martedì 16 maggio 2017

  
 
Critiche e recensioni 4

Enzo Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Feltrinelli 2016

Dopo quasi duecento anni si può dire senza tema di essere smentiti che la storia delle rivoluzioni moderne è una storia costellata di sconfitte.  Del periodo di tempo che va dalla rivoluzione del 1789 sfociata nel Terrore giacobino e  finita senza soluzione di continuità nella reazione termidoriana fino a quella bolscevica del ’17 esauritasi dopo nemmeno dieci anni con l’avvento di Stalin, quello che resta   è un immenso ammasso di macerie; se si tentasse un bilancio delle forze rivoluzionarie  sarebbe sicuramente in rosso, le perdite  di gran lunga superiori ai guadagni. Se si dà uno sguardo disincantato, ossia razionale, alla storia trascorsa si è quasi tentati di concludere che il suo andamento ha il carattere ciclotomico della sindrome maniaco-depressiva: all’euforia delle rivoluzioni qualche volta tragiche e disperate, altre semplicemente senza capo né coda, succede inesorabile la catatonia dei rivoluzionari sconfitti. Tuttavia il vero effetto drammatico della sindrome maniaco-depressiva è che non si fa mai esperienza della sconfitta: così al periodo depressivo seguirà, anch’essa inesorabile, una nuova fase di esaltazione maniaca. Fatto il lutto (o almeno illudendosi di averlo fatto), analizzati gli errori, ritrovato lo slancio ideale, i rivoluzionari si rimettono in cammino fidando nella potenza della storia e nella giustezza dei loro principi. Va da sé che la disperazione e l’abbrutimento susseguenti all’ennesima sconfitta saranno, se non gli stessi,  di gran lunga peggiori.
Sarebbe tempo di chiudere con questa storia delle rivoluzioni moderne e fare  finalmente l’esperienza della perdita fino in fondo. Ci aveva provato Benjamin durante gli anni trenta del secolo scorso quando esule e senza un soldo, tradito da quell’esperienza storica in cui aveva riposto tutte le sue speranze (la rivoluzione d’ottobre), recise il legame contratto dalle ideologie rivoluzionarie con le ‘magnifiche sorti e progressive’ e scelse come compagno di viaggio della lotta il nichilismo. La politica rivoluzionaria è pessimista e distruttiva. Pessimista perché diffida in generale delle unioni e delle intese siano fra classi, fra  popoli o fra  singoli: la politica rivoluzionaria divide, separa, allontana. Distruttiva perché sconvolge tutti  gli ordini di senso, smantella le morali correnti, mette in bilico i sistemi normativi. Dichiara insomma che niente ha più valore, ma che tutto deve essere transvalutato.
L’obiettivo di tutta questa spinta distruttiva, tuttavia, non è, come anche si potrebbe credere (ma allora sarebbe la regressione alla sindrome maniaco-depressiva),  un avvenire prospero e radioso in cui, oltre il fatto che i vantaggi del progresso sarebbero finalmente distribuiti in modo equanime,  la dignità e la felicità di tutti sarebbero pienamente realizzate. Al contrario, se il politico rivoluzionario distrugge, se fa del nichilismo la sua corazza ideologica, se produce il vuoto intorno a sé, è per   allestire uno spazio in cui il lamento che proviene dal passato,  la voce dei vinti e dei dimenticati, possano essere ascoltati. Si distrugge per riparare l’ingiustizia subita, per dare requie al desiderio insoddisfatto, perché  sia perdonato l’amore omesso e portato a compimento, invece, quello  caduto sotto i colpi del destino. Si distrugge perché i morti abbiano ancora una chance di redenzione, certi come si è che se il nemico vince nemmeno loro saranno più al sicuro. La poca forza messianica disponibile ai rivoluzionari attuali viene dal passato, non dall’avvenire.
È in questo quadro che si colloca per Benjamin la malinconia; mentre il lavoro del lutto guarda al futuro, capace come è di disancorare la libido dall’oggetto scomparso per renderla disponibile a nuovi investimenti e nuovi amori, la malinconia è rivolta al passato: il soggetto malinconico resta avvinto all’oggetto fino al punto da precipitare con esso nella tomba. La malinconia sosta presso i morti, consapevole  di non poterli riportare a nuova vita, ma egualmente impegnata ad impedire che  essi vengano esclusi  dalla redenzione. Come direbbe Blanchot, anche se risuscitassero, continuerebbero ad essere dei morenti, non diventerebbero immortali.  
In un mondo, come quello moderno, in cui ogni piano salvifico di tipo provvidenziale è stato spazzato via e la storia si mostra  come «poco più  che il registro dei delitti, delle pazzie  e delle sventure del genere umano» (Gibbon) o come un ‘sepolcro da cui non vi è risurrezione’ (Bachmann), la malinconia è l’unica condotta soggettiva (il cui pendant oggettivo è l’allegoria che ha per emblema il teschio) che possa salvare ciò che è morto. La malinconia lavora il negativo in modo non  dialettico: piuttosto che tentare di trasformarlo in positivo,  lo assume come tale,  ne segue passo passo il percorso tortuoso,  lo spinge sempre più in avanti, e in tal modo lo estenua, lo porta ad esaustione, fino a quando non ne resti più niente o che lo stesso niente non sia ridotto in nulla, vada in fumo. Così facendo la malinconia   sottrae il morto alla negatività e lo salva.     
Di tutto questo, del senso della malinconia non solo per Benjamin ma anche per Panofsky e Saxl e per Starobinski, non c’è alcuna  traccia nel libro di Enzo Traverso che si limita ad assumere il termine nel suo significato più corrivo e più banale. Apprendiamo così che ci sono due forme di malinconia, c’è quella della lotta e quella della sconfitta, quella dell’azione e quella della riflessione. Entrambe sono necessarie alla rivoluzione, servendo infatti a «metabolizzare la sconfitta rimanendo in piedi, proseguendo la lotta».  Se la prima malinconia spinge perché la lotta ricominci  immediatamente e non ci si faccia scoraggiare dalla sconfitta momentanea, la seconda prende tempo per riflettere sulle cause di quest’ultima e   per riprendere le forze.  Insieme le due malinconie sono «indissociabili dalle lotte e  dalle speranze, dalle utopie e dalle rivoluzioni». La malinconia fa parte integrante «della struttura dei sentimenti della sinistra»: senza malinconia insomma niente più rivoluzione.
Facile osservare che questa malinconia in realtà è lutto. La vera malinconia compare alla fine, a margine, e completamente travisata. È la rassegnazione o malinconia della sconfitta, oggi, da un lato, onnipresente, e dall’altro «occultata da una memoria pubblica che offre spazio esclusivamente alle vittime» e in cui le rivoluzioni «appaiono come un arcaismo del Novecento, un’epoca di sangue e di fuoco il cui solo lascito è il lutto per le vittime: i morti delle guerre, dei genocidi e dei totalitarismi».
D’accordo sul paradigma ‘vittimario’ che fa delle vittime nient’altro che l’oggetto inerte degli interventi umanitari  senza riconoscergli lo statuto e il rango del soggetto politico. Ma non è forse questa l’opera della malinconia? Star dietro al morto, farsi eco del lamento delle vittime, ma senza illusioni, quasi senza  speranza. La quale, come diceva Benjamin,  può essere nutrita solo per chi non ne ha più, per gli assolutamente disperati.
 È certo invece che, se la malinconia di sinistra è quella descritta da Enzo Traverso,  una malinconia di lotta e di speranza, allora niente e nessuno ci eviteranno, ad essere ottimisti, altri duecento anni di sconfitte.  



martedì 9 maggio 2017


   


Critiche e recensioni 3

Massimo Recalcati, Il mistero delle cose. Nove ritratti di artisti, Feltrinelli 2016

Quando si ha la sensazione di non essere ascoltati si usa l’espressione: «Sto parlando ai muri». Anche Lacan aveva la stessa sensazione. Il sei gennaio del 1972,  durante il ciclo di conferenze intitolato Il sapere dello psicoanalista, indicando le pareti della cappella dell’ospedale di Sainte-Anne che lo ospita e in cui è entrato trent’anni prima come giovane pschiatra, dichiara  davanti a un uditorio sorpreso e  infastidito   di aver parlato sempre e soltanto ai muri. Non parla, come nota Jacques-Alain Miller, né al pubblico presente né al grande Altro, parla ai muri, cioè da solo.
Di muri per Lacan se ne contano parecchi: c’è il muro del linguaggio, c’è quello dell’amore.  Contro il primo si infrange il nostro desiderio di andare alle cose stesse, di raggiungerle al di là della parola, contro il secondo quello del rapporto sessuale, della comune misura del godimento. Ma come separa, così un muro anche protegge: soprattutto se non di un solo muro si tratta ma  di quattro; rinchiudersi fra quattro mura vuol dire proteggersi da tutto ciò che ci può colpire all’improvviso cogliendoci indifesi e impreparati. Innalzare i muri significa dividere lo spazio in un dentro e in un fuori, costruire un  dentro protettivo separato da un fuori pericoloso e imprevedibile.
Ma quello che di strano ha un muro è che a pensarci bene  il dentro non è altro che il fuori recintato: compito dei muri, precisa Lacan, è di circondare il vuoto. Così la protezione dal fuori è ottenuta trasformandone una porzione in dentro: quest’ultimo non è altro che vuoto reso vivibile, abitabile. Si ottiene protezione non espellendo ciò che fa paura ma internandolo, offrendogli uno spazio in cui potersi iscrivere.
Ma la logica dei muri non si esaurisce qui: resta da chiedersi perché un muro, fosse pure soltanto la parete di una grotta (un muro per così dire naturale), spinga irresistibilmente gli uomini a ricoprirlo di immagini. Riprendendo un mese dopo il discorso sui muri (ma questa volta all’interno del seminario …ou pire)  Lacan invita i suoi uditori a seguire il consiglio (o piuttosto l’ingiunzione?) di Leonardo da Vinci: «Guardate i muri!». Se i muri sono fonte d’ispirazione per il pittore è perché su di essi si formano le macchie, macchie d’umidità o di muffa. E, come scrive Leonardo nel Trattato della pittura, nelle macchie  sono preformate  le figure: «Egli è ben vero che in tale macchia si vedono varie invenzioni di ciò che l'uomo vuole cercare in quella, cioè teste d'uomini, diversi animali, battaglie, scogli, mari, nuvoli e boschi ed altre simili cose». E ribadisce: bisogna fermarsi a guardare i muri e vedere nelle macchie quelle «invenzioni mirabilissime, che destano l'ingegno del pittore a nuove invenzioni di componimenti di battaglie, d’animali e d’uomini, come di vari componimenti di paesi e di cose mostruose, come di diavoli e di simili cose».    
Ma non ci sono soltanto le macchie naturali. La macchia è  così essenziale alla pittura che, laddove non ci sia, la si inventa: come diceva Botticelli il pittore che non ama i paesi e non ha voglia di studiare come si disegnano basta che getti  una spugna  piena di diversi colori su di un  muro e nella macchia che essa produce vedrà  prendere forma un bel paese.
Ci sarebbe da chiedersi se certa arte pittorica moderna come ad esempio quella di Jackson Pollock non sia semplicemente una pittura che abbia scelto di fermarsi allo stadio della macchia senza andare oltre verso la figura, lasciando al fruitore la scelta di limitarsi all’esperienza del colore o di completare l’opera immaginando paesi e battaglie, animali e uomini, angeli e demoni.
Fra il dentro e il fuori l’uomo ha messo le immagini e la macchia è nella parete o nella tela quel che resta del fuori, la sua traccia. Giacché è pur sempre vero che guardare i muri significa, che lo si sappia o no, anche sempre guardare al di là dei muri. E al di là dei muri c’è, dice Lacan, il reale, vale a dire l’impossibile. Un impossibile da raggiungere che, tuttavia, è là, al di là del muro. Un fuori di cui la macchia è l’impronta visibile da dentro, il vuoto che si interna.
Forse la differenza fra la pittura classica e quella moderna è solo questa: la prima copre la macchia con la figura, la seconda  tratta la macchia come una figura. Così l’arte pittorica sarebbe sempre figurativa e si tratterebbe soltanto di stabilire di volta in volta il posto occupato dalla macchia.
Sebbene non si faccia mai riferimento a questi passi lacaniani (in compenso si usa in abbondanza il modello sempre lacaniano dell’arte del vasaio che come quella dell’architetto consiste nel dare forma al vuoto) la logica e/o l’estetica del muro ci sembra fare da premessa necessaria alla comprensione di questo libro bellissimo di Massimo Recalcati dedicato alla pittura. Che però ha incrociato il muro in un libro precedente rivolto a definire il campo di un’estetica psicoanalitica  declinata a partire dall’insegnamento di Lacan (Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp.115ss). A proposito infatti della pittura di Antoni Tàpies, Recalcati parla di una poetica del muro: l’itinerario dell’artista spagnolo sarebbe caratterizzato dal passaggio da un trattamento della tela come specchio o, secondo il dettato della pittura dal rinascimento in poi, come finestra, alla sua resa come muro e quindi dalla rappresentazione narcisistica dell’io, dalla  specularità del ritratto,  alla riduzione del soggetto all’opacità del muro, alla sua monocromaticità. Commentando un  autoritratto in cui l’artista mostra coll’indice, guidando in tal modo lo sguardo e l’attenzione del fruitore, un foglietto su cui è scritto il suo nome la cui iniziale ha esplicitamente la forma di una croce, Recalcati può concluderne che qui il nome non è più la cifra del soggetto come insieme delle identificazioni immaginarie e quindi come sede e origine del senso, ma come destino, croce cui si è inchiodati,  muro inaggirabile.
Anche Lacan si era occupato delle scritte sui muri: sempre nella lezione del seminario …ou pire già citata dice che tutto ciò che si scrive rinforza il muro. Ricoperto di scritte, che siano la formula rivoluzionaria  Liberté, égalité, fraternité o  il comando Vietato fumare, un muro si fa ancora più parlante, si erge ancora di più come il muro del linguaggio. Allo stesso modo le lettere d’amore rinforzano l’amur, il muro dell’amore.
Resta vero però sia per Lacan che per Recalcati che, in conformità all’etica analitica che ordina all’io di addivenire là dov’era es, la direzione della pittura sia di guardare al di là del muro, verso il reale e l’impossibile, in modo da rendere  visibile attraverso la macchia-figura sia l’invisibile sia ciò che non si riesce a vedere per eccesso di visibilità. 
Non deve ingannare il fatto che l’indagine di Recalcati riguardi solo nove pittori, per di più tutti italiani, operanti fra novecento e nuovo secolo; la sua tesi principale, in realtà, è valida per la pittura moderna (e forse nemmeno solo per questa) in generale.  Per quanto la poetica di cui si fa portatrice sia quella  «del reale come alterità inesprimibile»,  essa continua a domandarsi, tuttavia, se si possa «raffigurare l’irrafigurabile». 
Così le nature morte di Giorgio Morandi, queste cose-macchie che sono raffigurate sulla tela, si rivelano «indici dell’assoluto, di una Cosa che non si può ridurre alla sua semplice presenza perché invoca necessariamente l’esistenza di un’Altra Cosa». Contro una psicoanalisi dell’arte «stoltamente» patografica, che pretende interpretare cioè le bottiglie di Morandi come simboli di un fallo assente nella sua funzione nella vita privata dell’artista, Recalcati insiste sul fatto che invece esse sono «immagini che bucano la semplice presenza dell’oggetto evocando il reale irrapresentabile che essa sembra custodire».
Con lo stesso movimento con cui prende distanza da una psicoanalisi dell’arte che pretende interpretare  l’inconscio dell’artista e  dimentica quello ben più rilevante dell’opera che non consiste tanto in una  proliferazione simbolica di  junghiana memoria, ma nel modo con cui nella strutturazione simbolica dell’opera emerge un reale di per sé irrapresentabile, Recalcati si discosta anche da quella ideologia dell’informe sostenuta da Rosalind Krauss per la quale l’arte moderna  dovrebbe abolire il predominio della forma  per dare libero sfogo al reale della pulsione e della materia.
In realtà le bottiglie di Morandi, ma anche le mele di Cézanne, i sacchi di juta, le combustioni e i cretti di Burri, i carboni, le pietre e i ferri di Kounellis, le sciabolate di nero, bianco e rosso di Vedova, le colate di colore di Pollock, i tagli sulla tela di Fontana, le impronte di fumo di Parmiggiani, i muri di Celiberti, gli interni di Papetti, come non sono simboli che imbrigliano o coprono il movimento  libero e eversivo  della pulsione,  neppure sono riducibili a scarabocchi privi di forma: fossero anche macchie, sarebbero comunque forme che tentano l’impossibile, ossia raffigurare l’impossibile.
    


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