Il divenire altro, o della
destituzione del racconto
Alcune domande a Bruno Moroncini
a cura di Bachisio Meloni
D.: Immediatamente accanto alla riflessione
sull’ontologia quale fondamentale apertura di prospettive, giungiamo oltre che
alla possibilità stessa del pensiero e dell’immaginazione, all’universo
dell’arte quale, almeno così come enunciato da Heidegger, radicale apertura
all’essere e dischiusura di un mondo. Tutto ciò per dire, come non tutta la
sfera dell’essere coincida con la realtà; l’arte dunque come il luogo ideale in
grado di far accedere ad una dimensione più profonda, oscura e insondabile del
reale. Eppure, nell’ambito di tale carattere simultaneo, luminoso ed umbratile,
dell’essere si è come di fronte a una possibilità in cui niente diventa più
possibile, dove il soggetto non ha più
potere e prospettive: l’immagine artistica come segnale di una fondamentale
assenza di fughe, in qualità, diremmo, non tanto di appello discreto ad un
fondamento insondabile, quanto di un formidabile correttivo di richiamo alla
fragilità e all’impossibilità stessa del soggetto. È quanto emerge dalla
riflessione filosofica di E. Lèévinas su Blanchot e sui possibili scenari
dischiusi dalla proiezione heideggeriana della “differenza ontologica”. In
questa metafisica descrittiva, laddove ci si aspettava fondamentali e
straordinarie aperture di senso sul piano estensivo e riproducibile
dell’essere, ci si ritrova nel pieno di uno sfondo indistinto e magmatico,
quello del “neutro”, del “fuori”, la cui natura genera contrassegni di
instabilità e di disorientamento, e ciò a discapito di una soggettività
smarrita, nomade, costitutivamente alle prese con gli indefiniti richiami di
senso che l’arte, per quanto in forte contrasto con possibili derive
nichiliste, ma ancora in assenza di una più esplicita disposizione ad una
prospettiva etica, è in grado di suscitare.
R.: Per rispondere vorrei incominciare da un ricordo
di gioventù: sono stato un precoce lettore di poesia e di letteratura, più di
poesia che di letteratura – forse un destino familiare. Fra le prime scoperte
la raccolta Una volta per sempre di Franco Fortini edita nella vecchia collana
dello Specchio e in particolare la serie di poesie intitolata 'La poesia delle
rose', più propriamente ancora l’ultima, appunto quella che si chiamava Ultima
sulle rose: «Quando da qui si guarda l’età del passato/veramente diventa
possibile l’amore./Mai così belli i visi e veri i pensieri/come quando stiamo
per separarci, amici./Esercizio della ragione e sentimento/sono due cose e vivacemente
si legano/come la rosa è forma di mente e stupore». Da allora mi si dischiuse
una verità – o la verità? – cui ho tentato di restare fedele. Non spetta a me
decidere se vi sia riuscito, so che questo è ciò che ho perseguito: tenere
insieme nel pensiero e nella scrittura esercizio della ragione e sentimento,
rigore e immaginazione, il lato del logos e, per usare un termine caro al mio
maestro Aldo Masullo, quello del patico, realizzare cioè la forma della rosa,
l’unità impossibile di mente e di stupore. E ciò non per vaghe e stolide
velleità artistiche – con Benjamin non ho mai amato l’estetismo –, bensì perché
nello stupore, che dal suo canto per non scadere nell’ottuso obnubilamento di
fronte al reale ha bisogno del sostegno del pensiero razionale, resta
incriptato e protetto dalla devastazione della storia l’amore omesso che
attende di potersi riscattare, il desiderio di felicità calpestato, l’esigenza
di giustizia rimasta inevasa. Che è quanto indicano i primi quattro versi della
poesia di Franco Fortini: la possibilità dell’amore viene dopo, quando ogni
rapporto è spezzato, a separazione avvenuta. L’unico vero amore, per noi
moderni, diceva Kierkegaard, è l’amore-ricordo, l’unico modo per cantarlo è
quello elegiaco. Il pensiero è in lutto se non malinconico.
Nella prefazione al mio primo libro su Benjamin citavo
in chiusura un verso di Brecht non a caso nella traduzione di Fortini: «Oh,
noi/che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,/noi non si potè
essere gentili». Per me c’è stata sempre assoluta continuità fra questo
retroterra poetico e le scelte filosofiche fatte molto dopo, il pathos e lo
stupore che innervavano anche ciò che si presentava per quanto in posizione
defilata e marginale come il risultato di un esercizio razionale e di
un’argomentazione rigorosa, sono stati le mie vie d’accesso, per dirla con
Heidegger, alla filosofia: per la mia generazione ha contato l’impatto con
delle scritture filosofiche in cui il pathos soggettivo depurato da ogni
arroganza egoica andava di pari passo con la severità dell’esposizione e la
profondità del pensiero. Bataille prima di tutto, e poi Levinas, Blanchot,
Derrida, Lacan e il Foucault degli scritti letterari. Ma non solo francesi,
anche tedeschi: Nietzsche, Heidegger e a correttivo Benjamin. Di quest’ultimo
due cose vorrei qui ricordare a prova della continuità fra la voce poetica e
quella filosofica: il quasi aforisma che chiude il saggio sulle Affinità
elettive di Goethe «Solo per chi non ha più speranza è data la speranza» che mi
è sempre sembrato perfettamente in linea con il dettato di Fortini e di Brecht
e la teorizzazione, contenuta nella premessa gnoseologica dell’Ursprung des
deutschen Trauerspiels, del rapporto fra il fare filosofico e quello artistico.
Come è noto per Benjamin la filosofia solo subordinatamente è lavoro del
concetto, è principalmente esposizione della verità – una verità che come per
tutto il pensiero filosofico contemporaneo è rigorosamente distinta dal sapere
e dal conoscere. Il concetto serve solo a smontare pezzo per pezzo la veste
ideologica e ingannevole – l’apparenza – con cui il fenomeno si offre
primariamente al soggetto conoscente. Ma il vero lavoro viene dopo, quando si
tratta di ricomporre secondo un altro ordine i pezzi, le tessere del mosaico o
del puzzle, ottenuti dallo smembramento del reale: l’esposizione della verità
dei fenomeni in tal modo raggiunta nella costellazione ideale è compito
dell’arte, vale a dire solo l’arte salva i fenomeni – il pathos, lo stupore
della vita –, proiettandoli nella luce della verità. Una luce, in verità,
sobria, smorzata, simile a quella che s’intravede nelle radure che si aprono
improvvisamente all’interruzione dei sentieri. Ciò per rispondere alla sua
evocazione dell’ermeneutica heideggeriana sebbene abbia sempre preferito la sua
variante di ‘sinistra’, e cioè la decostruzione secondo il dettato di Derrida,
imparentata per me, e non alla lontana, con la critica nell’accezione che ne
dava Benjamin. Più che la Lichtung heideggeriana vale, infatti, per me la concezione
benjaminiana della critica come mortificazione delle opere, la ricerca nella
potenza espressiva della percezione estetica del privo di espressione, della
macchia scura che sporca la patina lucente della bellezza artistica. Lo
splendore del bello ha diritto all’esistenza solo a patto che si spenga in modo
che sulla scia di una luce che scompare si affermi la potenza del vero, di
quella verità ideale che sola può rendere giustizia alla vita.
L’apporto che nella filosofia contemporanea l’arte ha
dato al pensiero filosofico, inteso senza alcun cedimento a mode effimere e a
tentazioni letterarie come pensiero razionale e rigoroso, erede legittimo della
più classica apodissi, non consiste tanto nel tematizzare, alla maniera
heideggeriana, un pensiero poetante o una poesia pensante – ogni poesia è
pensante anche se non segue la concatenazione logica – , quanto nel destituire
la posizione arcontica del logos o, per venire alla modernità, del cogito, del
soggetto-io, e nel produrre una dimensione soggettiva che si lasci invadere
dalla passività, termine questo polisenso e che evoca differenti campi
d’esperienza, dal passato immemoriale che insiste nel presente alla passione
che invade la ragione, dal patico che destabilizza e fa uscire il soggetto da
se stesso all’inoperosità che da Blanchot a Foucault è il segno distintivo
delle forme estreme della vita e del pensiero, anzi del pensiero perché prima
di tutto della vita – valgano per tutti i nomi di Artaud, di Roussel, di Sade.
Se si volesse cogliere, come Lei sembra suggerire, un
filo, che pur nella differenza, leghi l’ontologia fondamentale heideggeriana
agli esiti lévinassiani e blanchottiani lo individuerei nella radicalizzazione
del concetto di esistenza che, ancora adesso, mi sembra più vicino alla verità di
quello della vita, ultimo baluardo, nonostante tutto, dei trionfi di un cogito duro
a morire. L’esistenza è il costante star fuori da ogni stabilità, il passare –
da qui la passività costitutiva dell’esperienza – da un fuori a un altro fuori
senza stare mai in un dentro. Fine dell’io come insieme di abiti, qualità,
poteri, fine dell’io posso che è la vera base, il fondamento autentico, dell’io
penso. Un soggetto impotente forse: e se l’impotenza, invece, non fosse
un’altra forma, inaudita e non ancora sperimentata, di potenza?
D.: Viene da pensare perciò stesso a quanto si celi
nell’antinomia dell’“umiltà di potenza”. Al pari del procedimento artistico –
non meno interessante a questo punto sarebbe poter riflettere sulle possibilità
tecnico-espressive della scrittura filosofica considerata al di là dei meri
contenuti teoretici – è come se la ricerca filosofica ricalcasse i contorni di
una propria verità, ma nei termini di una realtà “virtuale”, aperta. Come nella
prospettiva deleuziana, lo spazio su cui ci si avventura non è l’espressione di
un mondo che ci risulta estraneo, da rappresentare o da significare nella sua
complessa problematicità e in quanto altro; è ciò che si materializza a partire
dalle nostre singole esperienze di vita, da quanto si determina in virtù delle
possibili “pieghe” in rapporto al caos, all’abissalità sorgiva propria
dell’universalità indeterminata.
R.: Anche qui, prima di rispondere, mi si permetta
un’osservazione apparentemente incongrua con la Sua domanda e che potrebbe
dipendere esclusivamente dall’avanzare dell’età che rende ipercritici verso il
proprio presente – il tempo del tramonto e della vecchiaia – e particolarmente
remissivi, invece, nei confronti del passato – l’epoca dell’inizio e della
giovinezza. Comunque sia, provo sconcerto di fronte alla ripresa tutta positiva
che oggi si tenta dell’istanza della narrazione: scomodando addirittura
Benjamin e il saggio su Nicolaj Leskov, da più parti e in ambiti diversi – il
teatro ad esempio, e la letteratura, il cinema, le arti in generale – si
promuove il ritorno del racconto contro un passato recente che sarebbe stato
disgraziatamente dominato dalla scienza letteraria di ispirazione strutturale e
da pratiche artistiche elitarie ed urticanti. Addirittura un politico,
esponente di quel che resta della sinistra comunista, fonda le sue poche
speranze di vittoria sul fascino che su un elettorato sfiduciato potrebbe
esercitare il ricorso ad un lessico per così dire ‘romanzesco’: raccontando una
storia con un inizio e una fine, ovviamente lieta, egli donerebbe di nuovo
unità e senso a vite che la globalizzazione neoliberista parcellizza e liquida
(nel senso appunto della modernità liquida).
Per me, al contrario, ha funzionato quasi come
un’ingiunzione la frase che chiude La follia del giorno di Maurice Blanchot:
«Un racconto? No, nessun racconto. Mai più». Si ricorderà il plot di questo
testo breve di Blanchot: le istanze della legge – medici, poliziotti, giudici –
chiedono, anzi impongono, al protagonista di dire tutto quello che ha fatto e
che gli è successo, dall’inizio alla fine, senza omettere nulla e in ordine. Ma
il narratore si confonde, non ricorda, non sa nemmeno se era presente a quello
che accadeva. Il racconto è impossibile e la pretesa della legge risibile. Ecco
cos’è per me scrittura: l’esperienza dello spossessamento, dello scivolamento
nell’anonimato e nell’impersonale, del passaggio dalla legge del giorno in cui
tutto deve essere chiaro, univoco e sensato a quella della notte in cui al
contrario il senso slitta, si contraddice, si perde. La scrittura è l’unico
modo insieme alla follia di accedere al fuori, posto che il fuori sia ancora un
luogo al quale si può accedere e non il non luogo, l’assenza di dimora,
l’impossibilità dell’abitare. Di nuovo, perdita dell’abito e perdita dell’io.
Secondo la lettura cui Foucault sottopone il pensiero del di fuori di Blanchot
la scrittura è l’esperienza attrraverso la quale si entra nel territorio
immenso del linguaggio inteso come quel brulichio incessante che precede e
oltrepassa il locutore che dicendo ‘io’ crede di poterlo governare e sottoporre
al suo dominio.
È solo a partire da qui che come un prolungamento o
come un’eco si aggiunge e si raggiunge per me la nozione filosofica di
scrittura elaborata da Derrida e il dispositivo della decostruzione che ne
discende interamente. È noto che la scrittura in Derrida si pone in opposizione
al primato della phoné, della voce che, in quanto tramite invisibile ed aereo,
supporto immateriale e trasparente, permette all’anima di illudersi sul fatto
che, pur subendo un inevitabile processo di esteriorizzazione, essa resti
sempre presso di sé, presente a se stessa, una presenza viva rispetto alla
quale la morte non è nulla più di un accidente. Se la scrittura è il miglior
esempio della differenza è perché essa è il differimento della presenza, il
rinvio di ogni archè, il ritardo patito inevitabilmente dall’origine. Se la
scrittura costituisce il dispositivo che assicura in linea di diritto alla
traccia la possibilità della sua iterabilità, vale a dire la sua ripetibilità
ideale, ciò è possibile perchè allo stesso tempo essa scava nella traccia una
spaziatura che vi introduce la separazione e la distanza: la traccia è sempre
al posto di un’altra taccia differita o assente, è sempre un’altra traccia, differente
da sé, senza origine né destinazione. Da ciò deriva che nella scrittura, vale a
dire nella tessitura di un testo, sia esso indifferentemente filosofico,
letterario, scientifico, politico o economico, di un testo che può essere
formalizzato o no, di un testo che non necessariamente deve essere scritto in
linguaggio alfabetico, di un testo che può essere un’immagine, un’architettura,
addirittura una musica, sia sempre possibile individuare la smagliatura, la
stonatura che dimostra quanto esso non sia in grado di contenere in sé
l’origine da cui prende le mosse, il fondamento su cui poggia, l’assiomatica
secondo cui si articola.
Se la decostruzione nasce dall’interno della filosofia
e finisce per privilegiare i testi cosiddetti filosofici è solo perché la
filosofia è nella tradizione occidentale quella forma del discorso cui è
devoluto il compito di tematizzare la sfera delle categorie e dei concetti
generali con cui si cerca di organizzare l’esperienza; ragion per cui, come
Derrida non si è mai stancato di notare, anche il testo più intenzionalmente
lontano dallo stile filosofico poggia volente o no su un numero finito di
metafore influenti, di opposizioni concettuali e di procedure argomentative che
sono l’oggetto specifico della filosofia e la cui produzione è il compito
peculiare dell’istituzione filosofica. Al di là di questo la decostruzione è il
processo in atto in ogni discorso e in ogni pratica, in ogni campo d’esperienza
e in qualunque situazione: non implica un soggetto e può essere anonima e impersonale,
operazione di un collettivo senza nome o di una singolarità qualunque.
Terza e ultima fonte per me della nozione di
scrittura: il Benjamin della premessa gnoseologica dell’Ursprung per il quale
l’esposizione della verità va pensata e praticata secondo il modello della
scrittura e non della parola orale. Mentre quest’ultima presuppone un flusso
continuo del pensiero in cui l’intenzione soggettiva non possa subire alcun
arresto e sia posta al riparo dal rischio di potersi perdere, la scrittura richiede
un‘andar sempre da capo, un procedere discontinuo, delle pause e degli spazi
bianchi che implicano il passo falso, l’inciampo e la morte del soggetto
conoscente. Poiché per Benjamin la verità è un essere a-intenzionale di idee e
il soggetto, posto di fronte ad essa, deve, come il discepolo di Sais, bruciare
e divenire cenere, è evidente perché sia la scrittura il medium, l’unico, che
si adatti ad essa e ne permetta l’esponibilità.
Per giungere alla Sua domanda di cui non mi sono
dimenticato anche se ho fatto un giro lungo per arrivare a una risposta, del
pensiero di Deleuze, di cui pure riconosco l’importanza e la potenza, ciò che
mi ha interessato non è stato tanto il vitalismo cui molti interpreti hanno
voluto ridurlo, quanto le tesi sul compito della filosofia e sulle condizioni
che rendono possibile l’invenzione sia essa del pensiero filosofico o
dell’arte, le condizioni insomma dell’invenzione in generale. È quanto si
potrebbe etichettare come la questione dell’idiota: l’idiozia che significa sia
la condizione privata contrapposta alla dimensione pubblica, sia l’assenza di
sapere, lo stato d’ignoranza, in opposizione all’esistenza del dotto,
dell’intellettuale come depositario e custode del sapere tramandato, è la
condizione della creazione, cioè dell’innovazione. Bisogna essere idioti come
Bartebly, lo scrivano di Melville, o come Miskyn, l’epilettico di Dostoevskji,
per poter costruire dei concetti inconsueti, per inventare delle nuove forme
percettive e per adottare inedite abitudini etiche. Bisogna dismettere la
natura umana e sottoporsi a un divenire altro: donna, animale, cosa, per
produrre un concetto, una forma, una condotta. L’invenzione quindi non deriva
dal sapere posseduto, non è né un privilegio né un diritto; viene
bataglianamente dal non sapere, è appannaggio dell’idiota, vala a dire di
chiunque la cui avventura singolare e la piega che ha preso la sua vita, lo
spingano lungo le strade della deformazione e della perdita.
D.: Su quanto avviene nel piano immanente di questa
vicenda sempre in divenire, interpretabile al pari di un viaggio limite o di
transito in un valico di confine (Benjamin), la testimonianza che Lei
raccoglie della teoria ermeneutica della verità, o
meglio, a partire dall’attività o dal movimento della differenza e della
“diffrazione” dell’interpretazione, è lo stupefacente riscontro di una verità
esprimibile come altra da sé; alludo in particolare alla lettura del Simposio platonico
da parte di Lacan e a ciò che diviene possibile ricavare in virtù di
un’esperienza in grado di suscitare l’idea di un duplice movimento, di un’eco
(penso alla singolare inclinazione teorica se non alla vera e propria
articolazione di un pensiero “neutro”, o terra di nessuno, la cui origine è
data dalla proiezione di quelle “differenze parallele” messe a punto da J.-L.
Nancy sulla base del rapporto di stretta con-divisione fra la riflessione di
Deleuze e quella di Derrida), o di un controcanto in virtù del quale la lettura
lacaniana di Platone apre di continuo alla possibilità di “leggere” lo stesso
Lacan alla luce dell’interpretazione dell’Eros platonico.
R.: Quello di Lacan è un capitolo a parte: se si può
dire che da sempre la filosofia ha assunto nei confronti della psicoanalisi un
certo tono di superiorità come se soltanto attraverso l’esame filosofico questa
strana tecnica inaugurata da Freud potesse sperare di assurgere al rango di un
sapere legittimo perché fondato trascendentalmente, per me è accaduto il
contrario. Forse per il fatto di aver avuto accesso alla filosofia in un
momento storico – oggi già le cose sono un po’ cambiate – in cui massimo era il
bisogno di sottoporre la tradizione del pensiero filosofico ad una radicale e
ultimativa decostruzione dei suoi presupposti metafisici e dei suoi esiti
politicamente conservatori se non del tutto reazionari, ho da subito pensato
che la psicoanalisi facesse parte di diritto di questo movimento di sovversione
della posizione filosofica fino al punto di considerarla forse la sua leva
principale. In ciò mi è stato complice, forse suo malgrado, Derrida: in una
nota introduttiva al saggio su Freud e la scena della scrittura, Derrida
infatti nega recisamente che la decostruzione sia declinabile come una
psicoanalisi della filosofia. E ciò ‘malgrado le apparenze’. Apparenze, d’altro
canto, consistenti e pesanti: il dispositivo o il destino cui la scrittura si è
trovata sottoposta da Platone in poi, lungo tutto il corso della metafisica
occidentale, è stato proprio quello della rimozione e non si è trattato né di
dimenticanza né di esclusione. Dal momento però che una rimozione riuscita è
una rimozione mancata o che in altri termini la rimozione coincide
concettualmente e effettualmente con il ritorno del rimosso, la riemergenza
costante della scrittura proprio nei contesti da cui essa sembrava bandita,
espulsa e del tutto eliminata, dimostra di fatto che la decostruzione è in
corso. E che la metafisica è in via di ‘decomposizione storica’. La scrittura,
insomma, è un sintomo.
Se tutto questo è vero, il prosieguo della nota però
rovescia il primo assunto: i concetti freudiani, infatti, «appartengono tutti,
senza alcuna eccezione, alla storia della metafisica, cioè al sistema di
repressione logocentrico che si è organizzato per escludere o abbassare,
mettere fuori e in basso, come metafora didattica e tecnica, come materia
servile o escremento, il corpo della traccia scritta». Come si è visto prima,
un discorso intenzionalmente contrario o estraneo alla filosofia si scopre ad
un esame più avvertito tramato da quegli stessi presupposti che denunciava nell’oppositore.
Il dispositivo della decostruzione è, se così si può dire, autoriflessivo, si
applica a se stesso: ciò che serve a decostruire va decostruito a propria
volta. Stesso destino con Lacan cui Derrida rimprovera la rilegatura filosofica
dell’inconscio freudiano letto, infatti, a partire dalla linguistica saussuriana
in cui di nuovo si assiste ad un trionfo simultaneo della voce e della spirito
– il segno, infatti, è formato dall’immagine acustica e dalla rappresentazione
mentale. Il risultato alla fine è il seguente: la decostruzione della
metafisica non può essere considerata una psicoanalisi della filosofia perché
la psicoanalisi stessa, se non integralmente almeno per un tratto, partecipa
della tradizione della filosofia, si iscrive nello spazio di una metafisica
della presenza.
Tutto vero; e però anche – nel pieno rispetto del
dispositivo della decostruzione – tutto rovesciabile su di un’altra scena,
sulla scena, ad esempio, del discorso inconscio. Vale a dire: se in nessun caso
si tratta di sdraiare sul lettino la filosofia e di conseguenza di pretendere
di ‘psicoanalizzarla’, quella che invece è sostenibile è la tesi per cui,
inserendo la psicoanalisi in una teoria generale dei discorsi alla cui origine
si situa il discorso filosofico, quello analitico, che di questa processione
discorsiva occupa la fine, se appare agli antipodi del primo non è perché ne
sia la diretta contestazione bensì perché deriva da una sua sovversione già
avvenuta. Non è di conseguenza la psicoanalisi a decostruire la filosofia, ma
una serie di pratiche da cui la stessa psicoanalisi discende e rispetto alle
quali può però, alle volte, anche agire in un senso reazionario, come un agente
della restaurazione.
Non tuttavia nel caso di Lacan, e in ciò mi distinguo,
dopo averlo utilizzato a piene mani, da Derrida: giacché quello che ho provato
a compendiare in un modo – me ne rendo conto – quasi incomprensibile è stata la
teoria lacaniana dei quattro discorsi che per me sostituisce la teoria generale
dell’interpretazione di ascendenza gadameriana anche perché, a differenza di
quest’ultima e d’accordo, invece, con la decostruzione, tematizza appunto la
sovversione della filosofia, la sua critica radicale e definitiva. La teoria
dei quattro discorsi – Maïtre, coniato sul modello del Menone platonico,
Universitario, esemplato sulla filosofia hegeliana, isterico e analitico – ha
molti aspetti, ma in particolare due che qui mi sembrano essenziali per capire
ciò che cerco di dire: 1) la psicoanalisi non nasce come un fungo, essa si
iscrive in una storia complessa e discontinua che la precede e da cui prende
senso e che è la storia del pensiero occidentale, cioè la storia delle forme
del sapere scientifico, del suo statuto e dei suoi modi di produzione; 2)
questa storia non viene messa in crisi dalla psicoanalisi che ne è anzi un
sintomo e un tentativo di teorizzazione, ma da una serie di eventi, processi,
pratiche e dispositivi che Lacan compendia sotto il nome di discorso isterico.
Con questo nome si intende in primo luogo il fatto che la psicoanalisi
freudiana si costituisce a partire dall’ascolto delle isteriche, sia di quelle
che Freud aveva visto da Charcot a Parigi sia soprattutto di quelle che
incominciano a frequentare il suo studio di Vienna. Ma attraverso l’emergenza
di questo disturbo psichico prevalentemente femminile si vuole indicare la
crisi generale che a fine ottocento colpisce la cultura in generale e la
società che su quella cultura era edificata. Di questa crisi le donne nella
declinazione che il femminile assume nell’isteria sono la testimonianza ma
soprattutto la causa. La sovversione della filosofia di cui la psicoanalisi è
un effetto e insieme un tentativo di presa in carico è il risultato di
un’isterizzazione generale della società occidentale, cioè di una destituzione radicale
del primato del sapere razionale e conscio su cui quella società aveva fondato
il suo dominio.
Se la decostruzione certamente non è una psicoanalisi
della filosofia, la psicoanalisi però partecipa e con pieno diritto ai processi
complessivi di decostruzione della filosofia. È questo il senso della mia
ricostruzione della lettura da parte di Lacan del Simposio platonico contenuta
nel seminario VIII dedicato alla questione del transfert: l’intento non era
solamente di far vedere quanto la psicoanalisi dovesse ad un testo principe
della tradizione filosofica riguardo ad un concetto per essa essenziale come
quello di desiderio (Wunsch in Freud, désir in Lacan) declinato come mancanza
ad essere e per converso quanto l’interpretazione psicoanalitica avesse da
insegnare alla storia della filosofia antica, oltre che alle sfere teoretiche e
morali, nella comprensione anche filologica di un testo del passato.
L’ambizione era più alta e consisteva nel mostrare come nella decisione di
leggere il Simposio a partire dal punto di vista di Alcibiade, togliendo
contestualmente centralità alla figura di Diotima e puntando piuttosto sul
conflitto fra l’uomo della scienza (Socrate) e quello del désir (Alcibiade),
Lacan raggiungesse il medesimo obiettivo di Derrida rispetto al testo
filosofico: far vedere come esso si autodecostruisse da solo, cogliendo
nell’irruzione di Alcibiade e nel cambiamento che nell’ordine discorsivo sul
soggetto erotico tale irruzione produceva, l’isterizzazione del discorso
filosofico tenuto fino a quel momento da Socrate per il lato più propriamente
scientifico e da Diotima per quello onto-teologico. Dentro il testo filosofico
del passato, nelle sue pieghe più nascoste, già era all’opera la contestazione
del primato del sapere sul desiderio, della temperanza sulla spinta erotica,
dell’anima immortale sul dispendio corporeo, già si consumava cioè la storica
decomposizione della metafisica.
D.: È come se ciò che emerge in termini di senso, sia
esso di provenienza da un fondo indistinto e cedevole, e sia esso – ed è ciò su
cui ci stiamo maggiormente soffermando – dalla stessa fermezza di un piano o
fondamento stabile e veritativo, iniziasse a significare, o a risuonare del
tutto nella sua essenza più autentica, solo sulla base di quanto si determina in
virtù di ogni singola esperienza critica individuale; in questo rapporto
conoscitivo e generativo del senso, Lei lo sottolinea, emerge quanto ben al di
là dell’acquietarsi alla fonte di una verità astratta nella sua categorica
assolutezza il ruolo dell’individuo, alla luce dell’effetto mobile e pratico
della differenza, sia di primaria importanza.
R.: Penso che Lei si riferisca all’importanza che nel
mio lavoro ho fin dall’inizio attributo a quella che con Blanchot si potrebbe
definire ‘la voce interrogante della verità’, il lato soggettivo e singolare di
quella strana pratica pensante che è la filosofia. Nell’Infinito
intrattenimento, abissale parodia del dialogo filosofico, del platonico
sfregamento dei discorsi da cui può scaturire la scintilla della verità,
Blanchot tematizza le due forme, alternantisi nel tempo, che può assumere la parola
filosofica, il logos che si rivolge a tutti nello stesso momento in cui sbarca
clandestinamente nelle isole protette e sorvegliate dei saperi: da un lato
l’esposizione continua della verità che si afferma nelle modalità del trattato
e della dissertazione scolastica e universitaria, dall’altro la parola
discontinua e frammentaria, la parola intermittente di chi cerca la verità a
tentoni, e che si manifesta attraverso il dialogo, il saggio, la meditazione,
l’aforisma e finanche il racconto licenzioso. Per fare qualche nome: da una
parte Aristotele, san Tommaso, Hegel, dall’altra Cartesio, Pascal, Sade,
Nietzsche. Non si tratta tuttavia di una separazione netta: in base al
dispositivo della decostruzione illustrato prima si scoprirà la presenza di una
smagliatura irricucibile nella trama più fittamente intrecciata di un ordito
filosofico e una coerenza inaspettata dentro la più scombussolata raccolta di
frammenti.
Lei parla, giustamente d’altronde, di individuo; sulla
scia di Kierkegaard, prima ancora che di Nancy o Agamben, preferirei usare il
termine e il concetto di singolarità. L’individuo nella filosofia moderna non
contraddice infatti il carattere universale dell’essenza, esso è al contrario
una variante, una declinzione particolare, un punto di vista originale e
irriducibile dell’essenza universale. A quest’ultima infatti appartiene, in
modo strutturale e non accidentale, l’essere plurale, la natura intersoggettiva,
essa è, per dirla come Hegel, ‘un io che è noi e un noi che è io’. Se nella
modernità l’individuo è l’io, vale a dire un centro di pensieri, volizioni e
desideri autonomo e originale che nella determinazione della sua identità non
sembra dipendere quindi né dagli altri né da altro in generale, tuttavia l’io
non sono soltanto io, questo io empirico diverso da ogni altro, ma anche l’Io,
ovverosia la forma universale della libertà e dell’autonomia.
Il singolo invece o, come anche si potrebbe definire,
la singolarità qualunque, l’uomo senza qualità, l’entità generica, si oppongono
all’essenza, rifiutano di riconoscersi nella definizione universale, prendono
una linea di fuga da ogni gerarchia che tenti di distinguere fra caratteri
essenziali e tratti accidentali quando in gioco sia la decisione intorno a ciò
che è umano. Per evitare confusioni sarebbe forse preferibile, come avevano
fatto prima Kant e poi Kierkegaard, distinguere fra l’universale e il generale
in modo da liberare il primo termine da qualunque compromesso con la tentazione
essenzialista – stabilita la qualità essenziale per identificare una classe di
individui, per esempio gli esseri umani, tutti quelli che ne saranno sprovvisti
si troveranno inevitabilmente ad essere espulsi dal consorzio umano con le
conseguenze che il Novecento ci ha insegnato – , e poterlo collegare senza
alcuna mediazione con la realtà esistenziale delle singolarità. Ma perché
l’universale possa darsi sempre come un universale singolare, è necessario una
trasformazione radicale dell’essenza della verità quale ci è trasmessa dalla
tradizione della filosofia occidentale. Qui l’ontologia fondamentale
heideggeriana mostra tutta la sua importanza e non tanto e non solo per aver
spostato la nozione della verità dalla dimensione dell’esattezza a quella
dell’illatenza, quanto per averla determinata come un evento
espropriante-appropriante, per averla ancorata in altri termini alla
differenza. Ad una nozione della verità come adeguazione e/o come correttezza
proposizionale, la filosofia contemporanea, attraversata da un generale
processo di isterizzazione, ha progressivamente contrapposto una dimensione
della verità come evento, differenza, accadimento dell’alterità del volto,
cenere. Lacan avrebbe detto che la verità è causa della soggettività: più in
generale si potrebbe dire che se la verità singolarizza, essa deve essere a sua
volta singolare, accadere qui e ora, patire il tempo, avendo dismesso ogni
pretesa generalizzante. La verità è l’evento che mi riguarda, che mi chiama,
che, espropriandomi di tutte le proprietà essenziali, di tutte le certezze del
sapere, di tutti gli abiti individualizzanti, allo stesso tempo si appropria di
me, mi rapisce e mi obbliga ad esserle fedele.
Mi è capitato, prima attraverso lo studio dell’opera
di Benjamin e poi nella raccolta di saggi intitolata L’autobiografia della vita
malata, di verificare tutto questo discorso teorico sulla singolarità in ciò
che ho chiamato il tradursi del corpo vivente nel corpo messo in scrittura.
‘Corpo testuale’ è per me ben più di una metafora, la scrittura, quando è
veramente tale, ha come supporto d’iscrizione carne viva, sanguinante come nel
caso dell’erpice della parabola kafkiana. Così quando la critica si pone il
compito dell’interpretazione del testo del passato – passato nel senso appunto
della passività e non della cronologia – essa tende a farsi carico più che dei
significati generali, socialmente condivisi, di cui l’opera è composta più o
meno consapevolmente – il contenuto reale secondo l’apparato
terminologico-concettuale approntato da Benjamin – , del desiderio singolare –
ciò che Benjamin chiama non a caso il contenuto di verità – che per non essere
distrutto o andare a vuoto si era affidato alla sopravvivenza offerta dallo
scritto per conservare la speranza di una chance avvenire di soddisfazione e
godimento. Perché ciò accada – avevo sostenuto – è necessario tuttavia che in
quel nuovo corpo scritto che è l’opera critica si iscriva a propria volta il
corpo vivente dell’interprete in modo tale che vista a ritroso la scelta di
esercitare l’interpretazione proprio su quel testo del passato mostri tutta la
sua necessità e urgenza per il fatto di fondarsi non su motivi ideologici e
intellettualistici se non addirittura su esigenze accademiche, ma su una
parentela – non una identità – pulsionale e desiderante. È ciò che – mi
sembrava – era accaduto a Benjamin quando aveva dedicato il suo primo saggio
critico al romanzo goethiano Le affinità elettive; c’è una corrispondenza,
dimostrabile dalle lettere e dalle testimonianze degli amici, primo fra tutti
Scholem, fra la situazione descritta nel romanzo e alcuni episodi della vita di
Benjamin risalenti all’epoca in cui sta scrivendo il saggio. In entrambi i casi
si tratta di un matrimonio in crisi, di una passione adulterina, della
riproposizione dell’utopia roussoviana di un ménage a tre o addirittura a
quattro, dell’inevitabile rinuncia dell’amore ed infine della speranza, che si
ha proprio per i disperati, che un giorno quest’amore sia redento e agli amanti
ora separati sia concesso di risvegliarsi nell’eternità beatamente insieme.
È questo il nucleo incandescente, il patico, lo
stupore – quello che doveva avere preso gli sposi adulteri delle Affinità
elettive quando dovettero accettare il fatto che il frutto del loro legittimo
scambio di effusioni erotiche portava nel volto i tratti dei loro rispettivi
amanti – cui si deve dar forma, che si deve alla lettera pensare. E per farlo
bisogna sgombrare il campo da forme di sapere superate ma tuttora potenti, attivarne
di nuove, prendere posizione rischiando il posto, la reputazione e la carriera.
Per restare fedele alla verità di Goethe, divenuta frattanto la sua verità,
Benjamin ha dovuto liquidare la filosofia della vita nelle declinazioni sia di
Dilthey che di Bergson, schierarsi contro Stefan George, ripensare la nozione
d’esperienza, chiamare in causa Freud, elaborare una interamente nuova teoria
della critica scomodando Kant, Fichte, Novalis e Schlegel. E infine mettere
Goethe contro Goethe, abbatterne l’immagine olimpica e serena e farne emergere
quella angosciata e tragica.
Se ho potuto sostenere che ogni testo è da questo
punto di vista un’autobiografia, ciò non va inteso nel senso diltheyano: non si
tratta di porre il genere dell’autobiografia o della biografia a fondamento
delle scienze dello spirito per dare nuova linfa vitale a sistemi della cultura
e dell’organizzazione societaria che tendono nella modernità a meccanizzarsi e
a naturalizzarsi e non si tratta neppure di innalzare una barriera di Erlebnisse
per proteggere la cittadella interiore e il foro coscienziale dalla crescente
disumanizzazione delle forme di vita metropolitane. Il testo è autobiografico
perché è forma della sopravvivenza del corpo vivente: non si dovrebbe neppure
chiamarlo auto-bio-grafico quanto piuttosto alio-tanato-grafico, e non solo
perché come diceva Rimbaud, io è un altro, ma soprattutto perché il soggetto di
scrittura è un sopravvissuto, non alla vita, ma alla morte stessa che come
sappiamo può essere anche produttiva, operosa, può trasformare il nulla in
essere. La scrittura è sopravvivenza anche a questa morte e la condizione del
corpo scritto non è quella del morto, ma quella del morente, di chi o cosa non
muore ma continua a morire. Altrimenti per chi sperare ancora?
D.: A proposito di questo particolare ambito
“spettrale” dell’indagine filosofica, e a partire da questa disposizione, non
onirica, ben inteso, ma di “veglia” alla trascendenza in virtù del pensare,
potremmo articolare la questione nel modo seguente: da una parte si estende lo
sfondo indeterminato dell’esistenza, o degli elementi, dall’altra ciò che la
determinazione dell’esistente è in grado di suscitare. Si tratta a ben vedere
di una filosofia esperiente attuata da un soggetto la cui volontà è quella di
porsi quantomeno in un dialogo spasmodico ed inquieto con ciò che lo circonda,
o il cui tentativo – quando maggiore è lo sforzo – è quello di risalire al
senso di un principio ultimo e radicale. Su tutto permane il desiderio di
perseguire una traiettoria, un disegno in rapporto agli infiniti percorsi e
alla possibilità delle “diffrazioni” che di volta in volta la presenza, la
parola, l’opera, il testo è in grado di suggerire in ognuno di noi; magari per
constatare e affermare poi ognuno a partire dalla propria esperienza di sé con
altri, per un verso la propria insofferente estraneità all’essere, per un altro
il proprio costitutivo disorientamento (se non addirittura, come Lei
suggerisce, l’“inconsuetudine” della “malattia”, lo scacco) nell’infinita
concatenazione dei riferimenti e delle inesauribili relazioni in rete.
Condivide il fatto che il duplice esito in questo possibile scenario sia di per
sé il tratto tipico ed imprescindibile del pensiero tragico rispetto al quale
Lei si è più volte accostato?
R.: Quello della tragedia, o per essere più precisi
del ‘tragico’, è uno fra gli esempi più vistosi della necessità per un pensiero
che voglia afferrare il proprio tempo di essere anacronico o, per dirla con
Nietzsche, ‘inattuale’. L’autocomprensione del moderno ha pronunciato subito il
verdetto: la tragedia come fenomeno poietico-politico era cosa del passato, la scena moderna non
avrebbe mai più visto qualcosa di simile ad una tragedia antica. Anzi, stando a
Hegel, la tragedia segna la fine della bella eticità della polis antica e
inaugura il lungo periodo storico dominato dalla ‘potenza della scissione’ la
cui conciliazione, se mai sarà possibile, spetterà forse al pensiero e non
certo all’arte drammatica o all’arte in generale. Come è noto Peter Szondi ha
compendiato questa situazione nella tesi secondo cui, se a partire da
Aristotele fino ad arrivare sulle soglie della modernità si era avuto a che
fare con una poetica della tragedia – una teoria della tragedia certo, ma anche
un manuale d’istruzione su come scrivere tragedie che fossero poi rappresentate
su di una scena reale – , a partire da Schelling, invece, al posto della
tragedia subentra una filosofia del tragico, non più tragedie ma un’idea del
tragico, vale a dire il tragico come idea.
Ho provato a radicalizzare questo movimento duplice –
dialettico se si vuole – per cui, mentre non si può fare altro che dichiararne
la morte, la tragedia viene ritenuta talmente necessaria all’autocomprensione
del moderno da spingere i suoi interpreti più acuti a farla sopravvivere a
qualunque costo, fosse anche quello spettrale del pensiero filosofico,
sostenendo che lo sforzo di assicurarle un avvenire non si era accontentato
della sola forma del concetto ma aveva provato a utilizzare i generi più
diversi e alle volte anche più lontani dalla forma tragica, e cioè il romanzo
(il caso delle Affinità elettive di Goethe di cui si è già parlato), la
traduzione (l’esperienza di Hölderlin che di fronte al fallimento dell’Empedocle
decide di tradurre, si sa con quale stravolgimento della lingua tedesca, l’Antigone
e l’Edipo Re di Sofocle aggiungendo delle ‘note di traduzione’ che collocano il
tragico nel punto di disgiunzione dell’antico e del moderno), il commento (le
pagine hegeliane della Fenomenologia dedicate ad Antigone), il
rifacimento-ripetizione (la riscrittura parodica dell’Antigone da parte di
Kierkegaard in Enten-Eller), il saggio e l’aforisma (dalla Nascita della
tragedia e l’esperienza wagneriana di Bayreuth ai frammenti tardi sull’età
tragica nell’opera di Nietzsche). Se si aggiungono le opere drammatiche di
Kleist, le pagine di Schopenhauer nel Mondo, quelle di Lukàcs dell’Anima e le
forme, ma soprattutto l’interpretazione intrecciata della tragedia antica e del
Trauerspiel barocco nell’omonima opera di Benjamin e la lettura dell’Antigone sofoclea
offerta da Lacan nel seminario dedicato al tema dell’etica della psicoanalisi,
si avrà il quadro pressoché completo del materiale che ho chiamato in causa per
provare a dipanare uno dei paradossi più persistenti della modernità: il
bisogno spasmodico del tragico in un’epoca il cui atto di nascita coincide con
l’abbandono della tragedia come dispositivo reale per la soluzione dei
conflitti.
Impossibile qui ripercorrere uno per uno e punto per
punto tutti questi momenti che hanno scandito la storia del tragico moderno. Ma
per rispondere alla Sua domanda vorrei soffermarmi su un tema sollevato da
Lacan verso la fine del seminario sull’etica della psicoanalisi e che potrebbe
gettar luce sullo statuto della soggettività moderna. Nell’ultima lezione Lacan
riassume in tre tesi il percorso compiuto intorno all’etica: 1) la sola cosa di
cui si possa esser colpevoli è di aver ceduto sul proprio desiderio; 2) l’eroe
è colui che può impunemente essere tradito; 3) ciò che differenzia l’uomo comune
dall’eroe tragico è il tradimento che il primo commette quasi sempre. Il tema
in questione è appunto quello del tradimento ed è sintomatico notare come esso
era apparso ai primordi della riflessione sul tragico moderno: nelle Note
sull’Edipo Hölderlin colloca il culmine dell’esperienza tragica nel punto in
cui «affinché il corso del mondo non abbia lacune e la memoria dei celesti non
si esaurisca», è necessario che «il Dio e l’uomo si comunichino nella forma
dell’infedeltà che tutto dimentica». In questo momento «l’uomo dimentica se
stesso e il dio e si ribella a se stesso, seppure in modo sacro, come un
traditore». Se il moderno è l’epoca dell’assenza degli dei, cioè dello
sfaldamento di ogni fondamento certo, la risposta di Hölderlin è che l’unico
modo per continuare ad avere memoria degli dei è quello dell’oblio, l’unica
fedeltà possibile il tradimento. Si resterà fedeli divenendo infedeli. In altri
termini, per non tradire il proprio desiderio di cui si è ormai scoperto il
carattere di ‘mancanza ad essere’, di assenza di fondamento e quindi il suo
essere privo sia di un oggetto che di uno scopo che non sia un godimento in
pura perdita, si dovranno tradire sia gli dei della città sia quelli familiari
e si resterà fedeli a quelle leggi che, per essere ‘non scritte’, non hanno
‘forza di legge’ e poggiano soltanto su una fedeltà singolare, talmente
singolare da richiedere la morte.
Con queste ultime osservazioni ho di fatto introdotto
gli elementi essenziali della lettura lacaniana della tragedia sofoclea.
Antigone è in primo luogo il desiderio reso visibile, condotto cioè nella
figura della fanciulla vergine al massimo fulgore attraverso la potenza
dell’arte, ma anche esposto in tutta la sua tragicità. Le etiche della modernità,
infatti, quella libertina e quella di Kant, solo apparentemente contraria alla
precedente, hanno messo l’accento sul carattere contradditorio del desiderio
umano, sul fatto cioè che, se esso è la trasgressione della legge, è però
proprio la legge a comandarlo. La legge – divina, umana, non importa –, ossia
ciò che dovrebbe fare da garante dell’agire umano, è al contrario fonte di
sconforto: i suoi enunciati sono doppi, hanno la forma di un double bind, di un
doppio vincolo, ordinano la loro stessa violazione. La tragedia, l’esperienza
tragica della vita, dal suo canto, altro non è che la messa in scena nella
carne dell’eroe di quell’impossibile che è la contraddizione: più cerco di
sfuggire alla legge familiare che mi vuole parricida e incestuoso, più sprofondo
mio malgrado nel delitto abominevole. Più mi sforzo di rispettare la legge più
divento criminale, ma all’inverso più cerco di evitarne gli effetti, più cerco
di sospenderla, più sono colpevole. Non è un caso allora che per Benjamin il
culmine dell’esperienza tragica fosse rappresentato dal momento in cui l’eroe
si rendeva conto di essere migliore dei suoi dei, una acquisizione così
terribile da togliere all’istante la parola: in che lingua dire il tradimento
degli dei?
Nella tragedia antica la contraddizione si scioglieva:
in Eschilo e in Sofocle (con Euripide, come si sa, incomincia un’altra storia)
è presente un dispositivo, politico nel primo, religioso nel secondo, che
permette di saltare al di là dell’impossibile. La catarsi funziona. Ma nel moderno?
Nel moderno la religione è una moneta fuori corso e il politico è lo stato
leviatano: essi reprimono, tutt’al più rimuovono, in nessun caso sciolgono la
contraddizione tragica. Al loro posto è subentrato quello che Lacan chiama il
servizio dei beni, l’illusione cioè che la società possa produrre un tale
ammasso di oggetti che il desiderio a forza di goderne sarà alla fine più che
soddisfatto. Basta girarsi intorno per sapere che non è così: l’impasse del
desiderio continua a disturbare i soggetti umani, il tragico ritorna sotto
smentite spoglie. All’altezza del seminario sull’etica Lacan attribuisce alla
sublimazione artistica la capacità di forzare i confini dell’etica moderna
attestata sul rinvio infinito fra la legge e la trasgressione, l’imperativo e
il desiderio. Gli esempi sono due: l’amor cortese e la tragedia antica, in
particolare l’Antigone.
Tralascio il primo. Ma per la seconda la domanda è:
quale torsione si dovrà imprimere alla tragedia perché realizzi nel moderno la
sua peculiarità? Poiché non c’è conciliazione di nessun tipo, né religiosa né
politica, la contraddizione verrà sciolta prendendo sul serio l’imperativo
etico: se esso comanda il desiderio la cui realizzazione nel caso di Antigone
comporta la prosecuzione del delitto – la maledizione che incombe sulla casa di
Labdaco e che si trasmette di generazione in generazione attraverso i rapporti
sessuali intempestivi e/o incestuosi – l’eroina non tenterà in nessun modo di
tradirlo, ma caparbiamente si interstardirà nella sventura perché solo così
potrà condurlo ad esaustione. Il desiderio non si concilia, si consuma. Nella
decisione di seppellire costi quel che costi Polinice, Antigone seppellisce il
traditore della patria e così resta fedele al desiderio che l’ha resa sorella
di suo padre, incestuosa come sua madre, complice, in nome della sorellanza
familiare, dei nemici dei suoi fraterni cittadini. Con buona pace di
Calamandrei e di tutti i suoi seguaci, Antigone è una criminale, tradisce i
suoi ma lo fa per non tradire il desiderio, per restare fedele. Ed è per questo
che tutti la tradiscono: Ismene, Creonte, il coro. Solo Emone non l’abbandona,
e per questo muore.
L’uomo comune, conclude Lacan, non fa che tradire,
svende il desiderio per un piatto di lenticchie senza guadagnarne però neppure
la primogenitura: l’eredità, come diceva Benjamin, l’abbiamo già portata al
monte di pietà. Ma basta che un nonnulla gli rinfreschi la ferita che sarà
costretto suo malgrado a perseguire il desiderio: allora per non tradire
tradirà e sarà tradito. Che ad aiutarlo ci sia, in mancanza di meglio, almeno
un lettino su cui stendersi e una presenza silenziosa alle sue spalle pronta a
raccoglierne il dolore.