Critiche e recensioni 4
Enzo Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta,
Feltrinelli 2016
Dopo quasi duecento anni si può dire senza tema di essere smentiti che
la storia delle rivoluzioni moderne è una storia costellata di sconfitte. Del periodo di tempo che va dalla rivoluzione
del 1789 sfociata nel Terrore giacobino e
finita senza soluzione di continuità nella reazione termidoriana fino a
quella bolscevica del ’17 esauritasi dopo nemmeno dieci anni con l’avvento di
Stalin, quello che resta è un immenso
ammasso di macerie; se si tentasse un bilancio delle forze rivoluzionarie sarebbe sicuramente in rosso, le perdite di gran lunga superiori ai guadagni. Se si dà
uno sguardo disincantato, ossia razionale, alla storia trascorsa si è quasi
tentati di concludere che il suo andamento ha il carattere ciclotomico della
sindrome maniaco-depressiva: all’euforia delle rivoluzioni qualche volta
tragiche e disperate, altre semplicemente senza capo né coda, succede
inesorabile la catatonia dei rivoluzionari sconfitti. Tuttavia il vero effetto
drammatico della sindrome maniaco-depressiva è che non si fa mai esperienza
della sconfitta: così al periodo depressivo seguirà, anch’essa inesorabile, una
nuova fase di esaltazione maniaca. Fatto il lutto (o almeno illudendosi di
averlo fatto), analizzati gli errori, ritrovato lo slancio ideale, i
rivoluzionari si rimettono in cammino fidando nella potenza della storia e
nella giustezza dei loro principi. Va da sé che la disperazione e
l’abbrutimento susseguenti all’ennesima sconfitta saranno, se non gli stessi, di gran lunga peggiori.
Sarebbe tempo di chiudere con questa storia delle rivoluzioni moderne e
fare finalmente l’esperienza della
perdita fino in fondo. Ci aveva provato Benjamin durante gli anni trenta del
secolo scorso quando esule e senza un soldo, tradito da quell’esperienza
storica in cui aveva riposto tutte le sue speranze (la rivoluzione d’ottobre),
recise il legame contratto dalle ideologie rivoluzionarie con le ‘magnifiche
sorti e progressive’ e scelse come compagno di viaggio della lotta il
nichilismo. La politica rivoluzionaria è pessimista e distruttiva. Pessimista
perché diffida in generale delle unioni e delle intese siano fra classi,
fra popoli o fra singoli: la politica rivoluzionaria divide,
separa, allontana. Distruttiva perché sconvolge tutti gli ordini di senso, smantella le morali
correnti, mette in bilico i sistemi normativi. Dichiara insomma che niente ha
più valore, ma che tutto deve essere transvalutato.
L’obiettivo di tutta questa spinta distruttiva, tuttavia, non è, come
anche si potrebbe credere (ma allora sarebbe la regressione alla sindrome
maniaco-depressiva), un avvenire
prospero e radioso in cui, oltre il fatto che i vantaggi del progresso
sarebbero finalmente distribuiti in modo equanime, la dignità e la felicità di tutti sarebbero pienamente
realizzate. Al contrario, se il politico rivoluzionario distrugge, se fa del
nichilismo la sua corazza ideologica, se produce il vuoto intorno a sé, è
per allestire uno spazio in cui il
lamento che proviene dal passato, la
voce dei vinti e dei dimenticati, possano essere ascoltati. Si distrugge per
riparare l’ingiustizia subita, per dare requie al desiderio insoddisfatto,
perché sia perdonato l’amore omesso e
portato a compimento, invece, quello
caduto sotto i colpi del destino. Si distrugge perché i morti abbiano
ancora una chance di redenzione, certi come si è che se il nemico vince nemmeno
loro saranno più al sicuro. La poca forza messianica disponibile ai
rivoluzionari attuali viene dal passato, non dall’avvenire.
È in questo quadro che si colloca per Benjamin la malinconia; mentre il
lavoro del lutto guarda al futuro, capace come è di disancorare la libido dall’oggetto
scomparso per renderla disponibile a nuovi investimenti e nuovi amori, la malinconia
è rivolta al passato: il soggetto malinconico resta avvinto all’oggetto fino al
punto da precipitare con esso nella tomba. La malinconia sosta presso i morti, consapevole
di non poterli riportare a nuova vita,
ma egualmente impegnata ad impedire che essi vengano esclusi dalla redenzione. Come direbbe Blanchot,
anche se risuscitassero, continuerebbero ad essere dei morenti, non
diventerebbero immortali.
In un mondo, come quello moderno, in cui ogni piano salvifico di tipo
provvidenziale è stato spazzato via e la storia si mostra come «poco più che il registro dei delitti, delle pazzie e delle sventure del genere umano» (Gibbon) o
come un ‘sepolcro da cui non vi è risurrezione’ (Bachmann), la malinconia è l’unica
condotta soggettiva (il cui pendant oggettivo è l’allegoria che ha per emblema il
teschio) che possa salvare ciò che è morto. La malinconia lavora il negativo in
modo non dialettico: piuttosto che
tentare di trasformarlo in positivo, lo
assume come tale, ne segue passo passo
il percorso tortuoso, lo spinge sempre
più in avanti, e in tal modo lo estenua, lo porta ad esaustione, fino a quando non
ne resti più niente o che lo stesso niente non sia ridotto in nulla, vada in
fumo. Così facendo la malinconia sottrae il morto alla negatività e lo salva.
Di tutto questo, del senso della malinconia
non solo per Benjamin ma anche per Panofsky e Saxl e per Starobinski, non c’è
alcuna traccia nel libro di Enzo
Traverso che si limita ad assumere il termine nel suo significato più corrivo e
più banale. Apprendiamo così che ci sono due forme di malinconia, c’è quella della
lotta e quella della sconfitta, quella dell’azione e quella della riflessione. Entrambe
sono necessarie alla rivoluzione, servendo infatti a «metabolizzare la
sconfitta rimanendo in piedi, proseguendo la lotta». Se la prima malinconia spinge perché la lotta ricominci
immediatamente e non ci si faccia
scoraggiare dalla sconfitta momentanea, la seconda prende tempo per riflettere sulle
cause di quest’ultima e per riprendere le forze. Insieme le due malinconie sono «indissociabili
dalle lotte e dalle speranze, dalle utopie
e dalle rivoluzioni». La malinconia fa parte integrante «della struttura dei
sentimenti della sinistra»: senza malinconia insomma niente più rivoluzione.
Facile osservare che questa malinconia in
realtà è lutto. La vera malinconia compare alla fine, a margine, e
completamente travisata. È la rassegnazione o malinconia della sconfitta, oggi,
da un lato, onnipresente, e dall’altro «occultata da una memoria pubblica che
offre spazio esclusivamente alle vittime» e in cui le rivoluzioni «appaiono
come un arcaismo del Novecento, un’epoca di sangue e di fuoco il cui solo
lascito è il lutto per le vittime: i morti delle guerre, dei genocidi e dei
totalitarismi».
D’accordo sul paradigma ‘vittimario’ che fa delle
vittime nient’altro che l’oggetto inerte degli interventi umanitari senza riconoscergli lo statuto e il rango del
soggetto politico. Ma non è forse questa l’opera della malinconia? Star dietro
al morto, farsi eco del lamento delle vittime, ma senza illusioni, quasi senza speranza. La quale, come diceva Benjamin, può essere nutrita solo per chi non ne ha più,
per gli assolutamente disperati.
È certo
invece che, se la malinconia di sinistra è quella descritta da Enzo Traverso, una malinconia di lotta e di speranza, allora niente
e nessuno ci eviteranno, ad essere ottimisti, altri duecento anni di sconfitte.