Ripubblico qui un intervento sulla situazione italiana pubblicato sulla rivista online Inschibboleth nel dicembre del 2010 e che riletto adesso mi sembra profetico.
Appunti sulla situazione italiana
Non dico che non c’è il
fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo
è un paesaggio diverso. Qui c’è voglia di uccidere.
Pier Paolo Pasolini
Una rivoluzione politica
senza rivoluzione poetica del politico non è mai altro che un trasferimento di
sovranità e un passaggio di poteri.
Jacques Derrida
(Le
pagine che seguono sono una scaletta per un saggio sull’Italia berlusconiana di
cui rinvio la stesura definitiva un po’ per l’impopolarità delle tesi che vi
sostengo e un po’ per il rischio, stante la rapidità con cui cambia la
situazione politica, di vedere smentite le mie previsioni prima ancora che
esse siano enunciate. Approfitto dell’ospitalità
di InSchibboleth per dare una
prima versione pubblica delle mie ipotesi sull’Italia sperando che sia un buon
viatico perché possano assumere in tempi brevi la forma del saggio compiuto).
Ho un
titolo (La morte del poeta) e due
eserghi, ma non è detto che ci sarà
un testo a seguire. Se ci sarà, sarà
purtroppo colorato di pessimismo,
pessimismo su tutta la linea. Ammettiamo che Berlusconi sia costretto alla fine a
fare, come si dice, un passo indietro, a dimettersi insomma, gli scenari che si
aprono mi sembrano due o forse uno solo. Pezzi della maggioranza, il centro di
Casini, l’appoggio esterno della cosiddetta opposizione, tutti sotto la
direzione della terza carica dello stato, quindi con una copertura
istituzionale, complice anche e soprattuto Napolitano, assumono il governo: il
vecchio arco costituzionale della cosiddetta prima repubblica come già nel ’96
cerca di ritornare al potere. Al di là della questione se esistano oggi le condizioni per la
effettualità di una simile ipotesi, c’è da domandarsi se sia auspicabile in
quanto tale, se abbia senso per noi
desiderarla. So che per molti il
passato, specialmente quando si invecchia, sembra sempre meglio del presente o
del futuro - che rischiamo d’altronde di non vedere -, ma questo passato,
quello della vecchia politica, quello del compromesso storico, dell’incontro
fra i cattolici e post comunisti, quello
contro cui si scagliava Pasolini all’inizio degli anni settanta, non è meglio
del presente di Berlusconi. Non solo quindi desiderarla mi sembra un modo per non vedere il presente in cui siamo, ma penso che proprio per questo non reggerebbe,
si dissolverebbe molto più rapidamente di quanto non ci sia dato di immaginare.
Sarebbe diverso se esistesse un opposizione capace di assumere oggi il governo,
ma poiché non c’è - e questo mi sembra il vero, unico problema politico dell’Italia oggi -, l’altra
ipotesi, ma forse l’unica, di cui parlavo, sarebbe la vittoria del peggio - cioè la lega, Tremonti, insomma la destra, quella vera, di fronte
alla quale Berlusconi è oggi il male minore. Paradossale dirlo, ma non posso
fare a a meno di pensarlo: Berlusconi mi sembra l’ultima trincea contro il
terribile. Altro che fascismo, qui c’è voglia di uccidere.
Se però
alla fine mi convincerò a scrivere, partirò di lì, dalla morte del poeta: il
declino dell’Italia - non della democrazia che è una forma di governo e basta,
ma della comunità storica chiamata Italia -, della sua fine di cui non si vede
la fine, la daterei dalla morte di Pasolini.
Quando una comunità storica uccide i suoi poeti, cioè ciò che di meglio
sia in grado di produrre, perché i poeti fondano l’amicizia che da Aristotele a
Derrida è ciò che ben più della giustizia rende possibile l’essere-assieme, e
non ne fa il lutto ( il solo fatto di avere trasformato la sua morte in un assassinio politico, di marca fascista, di
aver fatto diventare Pasolini il
sostenitore del peggior terzomondismo, pauperismo, no globalismo d’accatto,
continuando a negare la sua grandezza, l’unica vera, di poeta, sono le spie del
lutto mancato; ci aggiungerei anche l’uso della sua omosessualità in chiave di una democratica parità dei diritti
e le innumerevoli rese teatrali fatte per
far vedere quanto si è impegnati e moderni, della scena dell’omosessualità di
gruppo di Petrolio), ciò segna
l’inizio della sua decadenza. Si
potrebbe a questo proposito seguire una suggestione dello stesso Pasolini e
ricostruire una filiazione poetica
segnata dallo stesso destino: Petrolio
porta come esergo un verso di Mandel’stam - “col mondo del potere non ho avuto
che vincoli puerili” -, un poeta
condannato da Stalin e morto in
Siberia, che a sua volta riconosceva fra i suoi precursori l’Ovidio dei Tristia, il poeta dell’amore e delle
metamorfosi esiliato da Augusto nel Ponto e lì lasciato marcire fino alla fine.
Ovidio, Mandel’stam, Pasolini - Impero romano in decadenza, Russia stalianiana
già cadaverica, Italia democristiana a un passo dal disastro.
Ma non
parlerò di questo, parlerò invece della preveggenza dei poeti. Pasolini come
tutti i poeti ha avuto una visione (la visione è d’altronde uno dei
procedimenti narrativi usati in Petrolio): in Italia si stava realizzando una mutazione
antropologica - cioè ontologica, cosmico-storica, se no che visione è? -, dal mondo contadino, saltando
l’intermezzo capitalistico-industriale, a quello del neocapitalismo fondato
interamente sul consumo produttivo. Dai
produttori ai consumatori, ossia dai produttori ai produttori che sono produttori
a condizione di essere dei consumatori. Vale a dire: non che siano scomparsi i produttori, ma nel
neocapitalismo si è produttori di plusvalore diventando consumatori, si produce
consumando. Il consumo è il modo della produzione. E fin qui nulla di particolare.
Chiarisco: Pasolini vive e legge tutto questo dalla prospettiva
cristiano-primitiva, contadina, etc. Ora questa prospettiva, antistorica e
probabilmente rezionaria, è esattamente quel che rende possibile la visione
poetica; insomma Pasolini non avrebbe potuto vedere quel che che era implicito
nel neocapitalismo se non avesse avuto questo retroterra reazionario. Non dico
d’altronde nulla di nuovo: è tesi marxista che gli scrittori e i poeti quanto
più sono socialmemte reazionari tanto più individuano l’avanzare del nuovo e le
nuove possibilità storiche: Balzac, Baudelaire, Proust, Gadda, stanno lì a
dimostrarlo. I progressisti si appiattiscono invece sul movimento storico e non
vedono niente, anzi diventano complici compiaciuti del peggio e finiscono per remare sempre
contro le possibilità rivoluzionarie che quel nuovo aveva innescato. I
progressisti, cioè i democratici, i moderni, i tolleranti, gli aperti, gli
agnostici, etc quelli odiati sia da Nietzsche che da Baudelaire, sono i veri
reazionari, quelli che fanno da freno,
da kathekon. Sono contro il messia.
Che cosa
vede Pasolini allora? Vede che la direzione del neocapitalismo consumista non
va verso il consumo improduttivo, verso
la dépense rivoluzionaria, ma si
indirizza con la complicità delle sinistre
democratiche verso un aumento del
controllo, forme nuove ma più invadenti del potere, trionfo della sessualità
eterosessuale anche quando si fa sfoggio di tolleranza verso i diversi. Quel
che caratterizza il neocapitalismo è la coazione al godimento, la legge è Godi!
(Lacan) La felicità è un dovere, godere un diritto, per ogni voglia c’è pronto
un oggetto e l’ingiunzione a servirsene.
Non ci sono più merci, niente più feticcio, ma soltanto beni individuabili e riconoscibili, fabbricati per
darci piacere e sui quali abbiamo un diritto naturale. Non c’è più prezzo
simbolico da pagare per avere accesso al godimento - quel che per il cattolico
Pasolini era il peccato, l’omosessualità come peccato, godimento per il quale
si poteva anche sfidare la morte - perché il godimento è un diritto. Se non ce
l’abbiamo vuol dire che non ce le vogliono dare e allora noi ce lo prenderemo,
anche con la forza, con la violenza se occorre, uccidendo e devastando.
Alle
volte Pasolini è veramente urtante nella sua voglia di produrre scandalo per
poi poter essere punito: ed è anche sconcertante il comportamento a specchio
dei censori, magistrati etc che corrono
a soddisfare la sua ricerca di punizione. Processi su processi, denunce,
sequestri: il poeta produce gli schoks
per essere sempre più all’altezza della sua vocazione poetica, per poter essere
poeta. Deve scandalizzare, deve farsi punire, per vedere, per fare la
rivoluzione poetica. Ed è ancora più urtante quando attacca gli studenti e si
pronuncia a favore dei poliziotti, quando si mostra timido nei confronti del
divorzio, quando si schiera contro
l’aborto. I progressisti l’hanno massacrato per questo. Ma se si legge più
attentamente e con mente sgombra ci si accorge che le sue risposte ai problemi
non sono mai veramente reazionarie: quando ad esempio si dichiara contro
l’aborto propone però di trattarlo all’interno del problema dell’eutanasia e
pensa ad una legge per la
depenalizzazione di quest’ultima. Ma
ancora più importante è il fatto che
Pasolini coglie nella battaglia per l’aborto come d’altronde in quella
per il divorzio la presenza di un elemento coercitivo: l’uno e l’altro servono
all’affermazione di un imperialismo della coppia eterosessuale, del suo diritto
alla felicità, contro tutte le forme estreme della sessualità, contro la perversione etc. Da qui discende che i suoi
avversari non sono i reazionari dichiarati, i fascisti, i democristiani alla
Fanfani, ma i progressisti, i tolleranti, i sostenitori del diritto alla
felicità, cioè quelli che per lui sono i veri borghesi e i veri vincitori.
Insomma: tutto il gruppo di Repubblica, tutti i non comunisti, le femministe
filosofico-universitarie, i professori della scuola media unificata e quelli
dei licei, tutti quelli che sono diventati oggi gli esponenti della sinistra
italiana. Che infatti o odiano Pasolini o lo riducono ad un noglobal per
disfarsene meglio.
Per
Sciascia alla morte di Pasolini corrispondeva quella di Moro quattro anni più tardi. Le due morti erano da
porre sullo stesso piano. Ora, per quanto anche la morte di Moro segni la fine
irreversibile della prima repubblica -
anche se, per il fatto che la
storia presenta accanto a momenti di forte accelerazione anche altri di
profonda inerzia, ci sono voluti altri tredici anni e terremoti internazionali
perché la fine diventasse effettuale -, le due morti sono incommensurabili. E
non tanto perché un poeta è cosa diversa da un uomo di governo, quanto per il fatto che l’uomo di governo in
questione era esattamente agli antipodi di quella rivoluzione poetica della
politica che era il problema dell’altro. La politica per Moro era pura transazione, trasferimento di
sovranità e passaggio di poteri. Una concezione della politica non dissimile da
quella dei suoi carcerieri. Oggi che è di moda fare di Moro un martire più che
del partito comunista combattente (anche
se all’epoca non si definiva ancora tale) della ragion di stato e il partito
della fermezza - forse perché democristiano e comunista - viene additato al
pubblico ludibrio, oggi che appunto Moro è trasformato in un martire della
libertà e della insacrificabilità della vita, sarebbe il caso di ribadire
invece la somiglianza spinta fino all’indiscernibilità della posizione etico-politica di Moro e di quella
della Brigate rosse: le lettere e soprattutto il cosiddetto memoriale, scritto
nello stile delle risoluzioni strategiche delle BR e delle sentenze dei
tribunali italiani - una lingua del dominio, burocratica e asfittica -
testimoniano della piccineria dell’uomo e del politico: mai uno slancio, mai di
fronte al terribile una lettura della propria storia e di quella dell’Italia in
cui aveva avuto tanta parte animata da una visione, - poetica - da un destino:
solo gestione del potere e inclusione indolore - al posto della conventio ad
excludendum quella ad includendum -, senza rivoluzione, senza rottura, senza
discontinuità. Solo l’onnipresente famiglia.
Non
metto in discussione l’aspetto drammatico, disperante, della situazione, e
quindi trovo normale i tentativi di Moro per salvarsi anche trattando con le BR
e cercando di convincere lo stato a trattare a sua volta. Penso anche
che le lettere siano autentiche e semmai che la tragedia stia proprio
nel fatto che sono autentiche. Non mi interessano gli eroi e trovo la tesi che
avrebbe dovuto morire a testa alta come un martire del risorgimento ridicola.
Contesto invede l’idea stessa della politica e dell’azione di governo che esce
da tutta la vicenda: quello che è
disperante è che uno che aveva diretto la politica italiana in posti di asssoluta
responsabilità dalla liberazione fino al 1979 e che si accingeva a diventare
presidente della Repubblica, si limiti a un pianto sulla propria famiglia.
Sarebbe stato lecito aspettarsi invece qualcosa di diverso e di più: una diversa concezione della storia e del
paese che aveva governato. Soprattutto quando era diventato chiaro anche per
lui che la partita era perduta e che le BR si erano incartate definitivamente.
Come
tutte le visioni poetiche, anche quella di Pasolini si è avverata: quasi
vent’anni dopo il consumo produttivo e con
esso tutte le trasformazioni sociali che esso implica, le modifiche del capitalismo e delle forme
del lavoro, delle forme di vita e del godimento,
è andato al governo nella persona di Silvio Berlusconi. Vale a dire nella
persona che nella storia italiana aveva incarnato e rappresentato la via
attraverso la quale il consumo produttivo aveva potuto affermarsi: il medium
televisivo. Per quanto la televisione insieme a tutti i media elettrici
costituisca per tutto l’occidente un elemento essenziale della sua
modernizzazione, è del tutto vero che solo in Italia esso sembra aver assunto
un ruolo straripante e assolutizzante. Ciò ha un ragione: se è stato intorno
alla televisione che il consumo produttivo si è imposto in Italia, ciò è stato
dovuto alla presenza della Rai, di questo carrozzone fascista e statalista
sopravvissuto come quasi tutti gli apparati di stato alla fine del fascismo. Non solo quindi difeso dal
regime democristiano, ma anche dall’opposizione comunista il cui unico
obiettivo è sempre stato quello di entrarvi, non quello di abolirlo. Fedele
all’impostazione togliattiana della
centralità dello stato, la strategia dei
comunisti prima e dei ‘democratici’ dopo è stata quella di garantirsi l’accesso
in condominio e in spartizione dellla televisione di stato. Se la Rai fosse
stata smantellata, ridotta, se si fosse compresa in tempo la trasformazione
inevitabile del capitalismo, Berlusconi non avrebbe potuto nemmeno, non avrebbe
cioè avuto alcun interessse imprenditoriale in tale direzione, costruire un impero di portata pari a quello
di stato e non avrebbe di conseguenza
prodotto uno stato nello stato che alla fine e inevitabilmente ha sostituito
quello ufficiale e ha preso il potere.
Le
culture maggioritarie in Italia, quella cattolica e quella
comunista-staliniana, stranamente alleate nella difesa dello stato, hanno
eretto barricate di fronte al mercato neocapitalista, di fronte al consumo, in
nome di una cultura libresca,
anticonsumistica, umanistica e spiritualistica, dimentica del desiderio e
contraria anche alle forme possibili del godimento. Il risultato è stato
aberrante: da un lato il neocapitalismo consumista, postfordista, si è imposto
in Italia nella sua veste peggiore; dall’altro le vecchie postazioni comuniste si sono viste soppiantate da quelle ‘democratiche’ la cui unica
prestazione politico-culturale consiste nel promuovere il discorso
del godimento coatto, del diritto alla felicità etc di cui parlava
Pasolini e proprio del consumismo neocapitalistico presentandosi contemporaneamente
come i più acerrimi nemici degli effetti devastanti della cultura televisiva.
Da un lato quindi impedendone la
comprensione effettiva e di conseguenza anche la possibilità di una rivoluzione politica che mentre li cambia si
fa però attraverso essi e a causa di essi, dall’altro però, sottomentendoli ad una gerarchia
culturale passata e morta, utilizzandoli
per l’affermazione del proprio potere.
Berlusconi è il consumo. Ma anche l’insieme
delle pratiche per evitare gli esiti rivoluzionari di quest’ultimo. Per questa ragione avrebbe qualche senso usare nei suoi
confronti le categorie gramsciane di ‘rivoluzione passiva’ e di ‘cesarismo
progressivo’: detto in modo più brutale i tentativi di modernizzazione in
Italia sono sempre stati appannaggio di cialtroni - Mussolini, Craxi,
Berlusconi. Cialtroni nel senso di non
aver avuto la capacità, culturale innazitutto, di portare i processi di
modernizzazione fino in fondo in modo da spingere le contraddizioni ai più alti livelli. Si sono fermati sempre
abbondantemente prima e se nel caso di
Mussolini non ci fosse stato l’errore tragico della guerra, il fascismo sarebbe
sopravissuto ancora a lungo. A questo proposito ha qualche ragione da vendere
l’ipotesi che l’avvento di Berlusconi con lo sdoganamento del MSI e la fine dei
democristiani, dei socialisti e dei comunisti - sono finiti anche loro anche se
sembrano sopravvivere -, cioè con la
fine del dominio dell’arco costituzionale, rappresenti la rivincita dei congiurati
del 25 luglio il cui tentativo di
salvare il fascismo buttando a mare Mussolini fallì solo perché le
truppe tedesche occupavano già gran parte dell’Italia e rendevano impossibile
il tradizionale giro di valzer della alleanze. Da qui la lotta partigiana, la
guerra civile e finalmente per l’Italia la catastrofe che spinge all’effettivo
mutamento. Altrimenti le situazioni italiuane sono tutte e sempre, come diceva
Flaiano, drammatiche ma non serie.
Ovviamente
se le modernizzazione italiane sono state sempre tentate dai cialtroni ciò dipende
dal fatto che i progressisti di questo paese quando si è trattato di essere
seri e di prendere una posizione di rottura e di discontinuità si sono sempre
schierati sui fronti conservatori costruendo poi i miti fondatori del paese in
modo che legittimassero il loro potere: risorgimento, resistenza, costituzione,
stato democratico. I veri responsabili del disastro italiano sono loro, i
borghesi democratico-progressisti rivoluzionari a parole e pronti al
compromesso nei fatti, difensori sempre delle vecchie culture di classe, oggi
del libro contro la rete, della scuola contro l’immagine - lo slogan ‘la
cultura non è merce’ impedisce di riconoscere i produttori della cultura di
massa come parte della classe - senza accorgersi
che nella rete si scrive come non mai, è tutto una scrittura.
La contraddizione insanabile del capitalismo giunto alla fase della
produzione attraverso il consumo sta nel fatto da un lato di comandare il godimento attraverso il servizio dei beni e
dall’altro di non poterlo soddisfare
perché dal momento che l’oggetto del
desiderio è un oggetto impossibile il godimento è necessariamente sbarrato.
Questa contraddizione è della stessa natura logico-antropologico-storica di
quella insita nella forma merce: poiché
la merce è benjaminianamente immagine di desiderio essa che dovrebbe assicurare
il profitto capitalistico attraverso la produzione di plusvalore va incontro ad un punto in cui non è più
scambiabile col godimento e cessa di produrre profitto. Come fa il capitalismo ad evitare la
contraddizione la cui forza lo condurrebbe al tramonto implicando il passaggio
allo spreco, al dispendio, cioè al consuno improduttivo, in pura perdita? Questo passaggio infatti richiederebbe un tipo diverso di società in
cui la dépense dovrebbe diventare istituzione al posto dello stato che mira
sempre all’efficacia dell’intero, al funzionamento e all’armonia anche se
coatta. In altri termini
una società non più capitalistica sarebbe quella che governerebbe
l’impossibilità dell’oggetto del desiderio con forme e istituzioni di natura
poetica, tali cioè da rendere possibile l’amicizia a partire dall’impossibile.
La
conseguenza di questo discorso è che la società neocapitalistica nel momento in
cui proclama la legge del godimento ed afferma la presenza dell’oggetto che
produrrà il godimento deve parare il fatto che quest’oggetto però è
impossibile: ora impossibile non vuol dire inesistente, ma esistente secondo la
modalità dell’impossiìbile. Freud ha chiamato
l’oggetto con un tale statuto il perturbante, l’oggetto ad esempio vivo e morto ad un tempo, animato e meccanico, maschile e
femminile, sensibile e sovrasensibile (la merce), che quando appare destabilizza il soggetto
individuale e/o collettivo. Se non si offre appuunto un’istituzione capace di
farsene carico, i suoi effetti sono devastanti, nevrotici nei casi migliori,
psicotici in quelli peggiori, perversi in tutti i casi intermedi.
Cosa
fare allora? Bisogna da un lato impedire la sua comparsa che dall’altro è però
costantemente evocata, anzi imposta. Poiché per Freud l’angoscia è il segnale
di pericolo che annuncia l’emergenza nel reale dell’oggetto del desiderio,
ossia la sua comparsa come perturbante, è necessario da un lato produrre
angoscia generalizzata e dall’altro canalizzarla affinché non debordi dai
limiti del neocapitalismo. È questa la prestazione delle nuove figure della
sovranità politica postmoderna: canalizzare angoscia, essere dei collettori di
angoscia.
Berlusconi
è questo: un immagazzinatore di angoscia. Per esserlo deve essere da un lato
angosciato lui stesso per permettere l’identificazione per immedesimazione e
per paura, dall’altro deve essere in grado di suscitare il desiderio, o più
precisamente di offrirsi come la cornice in cui può apparire l’oggetto del
desiderio. Dal momento che il corpo femminile è l’involucro in cui può
manifestarsi l’oggetto del desiderio, cioè il fallo - come diceva Lacan la girl
è il fallo -, checché ne pensino le femministe, Berlusconi è donna, il suo corpo è un corpo femminile. Tutti i suoi tratti lo
collocano su questo lato della differenza sessuale e impediscono la sua
identificazione con elementi maschili che tanto più sono machisti quanto più
sono castrati. Berluscono non è castrato, è al di là del fallo, che vuol dire
per un uomo al di là della prostata. D’altronde come avrebbe potuto essere
maschile il padre della televisione,
cioè dello scatenamento del desiderio, della ricerca del godimento e non
semplicemente del godimento fallico, cioè maschile, ma del godimento in più che
caratterizza le donne? Il suo narcisismo spinto fino alla patologia, la sua
necessità di essere amato fino all’adorazione, la sua preoccupazione del corpo,
della sua durata e della sua bellezza, il suo amore sadiano per la bellezza perfetta e immutabile, il suo desiderio di
immortalità, il suo rifiuto della morte per cui non ne vuole neppure sentir
parlare, il bisogno di conquista continuata, sono tutte caratteristiche che
fanno di Berlusconi una “bella figa”, una “puttana”, una donna perfetta, ultradesiderabile. Se il suo corpo
è in primo luogo merce è perché la merce è l’immagine del desiderio. Se è vero
il suo inteesse per le escort ciò vuol dire che s’identifica con loro: qualche
anno fa si venne a sapere, lo raccontò lui stesso, che aveva telefonato ad un pornostar
televisiva per sapere se votava per lui! Quando dice che le donne sono più
brave, che sono il più bel dono di dio, lo pensa davvero, dal momento che lo
pensa di se stesso.
Più
Berlusconi evoca l’oggetto del desiderio più è chiamato a produrre angoscia per
sé e i suoi cittadini. Perciò insiste tanto sul ‘fare’ e si presenta
come l’uomo del fare contrapposto al politico: è ancora Lacan che ci può
aiutare quando nota che l’azione è
solamente una scarica d’angoscia. Berlusconi deve agire, essere pratico: agire
appunto nel senso della praxis, non dell’atto che rinvia all’attualizzazione di
una potenza. No! Berlusconi trasferisce fuori di sé attraverso l’azione grumi
d’angoscia e così facendo avverte la gente del pericolo e la gente corre ai
ripari ciascuno a suo modo: il leghista identificando il perturbante nel
migrante clandestino, l’anti berlusconiano alla Di Pietro in Berlusconi stesso.
La prestazione più alta di Berlusconi è
di offrirsi come l’oggetto perturbante comprensibile e contro cui si può
combattere, atto quindi a saturare
l’angoscia senza effetti eccessivamente sconvolgenti.
Ecco
perché sono pessimista: tra poco Berlusconi non ce la farà più a produrre
angoscia e a parare così la contraddizione del desiderio nel neocapitalismo. Ci
sarà bisogno per placare l’angoscia di qualche oggetto da distruggere sul serio
e non solamente in effigie o per finta.
Noi ci siamo vicinissimi: già vedo costruire i campi e innalzarsi il fumo.