venerdì 8 maggio 2020

  Paura e pericolo

Ma chi l’ha detto che la paura deve essere di destra? Fosse vero, tanto per scimmiottare Giorgio Gaber, dovremmo sostenere allora che l’angoscia è di sinistra?  Come il compito, in genere affidato ai capiclasse nelle scuole elementari, di, in assenza del maestro, segnare alla lavagna gli elenchi dei buoni e dei cattivi, non ha mai accresciuto il tasso di moralità dei giovani italiani (semmai ha sempre prodotto un irresistibile simpatia per i cattivi, Franti incluso), così la differenza fra la destra e la sinistra, di per sé confusa, ribaltabile e  dai confini incerti, se presa eccessivamente sul serio, rischia di confondere le idee invece di chiarirle.
Meglio chiedersi allora perché la paura, questa fondamentale passione umana, abbia oggi da noi una così cattiva reputazione. In questi tempi oscuri, in questi tempi di coronavirus, mi è capitato di leggere su Facebook, da parte di alcuni dei miei ‘amici’ (ahimè) vere e proprie invettive nei confronti dei ‘paurosi’, ossia verso coloro che   se ne stanno buoni buoni a casa, che, se escono, indossano la mascherina e i guanti, e una volta per strada cercano di mantenersi alla distanza di un metro o due dagli altri. Facendo parte della categoria più a rischio, gli anziani con, come si dice con un termine orribile, comorbilità, mi sono subito riconosciuto nel ritratto del ‘pauroso’ e mi sono chiesto: ‘ma perché tanto odio’? Cosa gli hanno fatto i ‘paurosi’ per meritarsi un disprezzo simile? Il più delle volte la risposta, implicita o esplicita, è che la paura rende alleati, se non servi, del potere, il che, come è noto, è una convinzione di sinistra. Come è di sinistra anche la tesi che il potere, di qualunque forma sia e da chiunque venga esercitato, è cosa riprovevole, immorale e oppressiva. Cosicché la paura del contagio, intenzionalmente alimentata da chi detiene le leve del comando, ci spingerebbe ad accettare supinamente le restrizioni o l’abolizione vera e propria delle nostre libertà fondamentali, rendendoci servi volontari di un potere arbitrario che giustifica se stesso in nome dello stato d’eccezione rappresentato dall’epidemia virale.      
Che l’incutere timore faccia parte delle tecniche necessarie per esercitare il comando politico è cosa nota da tempo immemorabile.   Che la paura invece costituisca il fondamento dell’autorità sovrana è probabilmente tesi più recente e che ha un nome e un cognome. È infatti a Thomas Hobbes che va forse addebitata la principale responsabilità per la formulazione della tesi secondo la quale la paura è all’origine della formazione dello stato. La paura non è più per lui soltanto il deterrente usato dallo stato per distogliere i suoi sudditi dalla tentazione di attentare al suo potere, ma il nuovo fondamento dell’autorità sovrana, dopo il collasso di quello divino delegittimato dalla violenza delle guerre di religione.   
Sembra d’altronde che la paura non sia stata soltanto il tassello principale della nuova teoria della statualità, ma abbia avuto un ruolo decisivo anche nella vita privata del filosofo inglese. Narra infatti nell’autobiografia che la madre, spaventata per l’annuncio dell’arrivo dell’Invincibile Armata spagnola sulle coste inglesi, ebbe un parto prematuro e mise al mondo insieme a lui sua sorella gemella la paura (Atque metum tantum concepit tunc mea mater, Ut pareret geminos, meque metumque simul). Anche a voler evitare interpretazioni psicologiche selvagge di questo ricordo giovanile, resta il fatto che la paura, ed in modo speciale la paura della morte, sia la molla che spinge gli individui umani ad uscire dallo stato di natura. Per dare un fondamento naturale e non divino alla sovranità statale, Hobbes ricorre ad uno stratagemma teorico: costruisce, utilizzando i principi dell’antropologia moderna da lui stessi elaborati nel De Homine, un modello fittizio di come si comporterebbero gli individui umani in un presunto stato di natura. Poiché essi sono mossi dal desiderio di mantenersi in vita e di impadronirsi di tutto ciò che risponda a questo scopo e dal momento che per natura essi hanno il diritto e la libertà di farlo, essendo fra di loro tutti uguali, facendo cioè ciascuno quel che fanno gli altri, il risultato non può essere altro che una guerra di tutti contro tutti che produce una ‘continua paura e   un continuo pericolo di morte violenta’. È quindi la paura della morte unita al desiderio delle ‘cose necessarie per vivere comodamente’ ad inclinare gli individui umani verso la ricerca della pace e della sicurezza. Per ottenere le quali non c’è, secondo Hobbes, altra via che spogliarsi del diritto di natura delegando in via esclusiva l’esercizio della forza al potere sovrano. Rinuncia alla libertà in cambio della sicurezza e della pace: questo è il contenuto del contratto che non è stipulato fra i sudditi e il sovrano ma dagli individui fra di loro che liberamente decidono di rinunciare alla propria libertà. Cosicché il patto, a differenza delle concezioni ‘liberali’ del contratto, è nello stesso tempo di associazione e soggezione: il legame sociale coincide con la costituzione dello stato.
Non si può certo  attribuire a Hobbes, ma alla ‘storia degli effetti’ e alle modalità della ‘ricezione’ che molto spesso stravolgono l’assunto originario, la tesi (quasi un rovesciamento della posizione hobbesiana) secondo la quale sarebbe una sovranità statale già costituita a produrre intenzionalmente nei suoi cittadini-sudditi la paura della morte per ottenerne una delega in bianco per un più arbitrario esercizio del potere e per proclamare lo stato d’eccezione. E ciò avverrebbe attraverso l’uso spregiudicato delle calamità naturali come terremoti, inondazioni e simili, o addirittura attraverso la produzione ad hoc di eventi tali da giustificare le leggi eccezionali (tipo: Busch invia lui stesso gli aerei per colpire le Twin Towers o la produzione in laboratorio, colposa o dolosa, del coronavirus).
Al di là della possibilità di attribuire o meno a Hobbes (che resta tuttavia colui che ha fatto della paura il pilastro della politica sovrana) quest’ultima teoria, la domanda verte in realtà sul fatto   se la nostra attualità sia ancora leggibile attraverso questa griglia concettuale e se insomma la paura sia anche adesso la passione fondamentale per capire la politica. Stando a Foucault sembrerebbe di no. Anzi proprio il dispositivo della biopolitica come nuova modalità dell’arte del governo liquiderebbe definitivamente ogni concezione del potere come di una sostanza eterna ed immutabile. Il potere non è più assoluto e identitario, ma è piuttosto una relazione mobile fra governati e governanti, costantemente in bilico, mutevole (per questo stato d’eccezione e biopolitica sono due concetti che fanno letteralmente a pugni). Essendo una relazione, il potere implica sempre una resistenza, oscilla fra il conflitto e la negoziazione.  
 L’arte del governo biopolitica e neoliberale insomma non proibisce, non reprime, ma si fa al contrario lei stessa promotrice attiva della libertà, produce libertà in modo esponenziale. E non solo delle libertà proprie del liberalismo classico come quella di pensiero, di espressone, di movimento, di intrapresa, quelle libertà civili che vanno ad aggiungersi alla libertà politica, ma di tutta una serie di nuove libertà che sono la libertà dalla malattia, dalla vecchiaia, dalla determinazione sessuale, dalle preferenze erotiche, dalle nevrosi e dalla follia, vale a dire da tutto ciò che, come  meccanica complessa degli interessi e degli istinti, la meccanica  studiata dalle moderne scienze umane,  può però limitare la nostra libertà.
Libertà che diventano diritti, come quello alla salute per esempio, ma che nel contempo richiedono forme anche pesanti di auto-controllo e auto-sorveglianza: se ho diritto ad essere curato ho anche il dovere di non adottare quei comportamenti che statisticamente potrebbero provocare una malattia (sono ad esempio libero di fumare ma se voglio anche essere libero dalla malattia e esercitare il diritto ad essere curato se mi ammalo, dovrò necessariamente non fumare più).
La libertà neoliberale e biopolitica richiede, non punizione, ma attiva sorveglianza, una sorveglianza che non viene dall’altro, dal potere repressivo e autoritario, ma da se stessi, una sorveglianza scelta e praticata in piena libertà. Sono forme di questa auto-sorveglianza lo screening annuale per il cancro alla prostata negli uomini e di quello al seno o all’utero nel caso delle donne; ma anche il ricorso alle psicoterapie, meglio se brevi, nel caso di disturbi del comportamento; ed ancora: l’ossessione del cibo genuino e a chilometro zero, la lotta contro le sofisticazioni, quella contro il fumo attivo e passivo, la preoccupazione per l’ambiente, la raccolta differenziata dei rifiuti.
In che modo per Foucault (tengo conto per questo ragionamento di un suo saggio del 1979 intitolato La questione del liberalismo) l’arte neoliberale del governo spinge ognuno di noi a preoccuparsi della propria libertà? A diventare, come si dice, l’imprenditore di se stesso, mettendo a frutto le facoltà avute in dotazione all’atto della nascita più tutto ciò che si è appreso successivamente con l’esperienza e con lo studio? Ponendoci tutti in uno stato di pericolo. Il motto del liberalismo di conseguenza è, per Foucault, ‘vivere pericolosamente’, ossia per essere liberi bisogna mettersi o essere messi in un continuo stato di pericolo, o sperimentare la propria situazione, la propria vita, il proprio presente e il proprio avvenire come fattori di pericolo: la minaccia appunto è interna e diffusa, non è più esterna e puntuale.  Siamo sempre in pericolo di poterci ammalare, di assumere comportamenti sessuali controproducenti, di abbandonarci, senza alcuna intenzione cosciente ma per l’operare spontaneo della nostra meccanica istintuale, ad azioni o gesti che ci possono rendere meno liberi, che vengono a limitare la nostra libertà.
Essere in pericolo però non vuol dire aver paura: se, secondo il modello hobbesiano comunque venga inteso, la paura della morte paralizza e ci spinge a delegare tutto il nostro potere e la nostra libertà alla figura del sovrano, al contrario il pericolo mobilita, ci obbliga ad agire, a far qualcosa, ad ampliare il raggio della nostra libertà e ad accrescere il nostro potere su noi stessi. Sempre più liberi di potenziare la vita e allontanare la morte, abbandonando ad essa quelli che non riescono ad essere liberi. Biopolitica infatti non è reprimere la vita ma aumentarla, incrementarla, soddisfare tutte le nuances del desiderio.
Certo questa libertà è coatta, è quella libertà per la quale ciò che è permesso diventa obbligatorio: puoi non ammalarti? Allora, devi, è un obbligo, un comando. Ciò non toglie però che non sia più questione di paura. Forse di angoscia. Secondo la teoria del tardo Freud, l’angoscia è un segnale di pericolo, ci avverte che qualcosa di mortifero sta montando alla periferia del nostro essere, qualcosa di sconosciuto e innominato. E ci costringe a costruire un sintomo, ossia una formazione psichica capace di legare quella forza pulsionale che altrimenti ci distruggerebbe.
Prima però di vedere di che sintomo si tratti, vorrei evocare un’altra scena che potrebbe aiutarci a comprendere meglio questa messa in stato di pericolo che caratterizza l’arte neoliberale del governo. Penso alla sindrome psicopatologica che uno psicanalista italiano, Sergio Finzi, uno psicoanalista parte lacaniano e parte no, ha chiamato la nevrosi di guerra in tempo di pace. Non starò qui a spiegare cosa sia la nevrosi di guerra: basti rinviare al Freud dell’Al di là del principio del piacere e al reduce che continua a sognare la granata che gli ha distrutto il braccio. Quel che ci interessa è invece il fatto che ci sono pazienti che continuano a manifestare i sintomi specifici della nevrosi di guerra anche quando la guerra non c’è più e, cosa ancor più sorprendente, senza averla mai vissuta, ma conoscendola solo dai racconti dei loro nonni e genitori.   Essi vivono in costante allarme, come se fossero sempre in attesa di un bombardamento, con il tempo in scadenza e la vita in sospeso. Se il vivere pericolosamente ha qualcosa a che fare con la nevrosi di guerra in tempo di pace, ciò spiegherebbe la facilità del ricorso alla metafora bellica in un gran numero di casi compreso questo del coronavirus. Ciò non dipenderebbe dalla vocazione alla guerra da parte del potere, ma dal fatto che la guerra usata metaforicamente è lo strumento con il quale, costruendo trincee e elevando barriere, si argina l’avanzata del nemico, lo si costringe all’inattività e se ne riduce in tal modo la pericolosità. Da trincea a trincea ci si può forse anche riconoscere come esseri fatti della stessa pasta.
Parlavamo del sintomo come legamento dell’angoscia: e se, come ci autorizza a pensare sempre Freud, non fosse proprio la paura il sintomo che ci permette di controllare l’angoscia, di sospendere il pericolo ed abbassare la soglia dell’allarme? Se non fosse proprio la paura, o più precisamente il luogo della fobia, che sempre per Finzi è strutturato come una trincea, a costituire la strategia di riduzione dell’angoscia? La paura che, come una distensione spaziale, offre un posto determinato alla fonte indeterminata dell’angoscia e ne permette il contenimento?
Senza d’altronde, dover passare per la libertà neoliberale. Liberandoci, anzi, di questa libertà coatta, di questa libertà sotto condizione. La paura allora sarebbe, forse di nuovo, una cosa di sinistra.   
  











sabato 2 maggio 2020


La scienza fra certezza e verità

È stato sorprendente, in primo luogo per i senatori e poi per i cronisti di politica, ascoltare il presidente del consiglio Conte evocare l'altroieri (30 aprile 2020) la distinzione filosofica classica fra la doxa e l’episteme. Molti si saranno chiesti se fossero cose da mangiare o avranno pensato alla tradizionale attitudine delle classi colte italiane di usare il latino (o come in questo caso il greco) per ingannare meglio il popolo, una pratica immortalata da Manzoni nella figura dell’Azzeccagarbugli. Al di là della facile ironia era dai tempi probabilmente di Togliatti (che Hegel doveva averlo letto di sicuro) che un politico italiano non faceva sfoggio di un sapere filosofico, superficiale o approfondito che potesse essere. Abbastanza chiara era la ragione di questa inattesa chiamata in causa della filosofia: di fronte agli attacchi dell’opposizione, esterna e interna al governo, di eccessiva cautela circa la ripresa di una vita normale, ossia di una ripartenza della produzione e del consumo, di scarsa attenzione quindi all’inevitabile disastro dell’economia italiana se non si fosse allentato significativamente il regime del lockdown, il presidente del consiglio ha replicato che per decidere il che fare nella cosiddetta ‘fase due’ dell’epidemia egli si era lasciato guidare dalle indicazioni dei componenti del comitato tecnico-scientifico, ossia  dai medici specialisti in  malattie infettive e dagli scienziati quali i virologi e gli epidemiologi, ritenendo che il decisore politico dovesse seguire il dettato della scienza (episteme) che di per sé è universale e necessaria e non delle opinioni (doxai) che sono invece individuali e contingenti.   
Questa scelta del presidente Conte di rifarsi a un caposaldo della cultura occidentale (per quanto la scienza moderna sia lontana mille miglia da quella antica, il concetto di episteme è rimasto invariato come d’altronde quello di opinione) è apparsa ancora più significativa se si tiene conto che persino un ministro del suo stesso governo, il titolare del ministero della salute Roberto Speranza (nota aggiunta: forse qui mi sono sbagliato: era il ministro degli affari regionali Francesco Boccia), aveva espresso qualche giorno prima dubbi sul comportamento complessivo della scienza lamentando il fatto che da quella parte non venissero ‘certezze’, ma soltanto una ridda di opinioni differenti e divergenti fino al litigio e ai reciproci improperi. Invece di parlare in modo univoco, gli scienziati, sia quelli facenti parte dei vari comitati tecnico-scientifici chiamati a coadiuvare l’attività del governo, sia quelli ospiti dei vari programmi televisivi o presenti sui social, battibeccavano fra di loro prendendosi qualche volta a pesci in faccia, sostenendo, soprattutto quelli rimasti fuori delle task force messe in piedi dal governo e quindi invidiosi e risentiti, teorie strampalate e rimedi immaginari.
Forse bisogna incominciare a pensare che una cosa è la scienza, l’episteme, di per sé universale e necessaria, un’altra gli scienziati che, soprattutto quando sono chiamati a intervenire nel dibattito pubblico, rischiano spesso di scadere al rango di banali ‘opinionisti’. Al di là, tuttavia, di questa differenza fra l’operare della scienza fondato su di un metodo stabile e univoco (che, nonostante tutte le trasformazioni della scienza, è sempre lo stesso, il metodo galileiano fatto di sensate esperienze e necessarie dimostrazioni), e quello degli scienziati in carne e ossa che, essendo influenzati ciascuno dalla sua formazione, dagli studi che ha fatto, dalle ideologie culturali e politiche che professa, dalla sua struttura psicologica e dagli idiotismi personali, mischiano inevitabilmente enunciati veri, cioè scientifici, con opinioni false o verosimili, la questione della ‘certezza’ della scienza in generale è un problema serio e imprenscindibile.
Anche perché l’accusa di mancanza di certezza nelle affermazioni della scienza va di pari passo, quasi come se ne fosse il rovescio o forse il dritto, con quella esattamente contraria di un eccesso di certezza da parte del discorso scientifico che non ammette dubbi o ripensamenti. Si è parlato addirittura di una dittatura scientifica o sanitaria, di un commissariamento della politica da parte della scienza, cui si accompagna una medicalizzazione della vita che è il modo con cui nell’epoca della biopolitica essa viene sottoposta a forme di controllo sempre più precise e pervasive.
Il discorso sulla scienza ha un andamento duplice o addirittura schizofrenico: da un lato se ne fa l’elogio mettendo in evidenza il fatto che il suo procedere è fondato sul dubbio e non sulla certezza cieca. A tal proposito i seguaci di Popper diffondono l’idea che gli scienziati passino il loro tempo, non a ricercare ciò che è vero, ma a tentare di confutare le verità già date dal momento che esse si possono considerare tali solo fino a quando non siano dimostrate false. Come a dire che della verità è meglio dubitare, tenendola sotto tutela e credendoci solo fino a un certo punto.
Dall’altro la si accusa di non avere dubbi ma solo certezze, di costituire un sistema chiuso e inattaccabile, di essere come una città proibita, un Cremlino impenetrabile. Anche quando una sua verità sia stata nel frattempo sottoposta a revisione e integrata in una teoria più vasta (è il caso delle leggi newtoniane della gravitazione universale rispetto a quelle della relatività einsteiniana), il ruolo fondante della certezza non è venuto meno, non ha subito nemmeno una scalfittura. La certezza è la posizione su cui si attesta il soggetto scientifico, il soggetto della conoscenza, costituendo di conseguenza il fondamento dell’edificio del sapere scientifico.
Il lettore avvezzo alla filosofia avrà riconosciuto la fonte di questo modo di affrontare la questione del sapere scientifico in base al rapporto fra il dubbio e la certezza: è il Cartesio delle Meditazioni metafisiche alla ricerca di un nuovo fondamento dei saperi dopo la rivoluzione copernicana-galileiana. Per non lasciare questa ricerca al caso, Cartesio applica il metodo della meditazione, imparato nel collegio gesuitico de La Flèche, e procede mettendo in dubbio in modo ordinato e ragionato tutte le fonti conoscitive cui si era dato credito fino a quel momento, dal sapere di scuola aristotelico-tomista ai saperi empirici acquisiti attraverso l’esperienza e più o meno sistematizzati. Ma il dubbio usato come metodo, ossia come via razionale alla conoscenza, non si ferma qui, esso si fa iperbolico e mette in discussione, non solo le fonti tradizionali del sapere, bensì la stessa credenza nell’esistenza del mondo in quanto tale. Ciò avviene in due tappe: la prima è la possibilità della follia, intesa qui come un sogno prolungato all’infinito, un sogno da cui non ci si sveglia mai, la seconda la formulazione di un’ipotesi estrema consistente nell’esistenza di un genio maligno (o un dio) che, provando piacere ad ingannarci, ci farebbe credere alla realtà di quello che vediamo quando esso non è altro che un fantasma, un’allucinazione.
Come si vede il dubbio non si ferma allo statuto dei saperi scientifici, ma si estende a quello che potremmo chiamare, con un’espressione non cartesiana ma egualmente efficace, il mondo della vita, il livello elementare della percezione, il nostro originario, preriflessivo e precategoriale, stare al mondo. Ma dal momento che è metodico, il dubbio va anche oltre l’ipotesi iperbolica del genio maligno e si autonega. Come il prestigiatore tira fuori il coniglio dal cilindro, così Cartesio estrae dal dubbio la certezza. È un colpo di mano: basta osservare che nello stesso momento in cui dubito di tutto, io resto, tuttavia, cosciente di me stesso come di colui che sta mettendo in dubbio tutto ciò che esiste. Questo residuo, il me stesso che dubita, non può essere a sua volta revocato in dubbio. È un processo all’infinito: anche se dubitassi del fatto che dubitando tuttavia so di dubitare, questo sarebbe ancora una   volta un pensiero di cui sono cosciente e del quale non posso dubitare.  E dal momento che dubitare è una forma del pensare, cioè di avere una rappresentazione non solo dell’atto del dubitare ma anche di me che dubito, allora io, anche se solo come pensiero, esisto, di me come atto del pensiero non posso dubitare, ho la certezza. Sono certo di me come di colui che pensa e di conseguenza di tutto ciò che da me è pensato.
Questa certezza di me come pensiero è una verità, ossia è un enunciato sottratto una volta per tutte al dubbio. Ma è la verità? Quel che va notato è che al momento in cui Cartesio enuncia la famosa frase ‘cogito, ergo sum’, l’ipotesi del genio maligno non è stata ancora confutata. Sono certo di me come pensiero in atto, qui e ora, ma del mondo lì fuori e degli altri uomini che vedo alla finestra chi mi convince che non siano dei fantasmi o degli automi, delle visioni o delle macchine? Perché possa raggiugere la verità sul mondo e gli altri bisogna che al posto del genio maligno sia ricollocata la figura di un dio non ingannatore, di un dio buono. Il risultato è questo: se la certezza appartiene al cogito, la verità, come relazione fra le mie rappresentazioni e le cose del mondo, compresi gli altri uomini, è affare di dio, è nel suo arbitro: dio infatti può fare, per Cartesio, anche che due più due non faccia quattro ma cinque.   
Più che al dualismo fra pensiero e corpo, in Cartesio si assiste alla divaricazione tutta moderna fra la certezza e la verità, una divaricazione che attraversa la scienza, e che, in un mondo come il nostro interamente governato dai saperi scientifici, riguarda anche le nostre forme di vita dimidiate fra la certezza del sapere e gli effetti devastanti della verità. Se c’è un paradosso nella scienza moderna esso consiste nel fatto che le verità scientifiche, rese possibili dalla certezza in se stesso del soggetto della scienza, distruggono una volta enunciate le certezze acquisite e, per la convertibilità fra certezza e sicurezza, rendono la vita insicura e preoccupata.
Si prenda ad esempio la verità dell’astronomia moderna, cioè che è la terra a girare intorno al sole e non l’inverso: era a tal punto destabilizzante rispetto alle certezze su cui si fondava il mondo all’epoca che non solo i suoi sostenitori subirono processi ma alcuni furono anche condannati e mandati al rogo. E ciò vale sempre, qualunque siano le verità scientifiche che di volta in volta vengono enunciate e qualunque sia il campo d’esperienza conquistato dalla scienza e sottratto all’opinione.
Ma perché, rispetto a quello antico, il pensiero moderno ha dovuto introdurre nel campo della verità (aletheia, ossia il non nascondimento, la manifestazione, il venire alla presenza, il dispiegarsi dei fenomeni), di cui l’episteme è soltanto una delle modalità possibili, il piano della certezza soggettiva, della certezza del soggetto della scienza? Non era sufficiente a soddisfare questo compito la realtà dell’anima e in particolare della sua componente razionale e discorsiva? Ma nel momento in cui il sapere galileiano, non solo fa a meno della percezione, ma dichiara anche che bisogna diffidarne (se continuo a fidarmi della percezione vedrò sempre il sole girare nella volta del cielo e mi sentirò ben piantato sulla terra che per me sarà immobile e piatta), l’anima che, accanto al suo lato razionale, presenta anche e sempre degli strati sensibili e vegetativi e altri desideranti e passionali e che quindi non può fare a meno della percezione sensibile oltre ad essere preda delle voglie proprie e altrui, deve essere messa in un cassetto e dimenticata. Se a ciò si aggiunge che il mondo da conoscere è tutto scritto con il linguaggio matematico, allora la venerabile ipotesi dell’anima va definitivamente espulsa dal campo della scienza.
Al suo posto deve emergere un nuovo soggetto della conoscenza razionale che non debba più nulla alla sfera del corpo, che sappia distinguere in sé la sostanza pensante da quella estesa, i poteri della mente da quelli del corpo. Un soggetto che sia solo rappresentazione, ossia pensiero, e lo sia anche quando percepisce, sente, vuole e desidera. Che lo sia sempre e senza interruzioni, senza essere mai disturbato dal corpo e dai suoi fantasmi. Se qui si fonda il cosiddetto dualismo cartesiano fra il pensiero e il corpo, è necessaria tuttavia, rispetto alla vulgata, una correzione di tiro. Non è infatti del corpo come Leib, del corpo vivente, che si tratta, del corpo passionale e emozionale (in qualche misura questo corpo Cartesio lo ricupera e il trattato sulle passioni dell’anima sta lì a dimostrarlo). Il corpo in questione per Cartesio, il corpo che il soggetto della scienza deve espungere da sé, è il corpo pulsionale, il corpo desiderante e desiderato, quel mio corpo che l’Altro può in ogni momento fare oggetto del suo desiderio non solo, ma anche e soprattutto del suo godimento.  
Se si vuole capire fino in fondo cosa sia la figura del genio maligno che ha piacere ad ingannarci, bisogna pensare, per quanto blasfemo e inammissibile possa apparire allo scienziato e alle persone per bene questo accostamento, al dio del presidente Schreber che aveva per lui un interesse non proprio commendevole: se lo voleva semplicemente inculare.
La certezza del soggetto moderno della scienza è in fondo solo questo: certezza di non sognare e di non essere folle. Ma d’altro canto la verità giace nel sogno e si manifesta proprio attraverso la follia. È per queste ragioni che la psicoanalisi è una delle pochissime discipline che può legittimamente farsi carico del problema della scienza e permettersi anche di sottoporla a critica. In primo luogo, c’è da considerare il fatto che da parte di Freud non è mai stata messa in dubbio l’appartenenza della psicoanalisi al campo della scienza moderna. Ma al di là anche del dettato freudiano c’è l’argomento messo in luce da Lacan secondo il quale la ragione vera per cui psicoanalisi e scienza stanno insieme, senza tuttavia confondersi, consiste nel fatto che il soggetto in questione nella prima, ciò di cui parla e ciò di cui si occupa anche nel senso di curarlo, è esattamente quello della scienza, vale a dire il cogito. Perché qual è la verità del soggetto che la psicoanalisi mette in evidenza se non la scissione da cui è costituito, la scissione fra la volontà di sapere e la passione dell’ignoranza?
Da un lato si vuole sapere perché si soffre e di che cosa: la domanda d’analisi è una domanda di sapere. Dall’altro della causa di questa sofferenza il soggetto non ne vuole saper nulla. Attraverso l’analisi il soggetto vuole divenire certo del sapere di cui soffre, ma allo stesso tempo respinge con tutte le sue forze la verità che da quella cura di parole tende a venir fuori. Il punto è che come soggetto del sapere egli è obbligato ad elidere la pulsione intorno alla quale si coagula il    desiderio che lo costituisce e prende forma il modo singolare del suo godimento. Ed è per questo che per Lacan ogni atto analitico, ossia ogni atto d’interpretazione, richiede, sia per l’analizzato che per l’analista, una destituzione del sapere, una rinuncia ad occupare la posizione del soggetto del sapere.  
Se un compito ha la psicoanalisi è quello di riancorare il cogito, non al corpo, ma al desiderio dell’Altro che diventa il mio solo a condizione di passare attraverso il mio corpo proprio che così mi sfugge e si trasforma in un corpo altro. Se desidero e soffro per questo desiderio è perché in quanto desiderio dell’altro esso infesta il mio corpo e lo parassita. La mia verità, la verità che mi concerne, non sta quindi nella certezza del sapere che ho di me, ma nel desiderio dell’altro che abita il mio corpo.
Freud e Cartesio, dice Lacan, sono vicini molto più di quanto non si pensi: per entrambi l’esercizio del dubbio li assicura sulla presenza del pensiero. Ma con una dissimmetria: mentre per Cartesio anche quando dubita è sempre lui a pensare e questo pensiero è per lui   cosciente, per Freud, che dubita allo stesso modo, chi pensa è qualcun’altro o qualche altra cosa e il pensiero è inconscio. Sembra poco, ma è quanto basta per indicare il limite, insieme alla grandezza, del sapere della scienza: perché a  differenza di quello cosciente, un pensiero inconscio porta con sé il desiderio e la pulsione e attraverso l’emergenza della verità pone un freno alla certezza.


  



  

sabato 8 dicembre 2018



 Pubblico qui un ricordo del sessantotto che avrebbe dovuto far parte di un libro che si è perso per strada e che se mai verrà pubblicato sarà comunque fuori tempo

Prima della rivoluzione

All’inizio del secondo lungometraggio di Bernardo Bertolucci, Prima della rivoluzione (1964), fra la fine dei titoli di testa e il primo fotogramma del film vero e proprio,  compare, scritta su un fondo grigio, una frase attribuita a Talleyrand messa lì come esergo o motto dell’intera storia. La frase, forse mai pronunciata, recita esattamente così: «Chi non ha vissuto negli anni prima della Rivoluzione non sa cosa sia la dolcezza del vivere». Ho sempre avuto la tendenza, un po’ perversa a dire il vero, a leggere questa frase all’incontrario (o forse no). Aiutato in questo anche dalle contraddittorie affermazioni fatte da Bertolucci sul senso da attribuire a questa frase in riferimento al film: in un primo tempo quest’ultimo vuole essere la demistificazione della frase di Talleyrand come se «la dolcezza del vivere  fosse un fatto di dopo la rivoluzione». Poi però Bertolucci si accorge che «quello che si sentiva dentro la frase è la nostalgia, il rimpianto per un’epoca che è finita perché c’è stata la rivoluzione». Anche per Bertolucci la vita borghese, la vita prima della rivoluzione, aveva un sapore dolce di cui non si può non rimpiangere la scomparsa.  Con l’aiuto del Pasolini della Religione del mio tempo, Bertolucci scopre di essere lacerato da una contraddizione insanabile: il desiderio della  rivoluzione è impastato indiscernibilmente con la nostalgia del passato borghese che è esattamente ciò di cui la rivoluzione dovrebbe liberarci distruggendolo[1].
La frase di Talleyrand – non c’è alcun dubbio – è un manifesto controrivoluzionario o almeno contro i misfatti del biennio giacobino. E il film che s’ispira alla Certosa di Parma di Stendhal tende a rispettarne l’intenzione: come il Fabrizio stendhaliano abbandona i   fervori napoleonici e rivoluzionari e rientra nei ranghi reazionari e benpensanti, così quello di Prima della rivoluzione passa dalla militanza comunista e dalla passione quasi incestuosa per la zia al matrimonio borghese e tranquillizzante. È qui, però, che, vedendo e rivedendo il film, mi prende un dubbio che mi spinge a interpretare la frase all’incontrario: la dolcezza del vivere cui fa riferimento riguarda la vita di Frabrizio prima del suo impegno politico e dell’amore  per  Gina o invece è esattamente l’effetto, il risultato,  di queste scelte? Prima della rivoluzione è ambientato nei primi anni sessanta del secolo scorso e parla di una generazione nata durante gli anni quaranta o nel corso della guerra o immediatamente dopo la sua fine.  E che cosa sono stati gli anni sessanta se non il tempo dell’incubazione della rivoluzione, del suo annuncio e della sua imminenza? Il tempo in cui un vecchio mondo crolla e uno nuovo si prepara spingendo al cambiamento delle abitudini e degli stili di vita?
Se oggi, a tanti anni di distanza (nel sessantotto avevo ventidue anni ed ero fra il secondo e il terzo anno di università), tentando di sfuggire al doppio pericolo della memorialistica egocentrica dell’’io c’ero’ e dell’analisi inutile e frettolosa su ciò che è vivo e ciò che è morto, penso agli anni sessanta mi viene in mente solo questa idea: sono stati, è stato il sessantotto usato come parte per il tutto, gli anni di prima della rivoluzione, gli anni in cui la rivoluzione desiderata, sognata e auspicata ha prodotto la dolcezza del vivere, ha portato la vita, come avrebbe detto Benjamin, al suo punto più elevato, un punto che non bisogna mai dimenticare anche se gli eventi successivi, gli anni dopo la rivoluzione, hanno fatto di tutto per smentirlo e per cancellarlo.
Nel sessantotto si è scoperto che i modelli di vita borghesi cui si sembrava destinati per nascita e appartenenza di classe potevano essere abbandonati senza rischio, che si poteva lavorare insieme, far politica o studiare in modo collettivo, e che l’anonimato non era più un problema, che ci si poteva impegnare in un impresa, spendendoci sia tempo che denaro, senza ricavarne nulla che non fosse il semplice piacere di stare insieme agli altri. Il sessantotto è l’uscita dall’asfissia dell’intérieur borghese e la scoperta della strada, la dimensione pubblica che va di pari passo con l’emancipazione personale, l’affermazione   dentro il collettivo del desiderio singolare. La possibilità, insomma, di vivere una vita non fascista, usando questo termine nell’accezione che gli dava Pasolini, ossia non conformista.
Poi vennero le bombe e la dolcezza del vivere scomparve. La rivoluzione (che forse non ci fu neppure: nient’altro che un abbozo, un conato incomposto) fu sconfitta. Ed invece del lavoro del lutto, fu la disperazione. I rivoluzionari dimostrarono ancora una volta che volevano un padrone, un superio ancora più cattivo dei padri contro i quali si erano ribellati. Prese il volto feroce della disciplina   della lotta armata la cui istanza autopunitiva si manifestò dieci anni dopo nell’assassinio di Moro, decisione impolitica che segnò la fine delle Brigate rosse e la fine di tutto. Ma come  comprese ancora una volta Pasolini, assunse anche  il volto solo apparentemente più benevolo di una coazione conformista al godimento, ossia al consumo, il cui dominio non è mai cessato.
 Se fossi stato uno scrittore, e anche bravo, e non il semplice apprendista filosofo che sono, avrei voluto essere l’autore di un’Educazione sentimentale novecentesca il cui perno non fosse però il 1848 ma il ’68 e gli anni immediatamente successivi. Ai miei occhi il romanzo di Flaubert è, fra le tante altre cose, anche la testimonianza più precisa di cosa siano gli anni dopo la rivoluzione, gli anni dopo la sconfitta. Intanto in che cosa consiste l’evento rivoluzionario e in generale qualunque evento storico che, non nel momento in cui accade, ma solo dopo e non sempre, a cose fatte, subisce la trasformazione in qualcosa da celebrare o esecrare perché assurto, come direbbe Ricoeur, al ruolo del ‘tremendum fascinosus’,  allo statuto cioè dell’evento che interrompe la storia già data e ne inaugura una totalmente nuova? E soprattutto come appare a colui che, anche quando l’ha desiderato, nel momento in cui lo vive ne è travolto e sorpassato? Come al suo antenato Fabrizio del Dongo capita di partecipare alla battaglia di Waterloo che segna la fine dei suoi sogni rivoluzionari senza capirci assolutamente nulla e senza neppure accorgersi di aver incontrato lo spirito del mondo a cavallo, così a Fréderic Moreau i feriti che cadevano durante  la rivoluzione di Febbraio, i «morti stesi per terra non avevano l’aria di veri feriti, di veri morti» e tutt’al più gli sembrava di «assistere a uno spettacolo». Non è già qui che inizia, come avrebbe detto Saint-Just, il raggelamento della rivoluzione?
 Molti anni dopo questo è il bilancio che Fréderic fa della rivoluzione di Febbraio: «Mancava la scintilla! Eravate solo dei piccoloborghesi, e i migliori tra voi, dei pedanti! Quanto agli operai, hanno mille ragioni di lamentarsi: (…) non gli avete propinato che belle parole!(…) Insomma questa Repubblica mi pare vecchia». E in lui, alla fine, torna a parlare la voce del padrone: «Forse il Progresso lo può realizzare soltanto una aristocrazia o un uomo solo…L’iniziativa viene sempre dall’alto. Il popolo, lo si voglia o no, è sempre minorenne!».
Spira nel romanzo un senso di chiusura, di definitivo sbancamento, dei sogni e delle aspirazioni che avevano animato i due amici  Moreau e Deslauriers. La desolazione è tale che di tutto ciò che hanno vissuto l’unica cosa degna di ricordo sia un’avventura non consumata con delle prostitute: rievocandola anni  dopo per Fréderic  l’attimo di smarrimento ed impotenza finisce per essere «la cosa migliore che ci sia toccata!», e Deslauriers non può che confermarlo: «Già, forse è proprio così. È la cosa migliore che ci sia toccata!»[2].
Citando la pagina finale dell’Educazione sentimentale nel saggio sulla narrazione, Benjamin vi coglie tutta la distanza che si è aperta nella modernità fra il racconto e il romanzo, tra l’estrazione della ‘morale della storia’ che è lo scopo del primo e l’individuazione del ‘significato della vita’ che è quello del secondo: all’inizio della decadenza dell’età borghese «il significato della vita si è depositato come il fondo nel bicchiere della vita»[3]. Tutta la vita si racchiude in un mazzo di fiori timidamente offerto a delle prostitute in un bordello.
E la dolcezza del vivere? Svanita! Cosa ci resta da sperare? Che ad una nuova svolta del tempo il dopo non smentisca il prima e la dolcezza duri.









[1] Le citazioni di Bertolucci sono prese da A. Marini, Bertolucci, il cinema, la letteratura – Il caso Prima della rivoluzione, Falsopiano edizioni, Alesandria 2012, p. 58.  Il tema è ripreso da Bertolucci in Dreamers (2003)  e questa volta con riferimento esplicito al ’68.
[2] G. Flaubert, L’educazione sentimentale, tr. it di G. Bogliolo, Meridiani, Mondadori, Milano 2000, per le citazioni rispettivamente pp. 358, 456-457, 524.
[3] W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, tr. it. di R. Solmi in Id., Opere complete, a cura di R. Tiedemann e H. Schwppenhäuser, edizione italiana a cura di E. Ganni, vol VI. Scritti 1934-1937, Einaudi, Torino 2004, p. 334.