non sa quel che fa, ma proietta questa esteriorità nello spazio che da questo punto di vista è integralmente psichico senza diventare psicologico, ossia senza aver bisogno di ripiegarsi su se stesso nella forma della coscienza di sè.  Sia  le reti, sia il capitale, che non è altro che l’insieme complesso delle reti (Deleuze le ha chiamate rizoma) su cui viaggiano i flussi informativi e no (o tutti i flussi sono di per sé informativi?) sono allora la proiezione esterna, spaziale, della psiche. Ciò dovrebbe dare adito a ricerche finalmente fondate di psicopolitica.

4) Se l’umanesimo coincide con la libertà assicurata dal primato della coscienza, allora esso è spirato senza un  gemito con la spazialità di psiche. A meno che un ‘più reale umanesimo’ (Benjamin) non sia possibile a partire proprio dallo spazio psichico e dalle reti inconscie, catene neuronali o catene significanti. Un umanesimo che presupponga la critica radicale dell’uomo (Foucault) e di ogni antropologia  generale, di ogni sapere preventivo e di  ogni schema anticipatore. Un umanesimo reale, che faccia cioè i conti col reale, con l’inemendabile, il non idealizzabile, il vincolo, il patico irriducibile, il godimento allo stato brado, il dolore irrimediabile, la ‘sofferenza inutile’ (Levinas).

5) Da tempo penso – e non solo perché sono in pensione: lo pensavo anche prima – che i saperi di cui siamo   i soggetti (lo siamo sempre, in  pensione o no) siano obbligati   ormai ad uscire dall’università o a restarvi  ma in una posizione di estimità, in esteriorità interna. E ciò per due ragioni: sia perché quel che di umanistico nel senso tradizionale questi saperi ancora pensavano di custodire e tramandare, è, come si è visto prima, morto, e di conseguenza viene espulso dall’università come cosa inutile e improduttiva, sia perché il ‘più reale umanesimo’ di cui dovremmo essere i promotori è irricevibile dallo stato odierno dell’archvio dei saperi  trasmissibili, ossia accademici. La verità è che l’intero settore della scienze umane – antropologia, sociologia, psicologia ed economia più la storia e per alcuni aspetti anche la filosofia – è entrato al servizio della biopolitica. L’umanesimo, nell’università, non ha più nulla di umano.

5) Il modello del Beruf non esiste più: lo si vede dalla politica che non è più una professione né una confessione di fede.

 
6) Da oggi si lavora nelle reti cercando di praticare una connessione disconnessa: un pensiero-flusso.




mercoledì 13 giugno 2018


 



  
 
Ripubblico qui un intervento sulla situazione italiana pubblicato sulla rivista online Inschibboleth nel dicembre del 2010 e che riletto adesso mi sembra profetico. 



Appunti sulla situazione italiana


Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è voglia di uccidere.
                Pier Paolo Pasolini

Una rivoluzione politica senza rivoluzione poetica del politico non è mai altro che un trasferimento di sovranità e un passaggio di poteri.
               Jacques Derrida


(Le pagine che seguono sono una scaletta per un saggio sull’Italia berlusconiana di cui rinvio la stesura definitiva un po’ per l’impopolarità delle tesi che vi sostengo e un po’ per il rischio, stante la rapidità con cui cambia la situazione politica, di vedere smentite le mie previsioni prima ancora che esse  siano enunciate. Approfitto dell’ospitalità di InSchibboleth  per dare una prima versione pubblica delle mie ipotesi sull’Italia sperando che sia un buon viatico perché possano assumere in tempi brevi la forma del saggio compiuto).



Ho un titolo (La morte del poeta) e due eserghi, ma non  è detto che ci sarà un  testo a seguire. Se ci sarà, sarà purtroppo colorato di pessimismo,  pessimismo su tutta la linea. Ammettiamo   che Berlusconi sia costretto alla fine a fare, come si dice, un passo indietro, a dimettersi insomma, gli scenari che si aprono mi sembrano due o forse uno solo. Pezzi della maggioranza, il centro di Casini, l’appoggio esterno della cosiddetta opposizione, tutti sotto la direzione della terza carica dello stato, quindi con una copertura istituzionale, complice anche e soprattuto Napolitano, assumono il governo: il vecchio arco costituzionale della cosiddetta prima repubblica come già nel ’96 cerca di ritornare al potere. Al di là della questione se  esistano oggi le condizioni per la effettualità di una simile ipotesi, c’è da domandarsi se sia auspicabile in quanto tale, se abbia senso per noi   desiderarla.  So che per molti il passato, specialmente quando si invecchia, sembra sempre meglio del presente o del futuro - che rischiamo d’altronde di non vedere -, ma questo passato, quello della vecchia politica, quello del compromesso storico, dell’incontro fra i cattolici e post comunisti,  quello contro cui si scagliava Pasolini all’inizio degli anni settanta, non è meglio del presente di Berlusconi. Non solo quindi desiderarla mi sembra  un modo per non vedere  il presente in cui siamo, ma  penso che proprio per questo non reggerebbe, si dissolverebbe molto più rapidamente di quanto non ci sia dato di immaginare. Sarebbe diverso se esistesse un opposizione capace di assumere oggi il governo, ma poiché non c’è - e questo mi sembra il vero, unico  problema politico dell’Italia oggi -, l’altra ipotesi, ma forse l’unica, di cui parlavo, sarebbe la vittoria del peggio -  cioè la lega, Tremonti,  insomma la destra, quella vera, di fronte alla quale Berlusconi è oggi il male minore. Paradossale dirlo, ma non posso fare a a meno di pensarlo: Berlusconi mi sembra l’ultima trincea contro il terribile. Altro che fascismo, qui c’è voglia di uccidere.

Se però alla fine mi convincerò a scrivere, partirò di lì, dalla morte del poeta: il declino dell’Italia - non della democrazia che è una forma di governo e basta, ma della comunità storica chiamata Italia -, della sua fine di cui non si vede la fine, la daterei dalla morte di Pasolini.  Quando una comunità storica uccide i suoi poeti, cioè ciò che di meglio sia in grado di produrre, perché i poeti fondano l’amicizia che da Aristotele a Derrida è ciò che ben più della giustizia rende possibile l’essere-assieme, e non ne fa il lutto ( il solo fatto di avere trasformato la sua morte in  un assassinio politico, di marca fascista, di aver  fatto diventare Pasolini il sostenitore del peggior terzomondismo, pauperismo, no globalismo d’accatto, continuando a negare la sua grandezza, l’unica vera, di poeta, sono le spie del lutto mancato; ci aggiungerei anche l’uso della sua omosessualità in  chiave di una democratica parità dei diritti e le innumerevoli  rese teatrali fatte per far vedere quanto si è impegnati e moderni, della scena dell’omosessualità di gruppo di Petrolio), ciò segna l’inizio della sua decadenza.   Si potrebbe a questo proposito seguire una suggestione dello stesso Pasolini e ricostruire una  filiazione poetica segnata dallo stesso destino: Petrolio porta come esergo un verso di Mandel’stam - “col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili” -, un poeta  condannato  da Stalin e morto in Siberia, che a sua volta riconosceva fra i suoi precursori l’Ovidio dei Tristia, il poeta dell’amore e delle metamorfosi esiliato da Augusto nel Ponto e lì lasciato marcire fino alla fine. Ovidio, Mandel’stam, Pasolini - Impero romano in decadenza, Russia stalianiana già cadaverica, Italia democristiana a un passo dal disastro.

Ma non parlerò di questo, parlerò invece della preveggenza dei poeti. Pasolini come tutti i poeti ha avuto una visione (la visione è d’altronde uno dei procedimenti narrativi usati in Petrolio):  in Italia si stava realizzando una mutazione antropologica - cioè ontologica, cosmico-storica, se no  che visione è?   -, dal mondo contadino, saltando l’intermezzo capitalistico-industriale, a quello del neocapitalismo fondato interamente sul consumo produttivo.  Dai produttori ai consumatori, ossia dai produttori ai produttori che sono produttori a condizione di essere dei consumatori. Vale a dire: non  che siano scomparsi i produttori, ma nel neocapitalismo si è produttori di plusvalore diventando consumatori, si produce consumando. Il consumo è il modo della produzione. E fin qui nulla di particolare. Chiarisco: Pasolini vive e legge tutto questo dalla prospettiva cristiano-primitiva, contadina, etc. Ora questa prospettiva, antistorica e probabilmente rezionaria, è esattamente quel che rende possibile la visione poetica; insomma Pasolini non avrebbe potuto vedere quel che che era implicito nel neocapitalismo se non avesse avuto questo retroterra reazionario. Non dico d’altronde nulla di nuovo: è tesi marxista che gli scrittori e i poeti quanto più sono socialmemte reazionari tanto più individuano l’avanzare del nuovo e le nuove possibilità storiche: Balzac, Baudelaire, Proust, Gadda, stanno lì a dimostrarlo. I progressisti si appiattiscono invece sul movimento storico e non vedono niente, anzi diventano complici compiaciuti  del peggio e finiscono per remare sempre contro le possibilità rivoluzionarie che quel nuovo aveva innescato. I progressisti, cioè i democratici, i moderni, i tolleranti, gli aperti, gli agnostici, etc quelli odiati sia da Nietzsche che da Baudelaire, sono i veri reazionari,  quelli che fanno da freno, da kathekon. Sono contro il messia.

Che cosa vede Pasolini allora? Vede che la direzione del neocapitalismo consumista non va verso  il consumo improduttivo, verso la dépense rivoluzionaria, ma  si indirizza  con  la complicità delle sinistre democratiche  verso un aumento del controllo, forme nuove ma più invadenti del potere, trionfo della sessualità eterosessuale anche quando si fa sfoggio di tolleranza verso i diversi. Quel che caratterizza il neocapitalismo è la coazione al godimento, la legge è Godi! (Lacan) La felicità è un dovere, godere un diritto, per ogni voglia c’è pronto un oggetto e l’ingiunzione a  servirsene. Non ci sono più merci, niente più feticcio, ma soltanto beni  individuabili e riconoscibili, fabbricati per darci piacere e sui quali abbiamo un diritto naturale. Non c’è più prezzo simbolico da pagare per avere accesso al godimento - quel che per il cattolico Pasolini era il peccato, l’omosessualità come peccato, godimento per il quale si poteva anche sfidare la morte - perché il godimento è un diritto. Se non ce l’abbiamo vuol dire che non ce le vogliono dare e allora noi ce lo prenderemo, anche con la forza, con la violenza se occorre, uccidendo e devastando.

Alle volte Pasolini è veramente urtante nella sua voglia di produrre scandalo per poi poter essere punito: ed è anche sconcertante il comportamento a specchio dei censori, magistrati etc che   corrono a soddisfare la sua ricerca di punizione. Processi su processi, denunce, sequestri: il poeta produce  gli schoks per essere sempre più all’altezza della sua vocazione poetica, per poter essere poeta. Deve scandalizzare, deve farsi punire, per vedere, per fare la rivoluzione poetica. Ed è ancora più urtante quando attacca gli studenti e si pronuncia a favore dei poliziotti, quando si mostra timido nei confronti del divorzio, quando  si schiera contro l’aborto. I progressisti l’hanno massacrato per questo. Ma se si legge più attentamente e con mente sgombra ci si accorge che le sue risposte ai problemi non sono mai veramente reazionarie: quando ad esempio si dichiara contro l’aborto propone però di trattarlo all’interno del problema dell’eutanasia e pensa ad una legge  per la depenalizzazione di quest’ultima.  Ma ancora più importante è il fatto che   Pasolini coglie nella battaglia per l’aborto come d’altronde in quella per il divorzio la presenza di un elemento coercitivo: l’uno e l’altro servono all’affermazione di un imperialismo della coppia eterosessuale, del suo diritto alla felicità, contro tutte le forme estreme della sessualità, contro la  perversione etc. Da qui discende che i suoi avversari non sono i reazionari dichiarati, i fascisti, i democristiani alla Fanfani, ma i progressisti, i tolleranti, i sostenitori del diritto alla felicità, cioè quelli che per lui sono i veri borghesi e i veri vincitori. Insomma: tutto il gruppo di Repubblica, tutti i non comunisti, le femministe filosofico-universitarie, i professori della scuola media unificata e quelli dei licei, tutti quelli che sono diventati oggi gli esponenti della sinistra italiana. Che infatti o odiano Pasolini o lo riducono ad un noglobal per disfarsene meglio.

Per Sciascia alla morte di Pasolini corrispondeva quella di Moro  quattro anni più tardi. Le due morti erano da porre sullo stesso piano. Ora, per quanto anche la morte di Moro segni la fine irreversibile della prima repubblica -  anche se, per il fatto che  la storia presenta accanto a momenti di forte accelerazione anche altri di profonda inerzia, ci sono voluti altri tredici anni e terremoti internazionali perché la fine diventasse effettuale -, le due morti sono incommensurabili. E non tanto perché un poeta è cosa diversa da un uomo di governo,  quanto per il fatto che l’uomo di governo in questione era esattamente agli antipodi di quella rivoluzione poetica della politica che era il problema dell’altro. La politica per Moro  era pura transazione, trasferimento di sovranità e passaggio di poteri. Una concezione della politica non dissimile da quella dei suoi carcerieri. Oggi che è di moda fare di Moro un martire più che del  partito comunista combattente (anche se all’epoca non si definiva ancora tale) della ragion di stato e il partito della fermezza - forse perché democristiano e comunista - viene additato al pubblico ludibrio, oggi che appunto Moro è trasformato in un martire della libertà e della insacrificabilità della vita, sarebbe il caso di ribadire invece la somiglianza spinta fino all’indiscernibilità della  posizione etico-politica di Moro e di quella della Brigate rosse: le lettere e soprattutto il cosiddetto memoriale, scritto nello stile delle risoluzioni strategiche delle BR e delle sentenze dei tribunali italiani - una lingua del dominio, burocratica e asfittica - testimoniano della piccineria dell’uomo e del politico: mai uno slancio, mai di fronte al terribile una lettura della propria storia e di quella dell’Italia in cui aveva avuto tanta parte animata da una visione, - poetica - da un destino: solo gestione del potere e inclusione indolore - al posto della conventio ad excludendum quella ad includendum -, senza rivoluzione, senza rottura, senza discontinuità. Solo l’onnipresente famiglia.
Non metto in discussione l’aspetto drammatico, disperante, della situazione, e quindi trovo normale i tentativi di Moro per salvarsi anche trattando con le BR e cercando di convincere lo stato a trattare a sua volta. Penso  anche  che le lettere siano autentiche e semmai che la tragedia stia proprio nel fatto che sono autentiche. Non mi interessano gli eroi e trovo la tesi che avrebbe dovuto morire a testa alta come un martire del risorgimento ridicola. Contesto invede l’idea stessa della politica e dell’azione di governo che esce da tutta la vicenda:  quello che è disperante è che uno che aveva diretto la politica italiana in posti di asssoluta responsabilità dalla liberazione fino al 1979 e che si accingeva a diventare presidente della Repubblica, si limiti a un pianto sulla propria famiglia. Sarebbe stato lecito aspettarsi invece qualcosa di diverso e di più:   una diversa concezione della storia e del paese che aveva governato. Soprattutto quando era diventato chiaro anche per lui che la partita era perduta e che le BR si erano incartate definitivamente.

Come tutte le visioni poetiche, anche quella di Pasolini si è avverata: quasi vent’anni dopo il consumo produttivo e con  esso tutte le trasformazioni sociali che esso implica,  le modifiche del capitalismo e delle forme del lavoro,  delle forme di vita e del godimento, è andato al governo nella persona di Silvio Berlusconi. Vale a dire nella persona che nella storia italiana aveva incarnato e rappresentato la via attraverso la quale il consumo produttivo aveva potuto affermarsi: il medium televisivo. Per quanto la televisione insieme a tutti i media elettrici costituisca per tutto l’occidente un elemento essenziale della sua modernizzazione, è del tutto vero che solo in Italia esso sembra aver assunto un ruolo straripante e assolutizzante. Ciò ha un ragione: se è stato intorno alla televisione che il consumo produttivo si è imposto in Italia, ciò è stato dovuto alla presenza della Rai, di questo carrozzone fascista e statalista sopravvissuto come quasi tutti gli apparati di stato alla  fine del fascismo. Non solo quindi difeso dal regime democristiano, ma anche dall’opposizione comunista il cui unico obiettivo è sempre stato quello di entrarvi, non quello di abolirlo. Fedele all’impostazione togliattiana  della centralità  dello stato, la strategia dei comunisti prima e dei ‘democratici’ dopo è stata quella di garantirsi l’accesso in condominio e in spartizione dellla televisione di stato. Se la Rai fosse stata smantellata, ridotta, se si fosse compresa in tempo la trasformazione inevitabile del capitalismo, Berlusconi non avrebbe potuto nemmeno, non avrebbe cioè avuto alcun interessse imprenditoriale in tale direzione,  costruire un impero di portata pari a quello di stato e non avrebbe   di conseguenza prodotto uno stato nello stato che alla fine e inevitabilmente ha sostituito quello ufficiale e ha preso il potere.
Le culture maggioritarie in Italia, quella cattolica e quella comunista-staliniana, stranamente alleate nella difesa dello stato, hanno eretto barricate di fronte al mercato neocapitalista, di fronte al consumo, in nome di una cultura  libresca, anticonsumistica, umanistica e spiritualistica, dimentica del desiderio e contraria anche alle forme possibili del godimento. Il risultato è stato aberrante: da un lato il neocapitalismo consumista, postfordista, si è imposto in Italia nella sua veste peggiore; dall’altro le vecchie postazioni comuniste  si sono viste soppiantate  da quelle ‘democratiche’ la cui unica prestazione politico-culturale consiste nel promuovere  il discorso   del godimento coatto, del diritto alla felicità etc di cui parlava Pasolini e proprio del consumismo neocapitalistico presentandosi contemporaneamente come i più acerrimi nemici degli effetti devastanti della cultura televisiva. Da un  lato quindi impedendone la comprensione effettiva e di conseguenza anche la possibilità di una  rivoluzione politica che mentre li cambia si fa però attraverso essi e a causa di essi, dall’altro  però, sottomentendoli ad una gerarchia culturale passata e morta,  utilizzandoli per l’affermazione del proprio potere.

 Berlusconi è il consumo. Ma anche l’insieme delle pratiche per evitare gli esiti rivoluzionari  di quest’ultimo. Per questa ragione  avrebbe qualche senso usare nei suoi confronti le categorie gramsciane di ‘rivoluzione passiva’ e di ‘cesarismo progressivo’: detto in modo più brutale i tentativi di modernizzazione in Italia sono sempre stati appannaggio di cialtroni - Mussolini, Craxi, Berlusconi. Cialtroni nel senso di  non aver avuto la capacità, culturale innazitutto, di portare i processi di modernizzazione fino in fondo in modo da spingere le contraddizioni  ai più alti livelli. Si sono fermati sempre abbondantemente prima  e se nel caso di Mussolini non ci fosse stato l’errore tragico della guerra, il fascismo sarebbe sopravissuto ancora a lungo. A questo proposito ha qualche ragione da vendere l’ipotesi che l’avvento di Berlusconi con lo sdoganamento del MSI e la fine dei democristiani, dei socialisti e dei comunisti - sono finiti anche loro anche se sembrano sopravvivere -, cioè con  la fine del dominio dell’arco costituzionale, rappresenti la rivincita dei congiurati del 25 luglio il cui tentativo di  salvare il fascismo buttando a mare Mussolini fallì solo perché le truppe tedesche occupavano già gran parte dell’Italia e rendevano impossibile il tradizionale giro di valzer della alleanze. Da qui la lotta partigiana, la guerra civile e finalmente per l’Italia la catastrofe che spinge all’effettivo mutamento. Altrimenti le situazioni italiuane sono tutte e sempre, come diceva Flaiano, drammatiche ma non serie.

Ovviamente se le modernizzazione italiane sono state sempre tentate dai cialtroni ciò dipende dal fatto che i progressisti di questo paese quando si è trattato di essere seri e di prendere una posizione di rottura e di discontinuità si sono sempre schierati sui fronti conservatori costruendo poi i miti fondatori del paese in modo che legittimassero il loro potere: risorgimento, resistenza, costituzione, stato democratico. I veri responsabili del disastro italiano sono loro, i borghesi democratico-progressisti rivoluzionari a parole e pronti al compromesso nei fatti, difensori sempre delle vecchie culture di classe, oggi del libro contro la rete, della scuola contro l’immagine - lo slogan ‘la cultura non è merce’ impedisce di riconoscere i produttori della cultura di massa  come parte della classe - senza accorgersi che nella rete si scrive come non mai, è tutto una scrittura.

 La contraddizione insanabile  del capitalismo giunto alla fase della produzione attraverso il consumo sta nel fatto da un lato di comandare il  godimento attraverso il servizio dei beni e dall’altro di non  poterlo soddisfare perché dal momento  che l’oggetto del desiderio è un oggetto impossibile il godimento è necessariamente sbarrato. Questa contraddizione è della stessa natura logico-antropologico-storica di quella insita nella forma merce:   poiché la merce è benjaminianamente immagine di desiderio essa che dovrebbe assicurare il profitto capitalistico attraverso la produzione di plusvalore  va incontro ad un punto in cui non è più scambiabile col godimento e cessa di produrre profitto.  Come fa il capitalismo ad evitare la contraddizione la cui forza lo condurrebbe al tramonto implicando il passaggio allo spreco, al dispendio, cioè al consuno improduttivo, in pura perdita?  Questo passaggio infatti  richiederebbe un tipo diverso di società in cui la dépense dovrebbe diventare istituzione al posto dello stato che mira sempre all’efficacia dell’intero, al funzionamento e all’armonia anche se coatta.  In  altri termini  una società non più capitalistica sarebbe quella che governerebbe l’impossibilità dell’oggetto del desiderio con forme e istituzioni di natura poetica, tali cioè da rendere possibile l’amicizia a partire dall’impossibile.
La conseguenza di questo discorso è che la società neocapitalistica nel momento in cui proclama la legge del godimento ed afferma la presenza dell’oggetto che produrrà il godimento deve parare il fatto che quest’oggetto però è impossibile: ora impossibile non vuol dire inesistente, ma esistente secondo la modalità dell’impossiìbile. Freud ha chiamato  l’oggetto con un tale statuto il perturbante, l’oggetto  ad esempio vivo e morto ad un  tempo, animato e meccanico, maschile e femminile, sensibile e sovrasensibile (la merce),  che quando appare destabilizza il soggetto individuale e/o collettivo. Se non si offre appuunto un’istituzione capace di farsene carico, i suoi effetti sono devastanti, nevrotici nei casi migliori, psicotici in quelli peggiori, perversi in tutti i casi intermedi.  
Cosa fare allora? Bisogna da un lato impedire la sua comparsa che dall’altro è però costantemente evocata, anzi imposta. Poiché per Freud l’angoscia è il segnale di pericolo che annuncia l’emergenza nel reale dell’oggetto del desiderio, ossia la sua comparsa come perturbante, è necessario da un lato produrre angoscia generalizzata e dall’altro canalizzarla affinché non debordi dai limiti del neocapitalismo. È questa la prestazione delle nuove figure della sovranità politica postmoderna: canalizzare angoscia, essere dei collettori di angoscia.

Berlusconi è questo: un immagazzinatore di angoscia. Per esserlo deve essere da un lato angosciato lui stesso per permettere l’identificazione per immedesimazione e per paura, dall’altro deve essere in grado di suscitare il desiderio, o più precisamente di offrirsi come la cornice in cui può apparire l’oggetto del desiderio. Dal momento che il corpo femminile è l’involucro in cui può manifestarsi l’oggetto del desiderio, cioè il fallo - come diceva Lacan la girl è il fallo -, checché ne pensino le femministe,   Berlusconi è donna, il suo corpo è  un corpo femminile. Tutti i suoi tratti lo collocano su questo lato della differenza sessuale e impediscono la sua identificazione con elementi maschili che tanto più sono machisti quanto più sono castrati. Berluscono non è castrato, è al di là del fallo, che vuol dire per un uomo al di là della prostata. D’altronde come avrebbe potuto essere maschile  il padre della televisione, cioè dello scatenamento del desiderio, della ricerca del godimento e non semplicemente del godimento fallico, cioè maschile, ma del godimento in più che caratterizza le donne? Il suo narcisismo spinto fino alla patologia, la sua necessità di essere amato fino all’adorazione, la sua preoccupazione del corpo, della sua durata e della sua bellezza, il suo amore sadiano per la bellezza  perfetta e immutabile, il suo desiderio di immortalità, il suo rifiuto della morte per cui non ne vuole neppure sentir parlare, il bisogno di conquista continuata, sono tutte caratteristiche che fanno di Berlusconi una “bella figa”, una “puttana”, una donna  perfetta, ultradesiderabile. Se il suo corpo è in primo luogo merce è perché la merce è l’immagine del desiderio. Se è vero il suo inteesse per le escort ciò vuol dire che s’identifica con loro: qualche anno fa si venne a sapere, lo raccontò lui stesso, che aveva telefonato ad un pornostar televisiva per sapere se votava per lui! Quando dice che le donne sono più brave, che sono il più bel dono di dio, lo pensa davvero, dal momento che lo pensa di se stesso.

Più Berlusconi evoca l’oggetto del desiderio più è chiamato a produrre angoscia per sé e i suoi  cittadini.  Perciò insiste tanto sul ‘fare’ e si presenta come l’uomo del fare contrapposto al politico: è ancora Lacan che ci può aiutare quando nota che l’azione  è solamente una scarica d’angoscia. Berlusconi deve agire, essere pratico: agire appunto nel senso della praxis, non dell’atto che rinvia all’attualizzazione di una potenza. No! Berlusconi trasferisce fuori di sé attraverso l’azione grumi d’angoscia e così facendo avverte la gente del pericolo e la gente corre ai ripari ciascuno a suo modo: il leghista identificando il perturbante nel migrante clandestino, l’anti berlusconiano alla Di Pietro in Berlusconi stesso. La prestazione più alta  di Berlusconi è di offrirsi come l’oggetto perturbante comprensibile e contro cui si può combattere, atto quindi  a saturare l’angoscia senza effetti eccessivamente sconvolgenti.

Ecco perché sono pessimista: tra poco Berlusconi non ce la farà più a produrre angoscia e a parare così la contraddizione del desiderio nel neocapitalismo. Ci sarà bisogno per placare l’angoscia di qualche oggetto da distruggere sul serio e non  solamente in effigie o per finta. Noi ci siamo vicinissimi: già vedo costruire i campi e innalzarsi il fumo.