lunedì 13 luglio 2015

  


Ripubblico un testo edito nella rivista «Zeta Filosofia. Territori delle idee», N. 5, pp. 12-15, supplemento al n. 86/87 di «Zeta News rivista internazionale di poesia e ricerca», anno XXXI.
 


Il male e l’estetizzazione

 Più o meno alla metà degli anni trenta Walter Benjamin aveva già tratto tutte le conseguenze implicite nel passaggio epocale rappresentato dall’avvento dei nuovi media – fotografia, radio, cinematografo, telegrafo e telefono e forse addirittura televisione (i primi esperimenti televisivi avven­gono in concomitanza con le olimpiadi berlinesi del 1936) – e in particolare dalla loro caratteristica principale: la riproducibilità tecnica dei suoni e delle immagini. La tesi tuttora rilevante era la seguente: se  i nuovi media, quelli cioè che a partire da Marshall McLuhan  sono universalmente definiti come ‘elettrici’, producono effetti devastanti nella sfera della produzione culturale da un lato e dell’organizzazione politica dall’altro, è perché in primo luogo modificano le coordinate stesse della percezione, vale a dire del livello in cui si costituisce, per così dire allo stato nascente, l’esperienza in generale, e sul quale poggiano tutte le forme di vita, anche  quelle considerate più nobili e elevate.
In  Benjamin questa trasformazione della percezione trova la propria ci­fra nel concetto dell’aura:  contro il frastuono provocato dalle lamentazioni   per la perdita dell’aura, bisognerebbe ricordare che per Benjamin essa non è altro che un’allucinazione di natura psicotica che come un fantasma tende a invadere il campo della percezione cosiddetta normale. Il termine, impa­rentato con il perturbante freudiano,  denota l’esperienza in cui le cose, cioè gli oggetti d’uso, quelli cosiddetti inanimati, si animano all’improvviso, mo­strano di avere vita propria, in particolare ci restituiscono lo sguardo. Gli oggetti dotati di aura sono quelli che, pur essendoci vicini, a portata di sguardo e di mano, tuttavia restano inafferrabili, slontanano in una regione inaccessibile,  sono del tutto imprevedibili come se fossero governati da una potenza estranea se non alle volte esplicitamente ostile e soprattutto tale da sovrastarci completamente. Da qui la ragione per cui di fronte all’aura non ci si può che inchinare e sottomettere.
   Per Benjamin l’aura  svolge una funzione positiva  solo nel caso in cui possa costituire il medium attraverso il quale una tradizione culturale  e la comunità che in  essa  trova il proprio fondamento si trasmettono da una generazione all’altra.  Il paradosso della posizione di Benjamin, raramente notato dalla critica, consiste nel fatto che l’unicità dell’opera d’arte, la sua autenticità, in una parola la sua aura, acquista un valore solo se si pone al servizio della ripetizione, cioè della trasmissione dell’esperienza accumu­lata.  Nella misura in cui l’aura, secondo la definizione di Benjamin, non è altro che l’esperienza depositata in un oggetto d’uso, la possibilità che quest’ultima non si disperda ma  si conservi come patrimonio di una comu­nità storica richiede che l’opera venga inserita in un rituale. È il carattere ri­petitivo di questo ultimo che assicura la prestazione specifica dell’aura: tra­smettere  il contenuto d’esperienza. L’opera quindi è ‘autentica’ non perché sia l’espressione della creatività o della genialità soggettiva, ma perché par­tecipa di un rituale in cui si trasmette qualcosa di fondamentale per la vita di una comunità: è la tradizione che autentica l’opera, non l’autore.
 Dal  momento in cui la modernità dissolve alla radice il principio co­munitario e la trasmissione del patrimonio culturale fondata sul rituale, l’aura decade irreversibilmente a potenza demonica, effetto perturbante, ap­parenza ingannevole e di conseguenza a mero strumento di dominio.  È di fronte a questo esito della modernità che va colta la specificità dei nuovi media: essi liquidano definitivamente, attraverso una modifica integrale del campo percettivo, il residuo allucinatorio cui l’aura   era stata ridotta   una volta emancipata dal rituale. In primo luogo i nuovi media, attraverso il di­spositivo della riproducibilità tecnica, liberano la fruizione delle opere dalla tirannia del luogo, dalla forza obbligante del ‘qui e ora’: l’opera è fruibile dovunque e quindi l’esperienza circola, non può più essere confiscata da nessuno, si democratizza. In secondo luogo, se prima le opere, pur essendo vicine, manifestavano una lontananza inaccessibile, ora anche le più ogget­tivamente lontane sono avvicinabili,  vengono a portata di mano. Per un pa­radosso di cui ancora oggi si nega l’importanza rivoluzionaria, più le cose divengono manipolabili, più ci si emancipa dal loro dominio.
La conseguenza più massiccia dell’avvento dei nuovi media è quindi la riappropriazione da parte delle masse, finora escluse dalla fruizione delle opere se non nei limiti indicati dal rituale, di tutta la cultura finora prodotta dall’umanità e il suo uso rivoluzionario: se finora il patrimonio culturale era servito a legittimare le classi dominanti, ora esso può diventare il viatico per le lotte di emancipazione delle classi dominate. Scompare la vecchia aristo­cratica figura dell’intenditore d’arte e al suo posto subentra quella delle masse prodotte  dalla moderna società industriale, delle masse che nel sag­gio su Baudelaire Benjamin definirà civilizzate e  denaturate, risultato dell’organizzazione capitalistica del lavoro e delle forme di vita basate sul valore di scambio. La cultura si fa di massa, cioè è prodotta per le masse ed è prodotta dalle masse.  
Come sempre quando l’umanità è sottoposta ad una rivoluzione me­diatica, il primo effetto registrato è quello di una perdita: facoltà fino ad al­lora considerate non solo indispensabili ma anche nobili, si atrofizzano fino a scomparire, sostituite da dispositivi che, facilitandone oltre ogni misura l’esercizio, sembrano anche  impoverire l’esperienza di cui erano garanti.  Ma, dice Benjamin, non bisogna lasciarsi ingannare dal fatto che  le nuove forme di fruizione legate ai nuovi media si manifestino all’inizio in forme screditate:  se, ad esempio,  l’effetto specifico che i nuovi media hanno pro­dotto sulla percezione è stato quello di renderla ‘distratta’, e se ciò sembra contrastare con il fatto che l’arte invece chiede all’osservatore uno speciale raccoglimento laddove le masse vogliono soltanto distrazione, ad una ana­lisi più attenta questa tesi si rivela essere solo un luogo comune. Invece di sprofondare nell’opera per riuscire a gustarla, la massa distratta, dice Benjamin, fa sprofondare nel proprio grembo l’opera d’arte, e in tal modo se ne impadronisce. Nella percezione distratta che si consuma soprattutto a ci­nema e oggi nella televisione o in internet, le masse imparano a valutare e decidere autonomamente.
Ora, è proprio  a causa del fatto che la saldatura fra le masse e la ripro­ducibilità tecnica innesca processi complessivi di emancipazione connessi alla perdita dell’aura, alla dissoluzione di tradizioni oppressive, all’abolizione finanche dei rapporti capitalistici di produzione – la critica dell’aura si confonde in Benjamin con quella marxiana dell’arcano della forma di merce essendo quest’ultima l’unica cosa che nella modernità sia ancora dotata di aura –, che la risposta del capitale consisterà secondo Benjamin nella radicale estetizzazione della politica. Piuttosto che tentare ancora una volta di spoliticizzare l’arte, occorrerà far diventare arte la poli­tica, declinare la politica  nei termini  della produzione del dominio delle immagini. Se la politica una volta presa in carico dai nuovi dispositivi della riproducibilità tecnica è divenuta essa stessa immagine – Benjamin accenna già all’esposizione pubblica, alla messa in vetrina, delle classi dirigenti, di­venute da questo punto simili alle merci, e sottoposte di conseguenza    allo sguardo distratto, cioè disincantato, delle masse -,  allora essa dovrà essere trattata come se fosse un’arte, ossia l’arte della produzione delle immagini, ma di immagini  che, pur essendo situate in un contesto totalmente nuovo,  fungano però da immagini cultuali, producano un effetto d’aura, siano soli­dali col dominio.
È questo per Benjamin il tratto peculiare del fascismo: «esso tenta di or­ganizzare le recenti masse proletarizzate senza però intaccare i rapporti di proprietà di cui esse perseguono l’eliminazione». Il fascismo pertanto vede la propria salvezza,  non nella mera repressione della masse, ma nel consen­tire ad esse di esprimersi, fermo restando che questo  paradossale diritto all’espressione è cosa ben diversa dal riconoscimento dei propri diritti: «Le masse, prosegue Benjamin,  hanno diritto ad un cambiamento dei rapporti di proprietà; il fascismo cerca di fornire loro un’espressione nella conserva­zione delle stesse; il fascismo tende conseguentemente a una estetizzazione della vita politica».
Le masse diventano a loro volta immagini infinitamente riproducibili, occupano la scena come delle merci, si espongono nella scena cine-televi­siva, sono trasformate in immagini cultuali, asservite a riprodurre quei rap­porti di proprietà da cui vorrebbero emanciparsi,  avvolte d’aura  in un mondo senz’aura.
  Tuttavia, l’estetizzazione da sola non è in grado di tenere a freno  i processi di emancipazione: questi ultimi e le forze che scatenano vanno in­canalati affinché non si rivolgano contro i rapporti di proprietà. Allora lo sbocco è uno solo: la guerra. «Tutti gli sforzi della politica , scrive Benjamin, convergono verso un punto. Questo punto è la guerra. La guerra, e soltanto la guerra, permette di fornire uno scopo ai movimenti di massa di grandi proporzioni, previa conservazione dei tradizionali rapporti di proprietà». Se questo è il modo con cui la situazione si configura dal punto di vista della politica, da quello della tecnica invece la formulazione è la seguente: «sol­tanto la guerra permette di mobilitare tutti i mezzi tecnici attuali, previa conservazione dei rapporti di proprietà».
Dopo un riferimento a Marinetti e al futurismo e all’esaltazione della guerra come guerra bella, quindi alla guerra come opera d’arte, Benjamin scrive: «se l’utilizzazione naturale delle forze produttive viene frenata dall’ordinamento attuale dei rapporti di proprietà, l’espansione dei mezzi tecnici, dei ritmi di lavoro, delle fonti di energia spinge verso un’utilizzazione innaturale. Questa utilizzazione avviene nella guerra la quale con le sue distruzioni è la dimostrazione che la società non era suffi­cientemente matura per fare della tecnica un proprio organo, e che la tecnica non era sufficientemente elaborata per dominare le energie elementari della società».
La discrepanza fra lo sviluppo delle forze produttive e la loro utilizza­zione  nel processo di produzione genera la guerra ‘imperialistica’ che altro non è che «una ribellione della tecnica, la quale ricupera dal materiale umano le esigenze alle quali la società ha sottratto il loro materiale naturale. Invece che incanalare fiumi, essa devia la fiumana  umana nel letto delle trincee, invece che utilizzare gli aeroplani per spargere le sementi, essa li usa per seminare le bombe incendiarie sopra le città; nell’uso bellico del gas ha tro­vato un modo per distruggere l’aura in modo nuovo».
‘Sia l’arte e perisca il mondo’: questa è la parola d’ordine del fascismo e insieme il compimento dell’arte per l’arte. «L’umanità che in Omero era uno spettacolo per gli dei dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa». L’autoestraneazione dell’umanità è giunta a un tale grado da permetterle di «vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine».
Ciò che più colpisce nelle tesi benjaminiane è la loro strabiliante attua­lità: pur essendo state pensate in riferimento alle politiche dei regimi cosid­detti totalitari, esse sembrano adattarsi senza bisogno di eccessivi cambia­menti alle nostre società democratiche e flessibili, sembra anzi che il dispo­sitivo dell’estetizzazione della politica sia stato elaborato propria per esse e che solo per uno strano accidente abbia compiuto i suoi primi passi in un ambiente storico-politico diverso. In particolare quello che si presenta come un dato ormai quasi strutturale è il nesso estetizzazione-guerra.
D’altra parte era stato proprio al nuovo statuto della guerra, manife­statosi con la prima guerra mondiale, che Benjamin nel saggio sulle vicissi­tudini dell’arte della narrazione aveva attribuito la nascita del moderno con­cetto di informazione. La guerra aveva testimoniato in primo luogo del col­lasso delle forme tradizionali  della comunicazione: per la prima volta, a memoria d’uomo, «la gente tornava dalla guerra ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile». La guerra moderna è un trauma che non si fa  esperienza, che resta muto e semmai s’iscrive nell’inconscio manifestandosi in modo sintomale. Al suo posto subentra la realtà dell’informazione il cui tratto peculiare, conforme d’altronde  alla scomposi­zione soggettiva prodotta dalla modernità, consiste nello slegare definitiva­mente la coscienza attuale dell’evento su cui è chiamata a riferire dalla me­moria collettiva attraverso la quale si trasmette  l’esperienza accumulata della comunità: in altri termini l’informazione brucia ogni volta il contesto da cui proviene e dal quale soltanto potrebbe derivare il senso di ciò che ac­cade o sta per accadere. La notizia – l’unità minima dell’informazione – è degna d’essere comunicata a condizione che sia assolutamente nuova, che non abbia nulla a che vedere col passato. Essa vive soltanto nell’attimo in cui è nuova,  coincide con l’attimo e si consuma in esso.
La decadenza della narrazione e la sua progressiva sostituzione con il modello dell’informazione derivano, secondo Benjamin, da un altro tratto specifico della modernità: l’espulsione dell’esperienza della morte dalla per­cezione dei viventi. La credibilità del narrato, la sua potenza veridica ed il suo ruolo di guida pratica, discendono direttamente dall’esperienza della morte; solo le parole pronunciate in punto di morte e con la consapevolezza  della morte imminente diventano parole autorevoli. Si potrebbe anzi dire d’accordo con Derrida che le sole parole autorevoli e credibili sono quelle che si sanno postume mentre chi le pronuncia è ancora in vita.
La morte è la storia naturale di ogni storia: non nel senso che ne sia lo sfondo, ma in quello per cui ne  costituisce l’orizzonte di senso. Scandendo con la sua ripetizione la sequenza della narrazione,  costituendone il ritmo, la morte fonda la memoria e rende possibile la sopravvivenza;  disfacendo il continuum storico assicura all’effimero barlumi d’eternità. Senza la morte solo estasi istantanee, vissuti contingenti senza  durata e senza storia.
Se c’è un paradosso nelle forme moderne e contemporanee delle comu­nicazioni di massa governate dal dispositivo dell’estetizzazione della poli­tica esso consiste nel fatto che il nesso strutturale fra informazione e guerra non si accompagna per nulla ad una accresciuta esperienza della morte, bensì al contrario convive tranquillamente con la sua assoluta inesperibi­lità. È diventato un luogo comune notare come a fronte dell’esposizione sempre più massiccia dello spettatore televisivo alla violenza e alla morte prodotte dalla forme di vita contemporanee (guerre e conflitti sociali d’ogni sorta), si registri sul versante della ricezione psicologica un aumento inver­samente proporzionale delle capacità di assuefazione e di adattamento spinte in molti casi fino all’insensibilità più completa. Come se in mancanza di strumenti  psicologici e culturali atti a sostenere il peso della morte, l’unica reazione fosse la cancellazione dell’esperienza in quanto tale.
    Se la morte, sia essa naturale o violenta, è  la quintessenza di tutto ciò che chiamiamo il male – fisico, morale e metafisico -, allora il dispositivo dell’estetizzazione sembra coincidere con un programma di sradicamento del male dal terreno dell’esperienza umana. Sotto i nomi di Realtà Integrale o Virtuale – declinazioni contemporanee della benjaminiana estetizzazione della politica – Jean Baudrillard ha tematizzato la modalità terminale cui giunge un mondo interamente prodotto e performato dai moderni mezzi di comunicazione di massa. Da questo mondo vengono sistematicamente espulsi tutti gli elementi di conflitto, di eccedenza e di  squilibrio che po­trebbero produrre dolore e sofferenza; in esso  il desiderio è  ridotto  alla condizione del  bisogno  in modo che vi sia sempre un oggetto disponibile per poterlo soddisfare. La conseguenza è che il mondo dominato dalla Re­altà Integrale si impegnerà in una mastodontica liquidazione del male, cer­cando di braccarlo da un lato  nella sua radice genetica (la prevenzione in tutte le sue forme), ma anche e soprattutto nella sua incarnazione storico-politica (guerra – ancora la guerra! – all’’Asse del Male’). Va da sé che il male che si cerca di espellere o di eliminare non potrà che tornare proprio al centro di quella Realtà Integrale che se ne voleva completamente immune. Ritornerà come attacco terrorista, suicidio omicida, dono di morte non re­stituibile.
   Non intendo seguire Baudrillard su questo terreno che mi sembra ol­tremodo scivoloso e ambiguo. Più importante mi sembra tener conto di  una notazione a mio parere decisiva che il sociologo francese fa a proposito della natura del male in quanto tale. Se la Realtà Integrale può impegnarsi nella sua eliminazione ciò accade perchè per essa il male è una realtà oggettiva, una realtà appunto nel senso tradizionale di questo termine come di qual­cosa che non dipende da noi ma  che noi subiamo e che la Realtà Integrale o Virtuale cerca di soppiantare definitivamente. Tuttavia è solo perché è una realtà oggettiva che il male è identificabile, circoscrivibile e di conseguenza liquidabile.
Ora è proprio questa tesi ad essere falsa: per Baudrillard il male al con­trario non «ha realtà oggettiva», esso anzi consiste «nello sviamento delle cose dalla loro esistenza ‘oggettiva’, nel loro ‘rovesciamento’, nel loro ‘ri­torno’». Il male è piuttosto una forma, esattamente la forma del ‘duale’ dell’agon, il cui prototipo è ritrovato da Baudrillard nella pratica del dono   individuata a livello antropologico da Marcel Mauss e generalizzata da Georges Bataille. Se il dono sta sul lato del male è perché esso implica sem­pre la dissimetria e lo squilibrio: per quanto si cerchi con un controdono di pareggiare  il dono ricevuto, vi sarà sempre un altro dono che riaprirà la sfida, fino all’elargizione di un dono non restituibile. Riattivare in qualche modo la pratica del dono – anche in quello dell’attacco suicida alle Torri gemelle – è l’unica forma di opposizione alla Realtà Integrale.
 Se la tesi dell’inconsistenza del male produce in Baudrillard queste conseguenze, essa può essere tuttavia sviluppata anche in un altro modo ed è su questo punto che vorrei soffermarmi in conclusione  ricorrendo ancora una volta a Benjamin. Nel grande saggio sulla lingua del 1916 Benjamin af­fronta il tema del peccato e di conseguenza quello della natura del male. In primo luogo il peccato, per Benjamin, è essenzialmente un peccato nei con­fronti della lingua, consiste in un uso distorto della finalità originaria della lingua che è quella di nominare le cose in quanto create dalla e nella lingua divina. Al di là della cornice mitico-teologica in cui si esprime, la tesi benja­miniana significa che la prestazione propria della lingua è quella di portare all’espressione  il contenuto positivo delle cose, la loro consistenza d’essere, caratteristica che il Genesi indica attraverso  la frase ‘è bene’ con cui Dio suggella ogni singolo atto di creazione.  Nella misura invece in cui il peccato è compiuto dai nostri disgraziati progenitori in vista della conquista della conoscenza del bene e del male, la lingua – solo umana questa volta e non più adamitica, cioè imparentata strettamente con quella divina – si volge – vera e propria perversione dello spirito linguistico – non solo a dire il bene, vale a dire ciò che è, ma anche il male, ossia il non essere. Anzi l’effetto più devastante del peccato consiste nel far credere che per poter dire ciò che è, e quindi affermare il bene, sia necessario preliminarmente isolare ciò che non è,  dire il male e in tal modo combatterlo fino all’eliminazione.  Il risultato è uno solo: l’uomo trascorrerà tutto il suo tempo ad inseguire il male e in tal modo diserterà l’esercizio del bene. D’altronde il compito di eliminare il male è di per sé impossibile dal momento che il male non è niente in sé, nulla di oggettivo, di consistente, è un puro miraggio.
Ma cos’era l’aura quando il rituale cessava di sorreggerla e darle un senso? Pura apparenza. Ma l’apparenza, come Benjamin chiarisce in un la­voro preparatorio al saggio sulle Affinità elettive di Goethe, non è solo quella della moderna filosofia idealistica in cui il fenomeno ha un significato posi­tivo non essendo altro che la manifestazione dell’essenza; è anche l’apparenza ingannevole, lo specchio deformante, l’anamorfosi demonica. L’apparenza, da Platone in poi, è anche il dispositivo che dona la veste dell’essere al non essere, che dà un corpo al nulla, che mostra pornografica­mente l’invisibile.
Anche Benjamin dunque come Baudrillard ritiene che il male non abbia alcuna realtà oggettiva. A differenza del sociologo francese, però, non ne trae la conclusione che l’obiettivo della Realtà Integrale sia quello di liqui­dare il male come se quest’ultimo fosse ciò che oppone resistenza al suo dominio iperpervasivo. Per Benjamin è la Realtà Integrale – posto gli si possa attribuire una simile espressione – ad essere il risultato del diffondersi del male. È il male ad essere all’origine della possibilità dell’estetizzazione e non è la Realtà Integrale a derealizzare il male, bensì il male a derealizzare il mondo.
 Se tutto questo è vero, non sembra plausibile affidare al terrorismo sui­cida il compito di sfidare la Realtà Integrale. Più sobriamente l’emancipazione delle masse continua a richiedere un  lavoro di politicizza­zione delle immagini[1].





[1] I testi citati sono: di Walter Benjamin Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; di Jean Baudrillard Il patto di lucidità o l’intelligenza del male.

mercoledì 8 aprile 2015

Ripropongo qui l'intervista apparsa sulla rivista Inschibboleth nel numero 32 del febbraio-marzo 2011


Il divenire altro, o della destituzione del racconto
Alcune domande a Bruno Moroncini

a cura di Bachisio Meloni

D.: Immediatamente accanto alla riflessione sull’ontologia quale fondamentale apertura di prospettive, giungiamo oltre che alla possibilità stessa del pensiero e dell’immaginazione, all’universo dell’arte quale, almeno così come enunciato da Heidegger, radicale apertura all’essere e dischiusura di un mondo. Tutto ciò per dire, come non tutta la sfera dell’essere coincida con la realtà; l’arte dunque come il luogo ideale in grado di far accedere ad una dimensione più profonda, oscura e insondabile del reale. Eppure, nell’ambito di tale carattere simultaneo, luminoso ed umbratile, dell’essere si è come di fronte a una possibilità in cui niente diventa più possibile,  dove il soggetto non ha più potere e prospettive: l’immagine artistica come segnale di una fondamentale assenza di fughe, in qualità, diremmo, non tanto di appello discreto ad un fondamento insondabile, quanto di un formidabile correttivo di richiamo alla fragilità e all’impossibilità stessa del soggetto. È quanto emerge dalla riflessione filosofica di E. Lèévinas su Blanchot e sui possibili scenari dischiusi dalla proiezione heideggeriana della “differenza ontologica”. In questa metafisica descrittiva, laddove ci si aspettava fondamentali e straordinarie aperture di senso sul piano estensivo e riproducibile dell’essere, ci si ritrova nel pieno di uno sfondo indistinto e magmatico, quello del “neutro”, del “fuori”, la cui natura genera contrassegni di instabilità e di disorientamento, e ciò a discapito di una soggettività smarrita, nomade, costitutivamente alle prese con gli indefiniti richiami di senso che l’arte, per quanto in forte contrasto con possibili derive nichiliste, ma ancora in assenza di una più esplicita disposizione ad una prospettiva etica, è in grado di suscitare.

R.: Per rispondere vorrei incominciare da un ricordo di gioventù: sono stato un precoce lettore di poesia e di letteratura, più di poesia che di letteratura – forse un destino familiare. Fra le prime scoperte la raccolta Una volta per sempre di Franco Fortini edita nella vecchia collana dello Specchio e in particolare la serie di poesie intitolata 'La poesia delle rose', più propriamente ancora l’ultima, appunto quella che si chiamava Ultima sulle rose: «Quando da qui si guarda l’età del passato/veramente diventa possibile l’amore./Mai così belli i visi e veri i pensieri/come quando stiamo per separarci, amici./Esercizio della ragione e sentimento/sono due cose e vivacemente si legano/come la rosa è forma di mente e stupore». Da allora mi si dischiuse una verità – o la verità? – cui ho tentato di restare fedele. Non spetta a me decidere se vi sia riuscito, so che questo è ciò che ho perseguito: tenere insieme nel pensiero e nella scrittura esercizio della ragione e sentimento, rigore e immaginazione, il lato del logos e, per usare un termine caro al mio maestro Aldo Masullo, quello del patico, realizzare cioè la forma della rosa, l’unità impossibile di mente e di stupore. E ciò non per vaghe e stolide velleità artistiche – con Benjamin non ho mai amato l’estetismo –, bensì perché nello stupore, che dal suo canto per non scadere nell’ottuso obnubilamento di fronte al reale ha bisogno del sostegno del pensiero razionale, resta incriptato e protetto dalla devastazione della storia l’amore omesso che attende di potersi riscattare, il desiderio di felicità calpestato, l’esigenza di giustizia rimasta inevasa. Che è quanto indicano i primi quattro versi della poesia di Franco Fortini: la possibilità dell’amore viene dopo, quando ogni rapporto è spezzato, a separazione avvenuta. L’unico vero amore, per noi moderni, diceva Kierkegaard, è l’amore-ricordo, l’unico modo per cantarlo è quello elegiaco. Il pensiero è in lutto se non malinconico.
Nella prefazione al mio primo libro su Benjamin citavo in chiusura un verso di Brecht non a caso nella traduzione di Fortini: «Oh, noi/che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,/noi non si potè essere gentili». Per me c’è stata sempre assoluta continuità fra questo retroterra poetico e le scelte filosofiche fatte molto dopo, il pathos e lo stupore che innervavano anche ciò che si presentava per quanto in posizione defilata e marginale come il risultato di un esercizio razionale e di un’argomentazione rigorosa, sono stati le mie vie d’accesso, per dirla con Heidegger, alla filosofia: per la mia generazione ha contato l’impatto con delle scritture filosofiche in cui il pathos soggettivo depurato da ogni arroganza egoica andava di pari passo con la severità dell’esposizione e la profondità del pensiero. Bataille prima di tutto, e poi Levinas, Blanchot, Derrida, Lacan e il Foucault degli scritti letterari. Ma non solo francesi, anche tedeschi: Nietzsche, Heidegger e a correttivo Benjamin. Di quest’ultimo due cose vorrei qui ricordare a prova della continuità fra la voce poetica e quella filosofica: il quasi aforisma che chiude il saggio sulle Affinità elettive di Goethe «Solo per chi non ha più speranza è data la speranza» che mi è sempre sembrato perfettamente in linea con il dettato di Fortini e di Brecht e la teorizzazione, contenuta nella premessa gnoseologica dell’Ursprung des deutschen Trauerspiels, del rapporto fra il fare filosofico e quello artistico. Come è noto per Benjamin la filosofia solo subordinatamente è lavoro del concetto, è principalmente esposizione della verità – una verità che come per tutto il pensiero filosofico contemporaneo è rigorosamente distinta dal sapere e dal conoscere. Il concetto serve solo a smontare pezzo per pezzo la veste ideologica e ingannevole – l’apparenza – con cui il fenomeno si offre primariamente al soggetto conoscente. Ma il vero lavoro viene dopo, quando si tratta di ricomporre secondo un altro ordine i pezzi, le tessere del mosaico o del puzzle, ottenuti dallo smembramento del reale: l’esposizione della verità dei fenomeni in tal modo raggiunta nella costellazione ideale è compito dell’arte, vale a dire solo l’arte salva i fenomeni – il pathos, lo stupore della vita –, proiettandoli nella luce della verità. Una luce, in verità, sobria, smorzata, simile a quella che s’intravede nelle radure che si aprono improvvisamente all’interruzione dei sentieri. Ciò per rispondere alla sua evocazione dell’ermeneutica heideggeriana sebbene abbia sempre preferito la sua variante di ‘sinistra’, e cioè la decostruzione secondo il dettato di Derrida, imparentata per me, e non alla lontana, con la critica nell’accezione che ne dava Benjamin. Più che la Lichtung heideggeriana vale, infatti, per me la concezione benjaminiana della critica come mortificazione delle opere, la ricerca nella potenza espressiva della percezione estetica del privo di espressione, della macchia scura che sporca la patina lucente della bellezza artistica. Lo splendore del bello ha diritto all’esistenza solo a patto che si spenga in modo che sulla scia di una luce che scompare si affermi la potenza del vero, di quella verità ideale che sola può rendere giustizia alla vita.
L’apporto che nella filosofia contemporanea l’arte ha dato al pensiero filosofico, inteso senza alcun cedimento a mode effimere e a tentazioni letterarie come pensiero razionale e rigoroso, erede legittimo della più classica apodissi, non consiste tanto nel tematizzare, alla maniera heideggeriana, un pensiero poetante o una poesia pensante – ogni poesia è pensante anche se non segue la concatenazione logica – , quanto nel destituire la posizione arcontica del logos o, per venire alla modernità, del cogito, del soggetto-io, e nel produrre una dimensione soggettiva che si lasci invadere dalla passività, termine questo polisenso e che evoca differenti campi d’esperienza, dal passato immemoriale che insiste nel presente alla passione che invade la ragione, dal patico che destabilizza e fa uscire il soggetto da se stesso all’inoperosità che da Blanchot a Foucault è il segno distintivo delle forme estreme della vita e del pensiero, anzi del pensiero perché prima di tutto della vita – valgano per tutti i nomi di Artaud, di Roussel, di Sade.
Se si volesse cogliere, come Lei sembra suggerire, un filo, che pur nella differenza, leghi l’ontologia fondamentale heideggeriana agli esiti lévinassiani e blanchottiani lo individuerei nella radicalizzazione del concetto di esistenza che, ancora adesso, mi sembra più vicino alla verità di quello della vita, ultimo baluardo, nonostante tutto, dei trionfi di un cogito duro a morire. L’esistenza è il costante star fuori da ogni stabilità, il passare – da qui la passività costitutiva dell’esperienza – da un fuori a un altro fuori senza stare mai in un dentro. Fine dell’io come insieme di abiti, qualità, poteri, fine dell’io posso che è la vera base, il fondamento autentico, dell’io penso. Un soggetto impotente forse: e se l’impotenza, invece, non fosse un’altra forma, inaudita e non ancora sperimentata, di potenza?

D.: Viene da pensare perciò stesso a quanto si celi nell’antinomia dell’“umiltà di potenza”. Al pari del procedimento artistico – non meno interessante a questo punto sarebbe poter riflettere sulle possibilità tecnico-espressive della scrittura filosofica considerata al di là dei meri contenuti teoretici – è come se la ricerca filosofica ricalcasse i contorni di una propria verità, ma nei termini di una realtà “virtuale”, aperta. Come nella prospettiva deleuziana, lo spazio su cui ci si avventura non è l’espressione di un mondo che ci risulta estraneo, da rappresentare o da significare nella sua complessa problematicità e in quanto altro; è ciò che si materializza a partire dalle nostre singole esperienze di vita, da quanto si determina in virtù delle possibili “pieghe” in rapporto al caos, all’abissalità sorgiva propria dell’universalità indeterminata.

R.: Anche qui, prima di rispondere, mi si permetta un’osservazione apparentemente incongrua con la Sua domanda e che potrebbe dipendere esclusivamente dall’avanzare dell’età che rende ipercritici verso il proprio presente – il tempo del tramonto e della vecchiaia – e particolarmente remissivi, invece, nei confronti del passato – l’epoca dell’inizio e della giovinezza. Comunque sia, provo sconcerto di fronte alla ripresa tutta positiva che oggi si tenta dell’istanza della narrazione: scomodando addirittura Benjamin e il saggio su Nicolaj Leskov, da più parti e in ambiti diversi – il teatro ad esempio, e la letteratura, il cinema, le arti in generale – si promuove il ritorno del racconto contro un passato recente che sarebbe stato disgraziatamente dominato dalla scienza letteraria di ispirazione strutturale e da pratiche artistiche elitarie ed urticanti. Addirittura un politico, esponente di quel che resta della sinistra comunista, fonda le sue poche speranze di vittoria sul fascino che su un elettorato sfiduciato potrebbe esercitare il ricorso ad un lessico per così dire ‘romanzesco’: raccontando una storia con un inizio e una fine, ovviamente lieta, egli donerebbe di nuovo unità e senso a vite che la globalizzazione neoliberista parcellizza e liquida (nel senso appunto della modernità liquida).
Per me, al contrario, ha funzionato quasi come un’ingiunzione la frase che chiude La follia del giorno di Maurice Blanchot: «Un racconto? No, nessun racconto. Mai più». Si ricorderà il plot di questo testo breve di Blanchot: le istanze della legge – medici, poliziotti, giudici – chiedono, anzi impongono, al protagonista di dire tutto quello che ha fatto e che gli è successo, dall’inizio alla fine, senza omettere nulla e in ordine. Ma il narratore si confonde, non ricorda, non sa nemmeno se era presente a quello che accadeva. Il racconto è impossibile e la pretesa della legge risibile. Ecco cos’è per me scrittura: l’esperienza dello spossessamento, dello scivolamento nell’anonimato e nell’impersonale, del passaggio dalla legge del giorno in cui tutto deve essere chiaro, univoco e sensato a quella della notte in cui al contrario il senso slitta, si contraddice, si perde. La scrittura è l’unico modo insieme alla follia di accedere al fuori, posto che il fuori sia ancora un luogo al quale si può accedere e non il non luogo, l’assenza di dimora, l’impossibilità dell’abitare. Di nuovo, perdita dell’abito e perdita dell’io. Secondo la lettura cui Foucault sottopone il pensiero del di fuori di Blanchot la scrittura è l’esperienza attrraverso la quale si entra nel territorio immenso del linguaggio inteso come quel brulichio incessante che precede e oltrepassa il locutore che dicendo ‘io’ crede di poterlo governare e sottoporre al suo dominio.
È solo a partire da qui che come un prolungamento o come un’eco si aggiunge e si raggiunge per me la nozione filosofica di scrittura elaborata da Derrida e il dispositivo della decostruzione che ne discende interamente. È noto che la scrittura in Derrida si pone in opposizione al primato della phoné, della voce che, in quanto tramite invisibile ed aereo, supporto immateriale e trasparente, permette all’anima di illudersi sul fatto che, pur subendo un inevitabile processo di esteriorizzazione, essa resti sempre presso di sé, presente a se stessa, una presenza viva rispetto alla quale la morte non è nulla più di un accidente. Se la scrittura è il miglior esempio della differenza è perché essa è il differimento della presenza, il rinvio di ogni archè, il ritardo patito inevitabilmente dall’origine. Se la scrittura costituisce il dispositivo che assicura in linea di diritto alla traccia la possibilità della sua iterabilità, vale a dire la sua ripetibilità ideale, ciò è possibile perchè allo stesso tempo essa scava nella traccia una spaziatura che vi introduce la separazione e la distanza: la traccia è sempre al posto di un’altra taccia differita o assente, è sempre un’altra traccia, differente da sé, senza origine né destinazione. Da ciò deriva che nella scrittura, vale a dire nella tessitura di un testo, sia esso indifferentemente filosofico, letterario, scientifico, politico o economico, di un testo che può essere formalizzato o no, di un testo che non necessariamente deve essere scritto in linguaggio alfabetico, di un testo che può essere un’immagine, un’architettura, addirittura una musica, sia sempre possibile individuare la smagliatura, la stonatura che dimostra quanto esso non sia in grado di contenere in sé l’origine da cui prende le mosse, il fondamento su cui poggia, l’assiomatica secondo cui si articola.
Se la decostruzione nasce dall’interno della filosofia e finisce per privilegiare i testi cosiddetti filosofici è solo perché la filosofia è nella tradizione occidentale quella forma del discorso cui è devoluto il compito di tematizzare la sfera delle categorie e dei concetti generali con cui si cerca di organizzare l’esperienza; ragion per cui, come Derrida non si è mai stancato di notare, anche il testo più intenzionalmente lontano dallo stile filosofico poggia volente o no su un numero finito di metafore influenti, di opposizioni concettuali e di procedure argomentative che sono l’oggetto specifico della filosofia e la cui produzione è il compito peculiare dell’istituzione filosofica. Al di là di questo la decostruzione è il processo in atto in ogni discorso e in ogni pratica, in ogni campo d’esperienza e in qualunque situazione: non implica un soggetto e può essere anonima e impersonale, operazione di un collettivo senza nome o di una singolarità qualunque.
Terza e ultima fonte per me della nozione di scrittura: il Benjamin della premessa gnoseologica dell’Ursprung per il quale l’esposizione della verità va pensata e praticata secondo il modello della scrittura e non della parola orale. Mentre quest’ultima presuppone un flusso continuo del pensiero in cui l’intenzione soggettiva non possa subire alcun arresto e sia posta al riparo dal rischio di potersi perdere, la scrittura richiede un‘andar sempre da capo, un procedere discontinuo, delle pause e degli spazi bianchi che implicano il passo falso, l’inciampo e la morte del soggetto conoscente. Poiché per Benjamin la verità è un essere a-intenzionale di idee e il soggetto, posto di fronte ad essa, deve, come il discepolo di Sais, bruciare e divenire cenere, è evidente perché sia la scrittura il medium, l’unico, che si adatti ad essa e ne permetta l’esponibilità.
Per giungere alla Sua domanda di cui non mi sono dimenticato anche se ho fatto un giro lungo per arrivare a una risposta, del pensiero di Deleuze, di cui pure riconosco l’importanza e la potenza, ciò che mi ha interessato non è stato tanto il vitalismo cui molti interpreti hanno voluto ridurlo, quanto le tesi sul compito della filosofia e sulle condizioni che rendono possibile l’invenzione sia essa del pensiero filosofico o dell’arte, le condizioni insomma dell’invenzione in generale. È quanto si potrebbe etichettare come la questione dell’idiota: l’idiozia che significa sia la condizione privata contrapposta alla dimensione pubblica, sia l’assenza di sapere, lo stato d’ignoranza, in opposizione all’esistenza del dotto, dell’intellettuale come depositario e custode del sapere tramandato, è la condizione della creazione, cioè dell’innovazione. Bisogna essere idioti come Bartebly, lo scrivano di Melville, o come Miskyn, l’epilettico di Dostoevskji, per poter costruire dei concetti inconsueti, per inventare delle nuove forme percettive e per adottare inedite abitudini etiche. Bisogna dismettere la natura umana e sottoporsi a un divenire altro: donna, animale, cosa, per produrre un concetto, una forma, una condotta. L’invenzione quindi non deriva dal sapere posseduto, non è né un privilegio né un diritto; viene bataglianamente dal non sapere, è appannaggio dell’idiota, vala a dire di chiunque la cui avventura singolare e la piega che ha preso la sua vita, lo spingano lungo le strade della deformazione e della perdita.

D.: Su quanto avviene nel piano immanente di questa vicenda sempre in divenire, interpretabile al pari di un viaggio limite o di transito in un valico di confine (Benjamin), la testimonianza che Lei
raccoglie della teoria ermeneutica della verità, o meglio, a partire dall’attività o dal movimento della differenza e della “diffrazione” dell’interpretazione, è lo stupefacente riscontro di una verità esprimibile come altra da sé; alludo in particolare alla lettura del Simposio platonico da parte di Lacan e a ciò che diviene possibile ricavare in virtù di un’esperienza in grado di suscitare l’idea di un duplice movimento, di un’eco (penso alla singolare inclinazione teorica se non alla vera e propria articolazione di un pensiero “neutro”, o terra di nessuno, la cui origine è data dalla proiezione di quelle “differenze parallele” messe a punto da J.-L. Nancy sulla base del rapporto di stretta con-divisione fra la riflessione di Deleuze e quella di Derrida), o di un controcanto in virtù del quale la lettura lacaniana di Platone apre di continuo alla possibilità di “leggere” lo stesso Lacan alla luce dell’interpretazione dell’Eros platonico.

R.: Quello di Lacan è un capitolo a parte: se si può dire che da sempre la filosofia ha assunto nei confronti della psicoanalisi un certo tono di superiorità come se soltanto attraverso l’esame filosofico questa strana tecnica inaugurata da Freud potesse sperare di assurgere al rango di un sapere legittimo perché fondato trascendentalmente, per me è accaduto il contrario. Forse per il fatto di aver avuto accesso alla filosofia in un momento storico – oggi già le cose sono un po’ cambiate – in cui massimo era il bisogno di sottoporre la tradizione del pensiero filosofico ad una radicale e ultimativa decostruzione dei suoi presupposti metafisici e dei suoi esiti politicamente conservatori se non del tutto reazionari, ho da subito pensato che la psicoanalisi facesse parte di diritto di questo movimento di sovversione della posizione filosofica fino al punto di considerarla forse la sua leva principale. In ciò mi è stato complice, forse suo malgrado, Derrida: in una nota introduttiva al saggio su Freud e la scena della scrittura, Derrida infatti nega recisamente che la decostruzione sia declinabile come una psicoanalisi della filosofia. E ciò ‘malgrado le apparenze’. Apparenze, d’altro canto, consistenti e pesanti: il dispositivo o il destino cui la scrittura si è trovata sottoposta da Platone in poi, lungo tutto il corso della metafisica occidentale, è stato proprio quello della rimozione e non si è trattato né di dimenticanza né di esclusione. Dal momento però che una rimozione riuscita è una rimozione mancata o che in altri termini la rimozione coincide concettualmente e effettualmente con il ritorno del rimosso, la riemergenza costante della scrittura proprio nei contesti da cui essa sembrava bandita, espulsa e del tutto eliminata, dimostra di fatto che la decostruzione è in corso. E che la metafisica è in via di ‘decomposizione storica’. La scrittura, insomma, è un sintomo.
Se tutto questo è vero, il prosieguo della nota però rovescia il primo assunto: i concetti freudiani, infatti, «appartengono tutti, senza alcuna eccezione, alla storia della metafisica, cioè al sistema di repressione logocentrico che si è organizzato per escludere o abbassare, mettere fuori e in basso, come metafora didattica e tecnica, come materia servile o escremento, il corpo della traccia scritta». Come si è visto prima, un discorso intenzionalmente contrario o estraneo alla filosofia si scopre ad un esame più avvertito tramato da quegli stessi presupposti che denunciava nell’oppositore. Il dispositivo della decostruzione è, se così si può dire, autoriflessivo, si applica a se stesso: ciò che serve a decostruire va decostruito a propria volta. Stesso destino con Lacan cui Derrida rimprovera la rilegatura filosofica dell’inconscio freudiano letto, infatti, a partire dalla linguistica saussuriana in cui di nuovo si assiste ad un trionfo simultaneo della voce e della spirito – il segno, infatti, è formato dall’immagine acustica e dalla rappresentazione mentale. Il risultato alla fine è il seguente: la decostruzione della metafisica non può essere considerata una psicoanalisi della filosofia perché la psicoanalisi stessa, se non integralmente almeno per un tratto, partecipa della tradizione della filosofia, si iscrive nello spazio di una metafisica della presenza.
Tutto vero; e però anche – nel pieno rispetto del dispositivo della decostruzione – tutto rovesciabile su di un’altra scena, sulla scena, ad esempio, del discorso inconscio. Vale a dire: se in nessun caso si tratta di sdraiare sul lettino la filosofia e di conseguenza di pretendere di ‘psicoanalizzarla’, quella che invece è sostenibile è la tesi per cui, inserendo la psicoanalisi in una teoria generale dei discorsi alla cui origine si situa il discorso filosofico, quello analitico, che di questa processione discorsiva occupa la fine, se appare agli antipodi del primo non è perché ne sia la diretta contestazione bensì perché deriva da una sua sovversione già avvenuta. Non è di conseguenza la psicoanalisi a decostruire la filosofia, ma una serie di pratiche da cui la stessa psicoanalisi discende e rispetto alle quali può però, alle volte, anche agire in un senso reazionario, come un agente della restaurazione.
Non tuttavia nel caso di Lacan, e in ciò mi distinguo, dopo averlo utilizzato a piene mani, da Derrida: giacché quello che ho provato a compendiare in un modo – me ne rendo conto – quasi incomprensibile è stata la teoria lacaniana dei quattro discorsi che per me sostituisce la teoria generale dell’interpretazione di ascendenza gadameriana anche perché, a differenza di quest’ultima e d’accordo, invece, con la decostruzione, tematizza appunto la sovversione della filosofia, la sua critica radicale e definitiva. La teoria dei quattro discorsi – Maïtre, coniato sul modello del Menone platonico, Universitario, esemplato sulla filosofia hegeliana, isterico e analitico – ha molti aspetti, ma in particolare due che qui mi sembrano essenziali per capire ciò che cerco di dire: 1) la psicoanalisi non nasce come un fungo, essa si iscrive in una storia complessa e discontinua che la precede e da cui prende senso e che è la storia del pensiero occidentale, cioè la storia delle forme del sapere scientifico, del suo statuto e dei suoi modi di produzione; 2) questa storia non viene messa in crisi dalla psicoanalisi che ne è anzi un sintomo e un tentativo di teorizzazione, ma da una serie di eventi, processi, pratiche e dispositivi che Lacan compendia sotto il nome di discorso isterico. Con questo nome si intende in primo luogo il fatto che la psicoanalisi freudiana si costituisce a partire dall’ascolto delle isteriche, sia di quelle che Freud aveva visto da Charcot a Parigi sia soprattutto di quelle che incominciano a frequentare il suo studio di Vienna. Ma attraverso l’emergenza di questo disturbo psichico prevalentemente femminile si vuole indicare la crisi generale che a fine ottocento colpisce la cultura in generale e la società che su quella cultura era edificata. Di questa crisi le donne nella declinazione che il femminile assume nell’isteria sono la testimonianza ma soprattutto la causa. La sovversione della filosofia di cui la psicoanalisi è un effetto e insieme un tentativo di presa in carico è il risultato di un’isterizzazione generale della società occidentale, cioè di una destituzione radicale del primato del sapere razionale e conscio su cui quella società aveva fondato il suo dominio.
Se la decostruzione certamente non è una psicoanalisi della filosofia, la psicoanalisi però partecipa e con pieno diritto ai processi complessivi di decostruzione della filosofia. È questo il senso della mia ricostruzione della lettura da parte di Lacan del Simposio platonico contenuta nel seminario VIII dedicato alla questione del transfert: l’intento non era solamente di far vedere quanto la psicoanalisi dovesse ad un testo principe della tradizione filosofica riguardo ad un concetto per essa essenziale come quello di desiderio (Wunsch in Freud, désir in Lacan) declinato come mancanza ad essere e per converso quanto l’interpretazione psicoanalitica avesse da insegnare alla storia della filosofia antica, oltre che alle sfere teoretiche e morali, nella comprensione anche filologica di un testo del passato. L’ambizione era più alta e consisteva nel mostrare come nella decisione di leggere il Simposio a partire dal punto di vista di Alcibiade, togliendo contestualmente centralità alla figura di Diotima e puntando piuttosto sul conflitto fra l’uomo della scienza (Socrate) e quello del désir (Alcibiade), Lacan raggiungesse il medesimo obiettivo di Derrida rispetto al testo filosofico: far vedere come esso si autodecostruisse da solo, cogliendo nell’irruzione di Alcibiade e nel cambiamento che nell’ordine discorsivo sul soggetto erotico tale irruzione produceva, l’isterizzazione del discorso filosofico tenuto fino a quel momento da Socrate per il lato più propriamente scientifico e da Diotima per quello onto-teologico. Dentro il testo filosofico del passato, nelle sue pieghe più nascoste, già era all’opera la contestazione del primato del sapere sul desiderio, della temperanza sulla spinta erotica, dell’anima immortale sul dispendio corporeo, già si consumava cioè la storica decomposizione della metafisica.

D.: È come se ciò che emerge in termini di senso, sia esso di provenienza da un fondo indistinto e cedevole, e sia esso – ed è ciò su cui ci stiamo maggiormente soffermando – dalla stessa fermezza di un piano o fondamento stabile e veritativo, iniziasse a significare, o a risuonare del tutto nella sua essenza più autentica, solo sulla base di quanto si determina in virtù di ogni singola esperienza critica individuale; in questo rapporto conoscitivo e generativo del senso, Lei lo sottolinea, emerge quanto ben al di là dell’acquietarsi alla fonte di una verità astratta nella sua categorica assolutezza il ruolo dell’individuo, alla luce dell’effetto mobile e pratico della differenza, sia di primaria importanza.

R.: Penso che Lei si riferisca all’importanza che nel mio lavoro ho fin dall’inizio attributo a quella che con Blanchot si potrebbe definire ‘la voce interrogante della verità’, il lato soggettivo e singolare di quella strana pratica pensante che è la filosofia. Nell’Infinito intrattenimento, abissale parodia del dialogo filosofico, del platonico sfregamento dei discorsi da cui può scaturire la scintilla della verità, Blanchot tematizza le due forme, alternantisi nel tempo, che può assumere la parola filosofica, il logos che si rivolge a tutti nello stesso momento in cui sbarca clandestinamente nelle isole protette e sorvegliate dei saperi: da un lato l’esposizione continua della verità che si afferma nelle modalità del trattato e della dissertazione scolastica e universitaria, dall’altro la parola discontinua e frammentaria, la parola intermittente di chi cerca la verità a tentoni, e che si manifesta attraverso il dialogo, il saggio, la meditazione, l’aforisma e finanche il racconto licenzioso. Per fare qualche nome: da una parte Aristotele, san Tommaso, Hegel, dall’altra Cartesio, Pascal, Sade, Nietzsche. Non si tratta tuttavia di una separazione netta: in base al dispositivo della decostruzione illustrato prima si scoprirà la presenza di una smagliatura irricucibile nella trama più fittamente intrecciata di un ordito filosofico e una coerenza inaspettata dentro la più scombussolata raccolta di frammenti.
Lei parla, giustamente d’altronde, di individuo; sulla scia di Kierkegaard, prima ancora che di Nancy o Agamben, preferirei usare il termine e il concetto di singolarità. L’individuo nella filosofia moderna non contraddice infatti il carattere universale dell’essenza, esso è al contrario una variante, una declinzione particolare, un punto di vista originale e irriducibile dell’essenza universale. A quest’ultima infatti appartiene, in modo strutturale e non accidentale, l’essere plurale, la natura intersoggettiva, essa è, per dirla come Hegel, ‘un io che è noi e un noi che è io’. Se nella modernità l’individuo è l’io, vale a dire un centro di pensieri, volizioni e desideri autonomo e originale che nella determinazione della sua identità non sembra dipendere quindi né dagli altri né da altro in generale, tuttavia l’io non sono soltanto io, questo io empirico diverso da ogni altro, ma anche l’Io, ovverosia la forma universale della libertà e dell’autonomia.
Il singolo invece o, come anche si potrebbe definire, la singolarità qualunque, l’uomo senza qualità, l’entità generica, si oppongono all’essenza, rifiutano di riconoscersi nella definizione universale, prendono una linea di fuga da ogni gerarchia che tenti di distinguere fra caratteri essenziali e tratti accidentali quando in gioco sia la decisione intorno a ciò che è umano. Per evitare confusioni sarebbe forse preferibile, come avevano fatto prima Kant e poi Kierkegaard, distinguere fra l’universale e il generale in modo da liberare il primo termine da qualunque compromesso con la tentazione essenzialista – stabilita la qualità essenziale per identificare una classe di individui, per esempio gli esseri umani, tutti quelli che ne saranno sprovvisti si troveranno inevitabilmente ad essere espulsi dal consorzio umano con le conseguenze che il Novecento ci ha insegnato – , e poterlo collegare senza alcuna mediazione con la realtà esistenziale delle singolarità. Ma perché l’universale possa darsi sempre come un universale singolare, è necessario una trasformazione radicale dell’essenza della verità quale ci è trasmessa dalla tradizione della filosofia occidentale. Qui l’ontologia fondamentale heideggeriana mostra tutta la sua importanza e non tanto e non solo per aver spostato la nozione della verità dalla dimensione dell’esattezza a quella dell’illatenza, quanto per averla determinata come un evento espropriante-appropriante, per averla ancorata in altri termini alla differenza. Ad una nozione della verità come adeguazione e/o come correttezza proposizionale, la filosofia contemporanea, attraversata da un generale processo di isterizzazione, ha progressivamente contrapposto una dimensione della verità come evento, differenza, accadimento dell’alterità del volto, cenere. Lacan avrebbe detto che la verità è causa della soggettività: più in generale si potrebbe dire che se la verità singolarizza, essa deve essere a sua volta singolare, accadere qui e ora, patire il tempo, avendo dismesso ogni pretesa generalizzante. La verità è l’evento che mi riguarda, che mi chiama, che, espropriandomi di tutte le proprietà essenziali, di tutte le certezze del sapere, di tutti gli abiti individualizzanti, allo stesso tempo si appropria di me, mi rapisce e mi obbliga ad esserle fedele.
Mi è capitato, prima attraverso lo studio dell’opera di Benjamin e poi nella raccolta di saggi intitolata L’autobiografia della vita malata, di verificare tutto questo discorso teorico sulla singolarità in ciò che ho chiamato il tradursi del corpo vivente nel corpo messo in scrittura. ‘Corpo testuale’ è per me ben più di una metafora, la scrittura, quando è veramente tale, ha come supporto d’iscrizione carne viva, sanguinante come nel caso dell’erpice della parabola kafkiana. Così quando la critica si pone il compito dell’interpretazione del testo del passato – passato nel senso appunto della passività e non della cronologia – essa tende a farsi carico più che dei significati generali, socialmente condivisi, di cui l’opera è composta più o meno consapevolmente – il contenuto reale secondo l’apparato terminologico-concettuale approntato da Benjamin – , del desiderio singolare – ciò che Benjamin chiama non a caso il contenuto di verità – che per non essere distrutto o andare a vuoto si era affidato alla sopravvivenza offerta dallo scritto per conservare la speranza di una chance avvenire di soddisfazione e godimento. Perché ciò accada – avevo sostenuto – è necessario tuttavia che in quel nuovo corpo scritto che è l’opera critica si iscriva a propria volta il corpo vivente dell’interprete in modo tale che vista a ritroso la scelta di esercitare l’interpretazione proprio su quel testo del passato mostri tutta la sua necessità e urgenza per il fatto di fondarsi non su motivi ideologici e intellettualistici se non addirittura su esigenze accademiche, ma su una parentela – non una identità – pulsionale e desiderante. È ciò che – mi sembrava – era accaduto a Benjamin quando aveva dedicato il suo primo saggio critico al romanzo goethiano Le affinità elettive; c’è una corrispondenza, dimostrabile dalle lettere e dalle testimonianze degli amici, primo fra tutti Scholem, fra la situazione descritta nel romanzo e alcuni episodi della vita di Benjamin risalenti all’epoca in cui sta scrivendo il saggio. In entrambi i casi si tratta di un matrimonio in crisi, di una passione adulterina, della riproposizione dell’utopia roussoviana di un ménage a tre o addirittura a quattro, dell’inevitabile rinuncia dell’amore ed infine della speranza, che si ha proprio per i disperati, che un giorno quest’amore sia redento e agli amanti ora separati sia concesso di risvegliarsi nell’eternità beatamente insieme.
È questo il nucleo incandescente, il patico, lo stupore – quello che doveva avere preso gli sposi adulteri delle Affinità elettive quando dovettero accettare il fatto che il frutto del loro legittimo scambio di effusioni erotiche portava nel volto i tratti dei loro rispettivi amanti – cui si deve dar forma, che si deve alla lettera pensare. E per farlo bisogna sgombrare il campo da forme di sapere superate ma tuttora potenti, attivarne di nuove, prendere posizione rischiando il posto, la reputazione e la carriera. Per restare fedele alla verità di Goethe, divenuta frattanto la sua verità, Benjamin ha dovuto liquidare la filosofia della vita nelle declinazioni sia di Dilthey che di Bergson, schierarsi contro Stefan George, ripensare la nozione d’esperienza, chiamare in causa Freud, elaborare una interamente nuova teoria della critica scomodando Kant, Fichte, Novalis e Schlegel. E infine mettere Goethe contro Goethe, abbatterne l’immagine olimpica e serena e farne emergere quella angosciata e tragica.
Se ho potuto sostenere che ogni testo è da questo punto di vista un’autobiografia, ciò non va inteso nel senso diltheyano: non si tratta di porre il genere dell’autobiografia o della biografia a fondamento delle scienze dello spirito per dare nuova linfa vitale a sistemi della cultura e dell’organizzazione societaria che tendono nella modernità a meccanizzarsi e a naturalizzarsi e non si tratta neppure di innalzare una barriera di Erlebnisse per proteggere la cittadella interiore e il foro coscienziale dalla crescente disumanizzazione delle forme di vita metropolitane. Il testo è autobiografico perché è forma della sopravvivenza del corpo vivente: non si dovrebbe neppure chiamarlo auto-bio-grafico quanto piuttosto alio-tanato-grafico, e non solo perché come diceva Rimbaud, io è un altro, ma soprattutto perché il soggetto di scrittura è un sopravvissuto, non alla vita, ma alla morte stessa che come sappiamo può essere anche produttiva, operosa, può trasformare il nulla in essere. La scrittura è sopravvivenza anche a questa morte e la condizione del corpo scritto non è quella del morto, ma quella del morente, di chi o cosa non muore ma continua a morire. Altrimenti per chi sperare ancora?

D.: A proposito di questo particolare ambito “spettrale” dell’indagine filosofica, e a partire da questa disposizione, non onirica, ben inteso, ma di “veglia” alla trascendenza in virtù del pensare, potremmo articolare la questione nel modo seguente: da una parte si estende lo sfondo indeterminato dell’esistenza, o degli elementi, dall’altra ciò che la determinazione dell’esistente è in grado di suscitare. Si tratta a ben vedere di una filosofia esperiente attuata da un soggetto la cui volontà è quella di porsi quantomeno in un dialogo spasmodico ed inquieto con ciò che lo circonda, o il cui tentativo – quando maggiore è lo sforzo – è quello di risalire al senso di un principio ultimo e radicale. Su tutto permane il desiderio di perseguire una traiettoria, un disegno in rapporto agli infiniti percorsi e alla possibilità delle “diffrazioni” che di volta in volta la presenza, la parola, l’opera, il testo è in grado di suggerire in ognuno di noi; magari per constatare e affermare poi ognuno a partire dalla propria esperienza di sé con altri, per un verso la propria insofferente estraneità all’essere, per un altro il proprio costitutivo disorientamento (se non addirittura, come Lei suggerisce, l’“inconsuetudine” della “malattia”, lo scacco) nell’infinita concatenazione dei riferimenti e delle inesauribili relazioni in rete. Condivide il fatto che il duplice esito in questo possibile scenario sia di per sé il tratto tipico ed imprescindibile del pensiero tragico rispetto al quale Lei si è più volte accostato?

R.: Quello della tragedia, o per essere più precisi del ‘tragico’, è uno fra gli esempi più vistosi della necessità per un pensiero che voglia afferrare il proprio tempo di essere anacronico o, per dirla con Nietzsche, ‘inattuale’. L’autocomprensione del moderno ha pronunciato subito il verdetto: la tragedia come fenomeno poietico-politico era cosa del passato, la scena moderna non avrebbe mai più visto qualcosa di simile ad una tragedia antica. Anzi, stando a Hegel, la tragedia segna la fine della bella eticità della polis antica e inaugura il lungo periodo storico dominato dalla ‘potenza della scissione’ la cui conciliazione, se mai sarà possibile, spetterà forse al pensiero e non certo all’arte drammatica o all’arte in generale. Come è noto Peter Szondi ha compendiato questa situazione nella tesi secondo cui, se a partire da Aristotele fino ad arrivare sulle soglie della modernità si era avuto a che fare con una poetica della tragedia – una teoria della tragedia certo, ma anche un manuale d’istruzione su come scrivere tragedie che fossero poi rappresentate su di una scena reale – , a partire da Schelling, invece, al posto della tragedia subentra una filosofia del tragico, non più tragedie ma un’idea del tragico, vale a dire il tragico come idea.
Ho provato a radicalizzare questo movimento duplice – dialettico se si vuole – per cui, mentre non si può fare altro che dichiararne la morte, la tragedia viene ritenuta talmente necessaria all’autocomprensione del moderno da spingere i suoi interpreti più acuti a farla sopravvivere a qualunque costo, fosse anche quello spettrale del pensiero filosofico, sostenendo che lo sforzo di assicurarle un avvenire non si era accontentato della sola forma del concetto ma aveva provato a utilizzare i generi più diversi e alle volte anche più lontani dalla forma tragica, e cioè il romanzo (il caso delle Affinità elettive di Goethe di cui si è già parlato), la traduzione (l’esperienza di Hölderlin che di fronte al fallimento dell’Empedocle decide di tradurre, si sa con quale stravolgimento della lingua tedesca, l’Antigone e l’Edipo Re di Sofocle aggiungendo delle ‘note di traduzione’ che collocano il tragico nel punto di disgiunzione dell’antico e del moderno), il commento (le pagine hegeliane della Fenomenologia dedicate ad Antigone), il rifacimento-ripetizione (la riscrittura parodica dell’Antigone da parte di Kierkegaard in Enten-Eller), il saggio e l’aforisma (dalla Nascita della tragedia e l’esperienza wagneriana di Bayreuth ai frammenti tardi sull’età tragica nell’opera di Nietzsche). Se si aggiungono le opere drammatiche di Kleist, le pagine di Schopenhauer nel Mondo, quelle di Lukàcs dell’Anima e le forme, ma soprattutto l’interpretazione intrecciata della tragedia antica e del Trauerspiel barocco nell’omonima opera di Benjamin e la lettura dell’Antigone sofoclea offerta da Lacan nel seminario dedicato al tema dell’etica della psicoanalisi, si avrà il quadro pressoché completo del materiale che ho chiamato in causa per provare a dipanare uno dei paradossi più persistenti della modernità: il bisogno spasmodico del tragico in un’epoca il cui atto di nascita coincide con l’abbandono della tragedia come dispositivo reale per la soluzione dei conflitti.
Impossibile qui ripercorrere uno per uno e punto per punto tutti questi momenti che hanno scandito la storia del tragico moderno. Ma per rispondere alla Sua domanda vorrei soffermarmi su un tema sollevato da Lacan verso la fine del seminario sull’etica della psicoanalisi e che potrebbe gettar luce sullo statuto della soggettività moderna. Nell’ultima lezione Lacan riassume in tre tesi il percorso compiuto intorno all’etica: 1) la sola cosa di cui si possa esser colpevoli è di aver ceduto sul proprio desiderio; 2) l’eroe è colui che può impunemente essere tradito; 3) ciò che differenzia l’uomo comune dall’eroe tragico è il tradimento che il primo commette quasi sempre. Il tema in questione è appunto quello del tradimento ed è sintomatico notare come esso era apparso ai primordi della riflessione sul tragico moderno: nelle Note sull’Edipo Hölderlin colloca il culmine dell’esperienza tragica nel punto in cui «affinché il corso del mondo non abbia lacune e la memoria dei celesti non si esaurisca», è necessario che «il Dio e l’uomo si comunichino nella forma dell’infedeltà che tutto dimentica». In questo momento «l’uomo dimentica se stesso e il dio e si ribella a se stesso, seppure in modo sacro, come un traditore». Se il moderno è l’epoca dell’assenza degli dei, cioè dello sfaldamento di ogni fondamento certo, la risposta di Hölderlin è che l’unico modo per continuare ad avere memoria degli dei è quello dell’oblio, l’unica fedeltà possibile il tradimento. Si resterà fedeli divenendo infedeli. In altri termini, per non tradire il proprio desiderio di cui si è ormai scoperto il carattere di ‘mancanza ad essere’, di assenza di fondamento e quindi il suo essere privo sia di un oggetto che di uno scopo che non sia un godimento in pura perdita, si dovranno tradire sia gli dei della città sia quelli familiari e si resterà fedeli a quelle leggi che, per essere ‘non scritte’, non hanno ‘forza di legge’ e poggiano soltanto su una fedeltà singolare, talmente singolare da richiedere la morte.
Con queste ultime osservazioni ho di fatto introdotto gli elementi essenziali della lettura lacaniana della tragedia sofoclea. Antigone è in primo luogo il desiderio reso visibile, condotto cioè nella figura della fanciulla vergine al massimo fulgore attraverso la potenza dell’arte, ma anche esposto in tutta la sua tragicità. Le etiche della modernità, infatti, quella libertina e quella di Kant, solo apparentemente contraria alla precedente, hanno messo l’accento sul carattere contradditorio del desiderio umano, sul fatto cioè che, se esso è la trasgressione della legge, è però proprio la legge a comandarlo. La legge – divina, umana, non importa –, ossia ciò che dovrebbe fare da garante dell’agire umano, è al contrario fonte di sconforto: i suoi enunciati sono doppi, hanno la forma di un double bind, di un doppio vincolo, ordinano la loro stessa violazione. La tragedia, l’esperienza tragica della vita, dal suo canto, altro non è che la messa in scena nella carne dell’eroe di quell’impossibile che è la contraddizione: più cerco di sfuggire alla legge familiare che mi vuole parricida e incestuoso, più sprofondo mio malgrado nel delitto abominevole. Più mi sforzo di rispettare la legge più divento criminale, ma all’inverso più cerco di evitarne gli effetti, più cerco di sospenderla, più sono colpevole. Non è un caso allora che per Benjamin il culmine dell’esperienza tragica fosse rappresentato dal momento in cui l’eroe si rendeva conto di essere migliore dei suoi dei, una acquisizione così terribile da togliere all’istante la parola: in che lingua dire il tradimento degli dei?
Nella tragedia antica la contraddizione si scioglieva: in Eschilo e in Sofocle (con Euripide, come si sa, incomincia un’altra storia) è presente un dispositivo, politico nel primo, religioso nel secondo, che permette di saltare al di là dell’impossibile. La catarsi funziona. Ma nel moderno? Nel moderno la religione è una moneta fuori corso e il politico è lo stato leviatano: essi reprimono, tutt’al più rimuovono, in nessun caso sciolgono la contraddizione tragica. Al loro posto è subentrato quello che Lacan chiama il servizio dei beni, l’illusione cioè che la società possa produrre un tale ammasso di oggetti che il desiderio a forza di goderne sarà alla fine più che soddisfatto. Basta girarsi intorno per sapere che non è così: l’impasse del desiderio continua a disturbare i soggetti umani, il tragico ritorna sotto smentite spoglie. All’altezza del seminario sull’etica Lacan attribuisce alla sublimazione artistica la capacità di forzare i confini dell’etica moderna attestata sul rinvio infinito fra la legge e la trasgressione, l’imperativo e il desiderio. Gli esempi sono due: l’amor cortese e la tragedia antica, in particolare l’Antigone.
Tralascio il primo. Ma per la seconda la domanda è: quale torsione si dovrà imprimere alla tragedia perché realizzi nel moderno la sua peculiarità? Poiché non c’è conciliazione di nessun tipo, né religiosa né politica, la contraddizione verrà sciolta prendendo sul serio l’imperativo etico: se esso comanda il desiderio la cui realizzazione nel caso di Antigone comporta la prosecuzione del delitto – la maledizione che incombe sulla casa di Labdaco e che si trasmette di generazione in generazione attraverso i rapporti sessuali intempestivi e/o incestuosi – l’eroina non tenterà in nessun modo di tradirlo, ma caparbiamente si interstardirà nella sventura perché solo così potrà condurlo ad esaustione. Il desiderio non si concilia, si consuma. Nella decisione di seppellire costi quel che costi Polinice, Antigone seppellisce il traditore della patria e così resta fedele al desiderio che l’ha resa sorella di suo padre, incestuosa come sua madre, complice, in nome della sorellanza familiare, dei nemici dei suoi fraterni cittadini. Con buona pace di Calamandrei e di tutti i suoi seguaci, Antigone è una criminale, tradisce i suoi ma lo fa per non tradire il desiderio, per restare fedele. Ed è per questo che tutti la tradiscono: Ismene, Creonte, il coro. Solo Emone non l’abbandona, e per questo muore.
L’uomo comune, conclude Lacan, non fa che tradire, svende il desiderio per un piatto di lenticchie senza guadagnarne però neppure la primogenitura: l’eredità, come diceva Benjamin, l’abbiamo già portata al monte di pietà. Ma basta che un nonnulla gli rinfreschi la ferita che sarà costretto suo malgrado a perseguire il desiderio: allora per non tradire tradirà e sarà tradito. Che ad aiutarlo ci sia, in mancanza di meglio, almeno un lettino su cui stendersi e una presenza silenziosa alle sue spalle pronta a raccoglierne il dolore.