mercoledì 10 aprile 2013

Sui matrimoni gay

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Ad ogni nuovo papa, il fronte laico entra in trepidante attesa: che sia, si augura, la volta buona per avere l’accesso delle donne al sacedorzio, la revoca del celibato per i preti, l’accettazione dell’aborto, quella della contraaccezione, il diritto alla buona morte e dulcis in fundo la celebrazione dei matrimoni gay? Non prima però di aver mandato al rogo tutti i preti pedofili e i loro superiori e di avere in sostanza trasformato con qualche secolo di ritardo - ma non  è mai troppo tardi - il cattolicesimo in protestantesimo: dimenticavo le richieste dei teologi alla Vito Mancuso.
Non ci vuole un profeta biblico per sapere che resteranno delusi: non accadrà nulla di tutto questo. Anzi. Del nuovo papa già si sa ad esempio che all’altro capo del mondo dove  i cardinali sono andati a pescarlo, in Argentina, si era battuto e con durezza contro la legge che introduceva i matrimoni gay. E lo farà anche contro quella che in Francia fa altrettanto. Sulla quale e sulla discussione che aveva provocato era intervenuto qualche tempo fa sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia (30 dicembre 2012) notando fra le altre cose che a prendere posizione contro non era stato soltanto il solito cattolicesimo conservatore e reazionario ma anche l’ebraismo progressista e cosmopolita  e che lo aveva fatto nella persona del rabbino capo di Francia Gilles Bernheim  di cui si citava l’intervento intitolato Mariage homosexuel, homoparentalité et adoption: ce que l’on oublie de dire.
Il dissenso del rabbino capo verte essenzialmente sullo scompiglio che i matrimoni gay apporterebbero nella catena delle filiazioni: una preoccupazione assolutamente comprensibile dal punto di vista ebraico in cui l’appartenenza alla nazione ebraica - per discendenza soprattuto materna - e alla religione ebraica è quasi la stessa cosa e quindi il rispetto delle filiazioni è essenziale, meno per il cristianesimo in cui l’essere tutti figlio di Dio e uniti dal vincolo della fraternità in nome dell’amore produce il trionfo dell’incesto e il groviglio inestricabile delle filiazioni - oltre alle prime due persone della trinità che sono insieme padre e figlio, basterebbe pensare alla Madonna che è contemporaneamente madre di Cristo e sposa  di Dio,  del Padre,  del Verbo, dell’Agnello e dello Spirito Santo, oltre ad essere figlia come tutti gli altri.
Comunque per il rabbino capo il matrimonio non è unicamente il riconoscimento di un amore, è «l’istituzione che articola l’alleanza dell’uomo e della donna con la successione delle generazioni». Il matrimonio si fonda sulla, di più  fa tutt’uno con la, differenza sessuale, non  può diventare quindi un’istituzione asessuata. Per il rabbino capo  il rapporto parentale implica la sessuazione, il termine ‘parente’ non è neutro, è sessuato. Né la parentela può essere ridotta a un mero esercizio di funzioni, soprattutto educative. In altri termini il matrimonio introduce il nuovo nato non solo in una rete di filiazioni certa - un padre  e una madre, i loro genitori e così via all’infinito -, ma anche in una sessuazione anatomica e simbolica univoca.
Per certi versi l’argomentazione del rabbino capo potrebbe ricordare quella analoga di Jean-Claude Milner che in Les penchants criminels de l’Europe démocratique (2003) denunciava l’oblio cattolico e laico-democratico di ciò che definiva con un vezzo heideggeriano la ‘quaduplicità’, cioè l’essere irretito di ciascun essere parlante in un quadrato i cui angoli sono costituiti  da  due copie di termini:   maschile/femminile  e  genitori/figli. Questa verità valevole per tutti lo era in particolare per gli ebrei, per il nome ‘ebreo’ che deve tutto alla sola quadruplicità. Ma la notazione era rivolta contro tutti i tentativi di spiritualizzazione della sessuazione e della trasmissione del nome attraverso la generazione sessuata messi in opera appunto in primo luogo dal cristianesimo cattolico che come suo atto di nascita ha la decisione paolina di ammettere nella chiesa nascente anche i non circoncisi, annullando in tal modo le filiazioni a sfondo corporeo-materiale a favore di quelle  esclusivamente ideal-spiritualistiche. Con la paradossale conseguenza che mentre il presunto particolarismo ebraico è in grado di rappresentarsi la successione illimitata delle generazioni fino al punto di fare degli ebrei la testimonianza più potente dal punto di vista  politico del pastout lacaniano, cioè di un insieme inconsistente e illimitato, l’universalità del cristianesimo che poggia sull’abolizione di qualunque differenza forma un  insieme chiuso e limitato che implica necessariamente l’esclusione del diverso - dell’ebreo per esempio condotta fino allo sterminio.
 Esiste per Milner un vecchio sogno  perverso dell’umanità parlante, rappresentato oggi per esempio dalla setta dei Realiani, che è quello di riuscire a «disgiungere la perpetuazione della specie umana dal contatto sessuale, affrancarla dal vincolo dell’Altro sesso per farne un puro passaggio dallo Stesso allo Stesso, togliere ogni senso alla possibilità che il bambino possa nominare i suoi genitori, fare in modo che il padre non possa nominare fra le donne quella che porta il bambino che ha generato, che la madre non possa nominare fra gli uomini quello del quale ella è incinta, e che i nomi di padre e madre perdano ogni senso eccetto quello contrattuale, convenzionale». Un vecchio sogno che dura dall’abolizione della famiglia  consigliata da Platone perlomeno nell’educazione dei guardiani   e  dalla necessità di sottoporre le scelte sessuali a delle rigide leggi eugenetiche.
La critica della universalizzazione spiritualizzante in quanto prodotto del cattolicesimo e delle ideologie della democrazia moderna non ha in Milner tuttavia nulla a che vedere con lo schiacciamento della sfera del sessuale sul destino anatomico  che è invece la posizione su cui si attesta il rabbino capo per il quale se i teorici della ‘gender theory’  non definiscono gli individui in base al sesso, ma alla sessualità (omo, etero…) è perché «cancellano la dimensione biologica e anatomica che separa due sessi per non vedere che dei generi multipli, dettati dalla cultura e dalla storia». Per Milner non si tratta di identificare la differenza sessuale, la questione cioè dell’Altro sesso, con quella biologica, né di conseguenza di farsi paladino del matrimonio eterosessuale a scopi procreativi, ma di salvaguardare la differenza dell’Altro sesso da ogni riduzione al regno del Medesimo e dello Stesso. Lo dimostra una serie di colloqui  pubblicata di recente (Clartés de tout, de Lacan à Marx, d’Aristote à Mao, Paris 2011) in cui messo di fronte  dall’interlocutore alla differenza abissale che passa fra le tesi di Foucault sul fatto che «le nuove forme ufficializzate tra gay, davano forma, all’epoca, a dei nuovi tipi di legami, distinti da quelli  eterosessuali» e quel che accade oggi «in cui le unioni gay adottano le stesse forme  dei rapporti fra uomini e donne»  quali i «Pacs, le rivendicazioni dell’adozione dei bambini, il matrimonio sul modello eterosessuale», Milner, non solo si dichiara d’accordo, ma di più aggiunge che se l’intento di Foucault nella Storia della sessualità era stato quello di mostrare come nella  società moderna  la sessualità fosse usata a fini di veridificazione e di controllo,  il solo  optare a favore del termine gay contro quello di ‘omosessuale’  era un modo di mettere la sessualità fuori gioco, fare opera di critica della società moderna e costruire nuove forme di legame.
 Il punto cruciale è che mentre il referente di Milner è la psicoanalisi e  in particolare la posizione di Jacques Lacan per la quale ‘non c’è rapporto sessuale’, quello del rabbino capo è il testo biblico da cui si  estrae la tesi  del carattere relazionale dei sessi il cui significato  è  che ‘c’è il rapporto sessuale’. Quindi la cosa più interessante e per certi versi divertente del dibattito sui matrimoni gay è l’appello finale di Ernesto Galli della Loggia nel suo intervento contro i matrimoni gay affinché «personalità autorevoli (per esempio gli psicoanalisti) non abbiano paura di far sentire la loro opinione: anche quando questa non è conforme a quello che appare il mainstream delle idee dominanti».  Ma da dove viene questa   certezza  immarscescibile che gli psicoanalisti non  possano che esser d’accordo con Galli della Loggia e con il rabbino capo? Forse dalle origini ebraiche di Freud? L’aspetto appunto divertente della situazione è che uno psicoanalista ha risposto e nella persona di  Silvia Vegetti Finzi ha dato ragione a Galli della Loggia in nome di una pseudo ortodossia freudiana. Utilizzando come una clava il complesso edipico elaborato da Freud per render conto della necessità sociale che da una parte i soggetti pervengano all’assunzione della loro identità sessuale e dall’altra  alla scelta esogamica del partner, stante il fatto che la sessualità è nell’essere umano originariamente perverso-polimorfa, Vegetti Finzi trasforma una costruzione teorica e un supporto teraupetico in  una  prescrizione superegoica e colpevolizzante in cui la necessità - che diventa obbligo legale - che i genitori siano rigorosamente maschio e femmina è giustificata in nome dei diritti dell’infante: secondo Silvia Vegetti Finzi - che purtoppo non è sola nel campo della psicoanalisi  - il bambino per diventare un buon adulto ha bisogno di entrambe le figure, paterna e materna, distribuite sui due sessi biologici, pena disturbi irreversibili nella evoluzione psicologica.  La psicoanalista come se fosse un medico di base vuole eliminare il sintomo e non si rende conto che col sintomo fa fuori anche il paziente che a lei si era affidato per lenire il peso dell'esistere. Che ne è allora di tutti coloro che sono cresciuti orfani o che sono stati allevati solo dalla madre o solo dal padre, o da un patrigno o da una matrigna, o da nessuno, o ancora da zie, nonni e altre figure parentali ancora? Che ne è di tutti i senza famiglia? C’è per loro un limbo come per i morti prima del battesimo o addirittura prima della nascita di Cristo? O sono tutti condannatìi all’inferno della nevrosi o di quelle brutte cose come la pedofilia, la violenza, il sadismo e perché no l’omosessualità?  Chi non ha fatto l’Edipo è destinato alla perdizione?
Ovviamente no! E lo sapeva anche Freud che se aveva avuto la possibilità di isolare l’Edipo quale luogo di costituzione soggettiva, di normalizzazione-normazione della sessualità, era proprio perché non funzionava mai: se avesse funzionato alla perfezione nessun motivo per accorgersi della sua esistenza così come si accorgiamo di avere dei polmoni solo quando  incominciamo ad affannare. E nonostante questo, cosa mostra l’Edipo? Mostra che il sesso è una costruzione simbolica e non un dato anatomico-biologico. Il piccolo d’uomo non è come il cucciolo di cane: l’esser nato prematuro lo spoglia di ogni apparato istintuale  impedendo ad esempio che la brama sessuale emerga solo nei periodi di fecondità. Essa è invece continua e indipendente dallo sviluppo degli apparati riproduttivi: presente dall’inizio - sessualità infantile - non solo, ma priva oltretutto di un oggetto proprio, specifico perché dato in natura, la pulsione investe tutto allo stessa stregua, parti del corpo, proprio o altrui, corpi maschili e femminili secondo il dettato anatomico, e anche gli oggetti senza sesso  che  essa è in grado di  far diventare egualmente erogeni. Nella misura in cui tale sessualità perversa-polimorfa mette in pericolo la tenuta della civiltà, che per parte sua poggia sulla rinuncia al soddisfacimento pulsionale, la funzione dell’Edipo consiste nel fondare l’identità sessuale e la conseguente scelta del partner non più sul sesso biologico - cosa oramai impossibile - bensì sulla presenza-assenza di un termine dalla natura più simbolica che empirico-reale che Freud individua nel Fallo. Si dimentica che la risoluzione dell’Edipo è dovuta in entrambi i sessi alla castrazione, cioè alla perdita - del tutto  simbolica - del simbolo appunto che rappresenta la potenza della vita:  la castrazione da questo di vista è una mortificazione. Nessuno  è il fallo, tutti ne hanno un fac-simile, un sembiante,  poco servibile. Senza dire poi che il fallo in questione, il fallo cui si deve rinunciare insieme al suo corredo di soddisfacimento, è il fallo materno, ossia un oggetto inevitabilmente immaginario e non reale.
Insomma già in Freud che aveva individuato fra le fasi della sessualità umana quella fallica, distinguendola accuratamente da quella genitale, la ripartizione sessuale era ottenuta attraverso la presenza-assenza di un significante, il fallo, che non aveva più nessun rapporto con la differenza sessuale anatomica. Se fra le prestazioni dell’Edipo c’era in qualche modo anche quella di tentare di far coincidere per quanto possibile l’identità sessuale simbolica col sesso anatomico per assicurare la riproduzione della specie, ciò si è rivelato col tempo del tutto irrilevante. Una cosa invece è certa: in psicoanalisi i sessi restano due, in psicoanalisi non può avere corso la teoria culturalista dei generi sessuali. Essendo il modo primordiale di operare del simbolo quello di dividere per due, in base all’alternativa secca presenza-assenza, + -, una grandezza continua come il sesso, i sessi non possono che essere due. Ciò non esclude effetti rilevanti e divertenti: nell’Ètourdit, Lacan risolve la questione dei sessi in modo definitivo: «diciamo eterosessuale per definizione  ciò che ama le donne, qualunque sia il sesso proprio», ossia è eterosessuale chiunque ami le donne e quindi anche le omosessuali femminili, ossia  le lesbiche. Reciprocamente si dirà omosessuale chiunque ami gli uomini e quindi anche le donne eterosessuali.  Quindi le omosessuali donne sono eterosessuali e le donne eterosessuali sono omosessuali.  Omosessuali allora sono sia gli uomini che le donne, gli uomini omosessuali e le donne eterosessuali,  e sempre sia gli uomini che le donne sono anche eterosessuali,  gli uomini eterosessuali e le donne omosessuali. Sfido chiunque, anche gli psicoanalisti, a continuare a usare le categorie sessuali in modo tradizionale e a pretendere di trarne prescrizioni morali  o criteri normativi di qualunque tipo.
Dal punto di vista psicoanalitico non è importante la distinzione fra eterosessualità  e omosessualità letta in riferimento alla differenza biologica dei sessi, è  decisivo il fatto che ciascun sesso, quale che sia, si confronti con l’Altro sesso, cioè col sesso che incarna l’alterità radicale, quella alterità che in nessun caso può essere rimessa sotto il dominio dello Stesso. Ciascun sesso, messo a confronto con l’Altro sesso, con l’Éteros, è posto di fronte alla mancanza, all’impossibilità del rapporto. Che si dia un’accoppiata  fra uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna, ciò che conta è che non c’è rapporto sessuale appunto perchè l’Altro sarà  sempre incommensurabile con l’uno. Che cos’è l’Altro? L’Altro è ciò che non è uno, e che anche  se fosse molti non potrebbe mai essere contato per uno. L’Altro è ciò che, non essendo uno, non può nemmeno mai essere il tutto, l’uno-tutto o il tutt’uno. Mi rendo conto che in questo modo ci si addentra nei meandri dell’ontologia, ma credere che la psicoanalisi sia una branca della psicologia significa tradirla. Per Lacan il sesso che non è uno, che non si conta mai per uno, che di conseguenza non è un tutto, è quello che si dice donna. Allora l’Altro sesso con cui ogni sesso, uomo e/o donna, omosessuale e/o eterosessuale che sia, si confronta, scoprendo che non c’è rapporto, è quello femminile. È a partire dalla mancanza del rapporto sessuale, del rapporto con l’Altro sesso, con l’Éteros, che la psicoanalisi ripensa l’intera questione dei legami interumani.
Per chiudere, l’unica cosa che da un punto di vista psicoanalitico si può dire sulla questione dei matrimoni gay è che la loro richiesta potrebbe apparire come una domanda di normalizzazione, di schiacciamento del rapporto fra due uomini (?)  sullo schema più bieco dell’eterosessualità, abbandonando la possibilità di pensare nuovi tipi di legame. Più che l’azzeramento della sessualità come paventa il rabbino capo,  si starebbe di fronte ad un trionfo postumo della eterosessualità che veramente diventerebbe l’unico modo di rapporto fra i sessi. Non diversa era la precoccupazione di Pasolini quando prendeva posizione, con scandalo di tutti i progressisti, nei confronti dell’aborto: temeva infatti che la procreazione facile e senza prezzi simbolici da pagare preludesse ad una pratica consumistica del sesso  a tutto vantaggio del primato borghese e conformista dell’eterosessualità.


domenica 7 aprile 2013

Papato e sovranità

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1) La rinuncia di Benedetto XVI e la conseguente presenza simultanea di due papi, uno cosiddetto ‘emerito’ e l’altro effettivamente in ‘carica’, offre lo spunto per alcune considerazioni sullo statuto della sovranità moderna. La cui provenienza è, come sulla scorta di Carl Schmitt sosteneva Walter Benjamin nell’Origine del dramma barocco tedesco, controriformistica, ossia cattolica. Questa teoria ‘estremistica’ della sovranità che potrebbe tranquillamente coincidere con il modello hobbesiano per la centralità che essa accorda al supremo potere esecutivo e al suo carattere coattivo, si oppone alle teorie razionalistiche della sovranità che fondano l’esercizio del potere sulla razionalità della norma e sulla forza di legge ratificata dal diritto. La teoria controriformista della sovranità lega invece quest’ultima  allo stato d’eccezione, esattamente ad un evento la cui realtà non è mai deducibile delle norme vigenti. Da qui la definizione schmittiana che Benjamin fa sua secondo la quale  «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione»  ed è investito del potere  supremo di abolirlo, di mettervi la parola fine ripristinando l’ordine che la situazione eccezionale ha infranto, instaurando una dittatura, come scrive Benjamin, «la cui utopia sarà sempre quella di porre, al posto dell’instabile divenire storico, la ferrea costituzione delle leggi di natura».
Inutile dire che lo stato d’eccezione contro cui ogni volta si erge la sovranità non è altro che lo stato di peccato in cui l’umanità storica si trova da quando  ha deciso di voltare le spalle al suo creatore. In ultima istanza la sovranità moderna lotta contro il peccato per ripristinare l’innocenza. Il lemma teologia-politica non indica pertanto solo il carattere catecontico della sovranità politica, il suo compito esclusivamente negativo di fungere da freno nei confronti del male che avanza, ma accenna anche e forse soprattutto ad un suo aspetto positivo, alla sua capacità cioè di estirpare il male una volta per sempre. È a questo punto che il discorso di Benjamin si separa da quello schmittiano: ciò che il dramma barocco mette in scena è proprio l’impossibilità di decidere che affligge il tiranno barocco, il suo doversi riconoscere, non appena tenti di esercitare il potere sovrano, nulla di più di una misera creatura. Per quanto «alto troneggi sopra i sudditi e lo stato, scrive infatti Benjamin, il suo rango rientra nel mondo della creazione: egli è il signore delle creature ma rimane creatura».
La questione cruciale del cattolicesimo - non del cristianesimo che nella sua declinazione protestante e poi settaria convive felicemente, come si sa da Weber in poi, con il mondo moderno - non  è quella di come faccia a sopravvivere all’avvento del moderno  sotto i colpi del quale avrebbe dovuto da tempo soccombere fino a scomparire, ma quella  per la quale è proprio la natura del moderno a richiederne  il primato. Se come ha dimostrato Lacan il moderno è caratterizzato dal fatto di aver condotto allo zenit l’oggetto a, l’oggetto-causa del desiderio, l’istanza del più-di-godimento, nell’aver in altri termini fatto diventare solo imperativo etico  il comando Godi!, solo la chiesa cattolica romana è l’istituzione in grado di reggere l’onda d’urto rappresentata dall’avvento senza veli del reale per essere l’unica che con assoluto sprezzo del ridicolo mantiene in vita il discorso oblativo dell’amore contro le derive utilitaristiche della modernità. Ed essendo tanto più credibile quanto più questa opposizione fra l’amore e il potere attraversa lo stesso corpo della chiesa, chiamandola continuamente alla rigenerazione.
È sintomatico allora che da quando il moderno si è installato nella storia umana la chiesa cattolica romana sia periodicamente attraversata da ondate riformistiche - la stessa controriforma cos’altro era se non un movimento di riforma e  rigenarazione della chiesa? Costantemente la chiesa tenterà la restaurazione, il ripristino della sua vocazione originaria, il ritorno alla povertà cristiana, allo stare nel mondo senza appartenervi, contro appunto  le tentazioni del mondo e del potere temporale, contro il lusso e la decadenza dei costumi, contro gli intrighi della curia che paradossalmente è l’ambiente in cui viene elaborata la dottrina estremistica della sovranità di cui stiamo parlando. L’attacco alla curia e dunque alla sua stessa esistenza è parte integrante del dispositivo salvifico della chiesa cattolica romama.
Se tuttavia Benjamin ha ragione, questi tentativi sono destinati allo scacco: allora però ci si dovrebbe chiedere perché essi continuino ad essere seguiti anche in quelle parti del mondo del tutto secolarizzate e in cui la  dottrina della fede sostenuta dalla chiesa cattolica è, se non esplicitamente irrisa e disattesa, perlomeno ignorata. La risposta spetta ancora a Benjamin: che cosa continua ad affascinare, si chiede, nella figura del sovrano barocco e proprio nel momento in cui rovina? È «il conflitto tra l’impotenza e l’abiezione della sua persona e la certezza del potere sacrosanto del suo ruolo», è la divaricazione, si potrebbe dire, fra il corpo politico della sovranità, impassibile ed eterno, e il suo corpo naturale,  esposto alla sofferenza  ed alla morte. Non serve a niente ricordare che questa è esattamente la doppia natura del Cristo: la sovranità moderna regna a partire dalla   fine di ogni ordine provvidenziale, di ogni piano soprannaturale di salvezza. Alla fine il corpo di Cristo risorge dalla croce e diviene un corpo glorioso. Quello del suo vicario, anche quando se ne tenti la santificazione, resta un corpo patiens. Lo si era visto chiaramente con Giovanni Paolo II che, in assenza della fede nella resurrezione, aveva scelto di far sopravvivere ad oltranza il suo corpo malato e in via di disfacimento irridendo demonicamente le leggi generali della vita.
Benedetto XVI più  in stile con la sua natura di studioso ha preferito abdicare quando si è reso conto che il suo corpo non lo  reggeva più e che il compito di riformatore della chiesa era divenuto superiore alle sue forze.  Anche lui quando si è trattato di decidere ha scoperto di essere impotente.

2) Vedere i due papi, fianco a fianco, vestiti tutti e due di bianco, come fossero l’uno la replica dell’altro e quasi nell’impossibilità di decidere chi sia quello  in carne ossa e chi quello in immagine, produce un  effetto di vertigine.
Tutti a chiedersi: come potranno coabitare? Il papa in carica andrà a consultare l’altro? E se Benedetto XVI si ritrovasse in disaccordo con le decisioni del suo successore, sarebbe autorizzato a smentirne pubblicamente il dicastero? Per il momento i due papi se ne stanno entrambi in Vaticano, uno apparentemente nascosto, l’altro affacendato nei suoi compiti istituzionali. Il fatto è che il concetto di sovranità di cui la figura del papa è, come si è visto, una delle principali incarnazioni, ha fra i suoi attributi essenziali quelli dell’unità e dell’indivisibilità. Fra i paradossi della teoria moderna della sovranità popolare c’è appunto quello per cui,  pur restando  una e indivisibile, senza contare che fino ad una certa data era considerata   anche ‘assoluta’, non soltanto la si sottopone al primato della legge ma  la si divide anche in  base al principio costituzionale. La sovranità   è una, ma divisa in tre poteri, così  come Dio è un’unica sostanza in tre persone. Come è noto il perfetto bilanciamento dei poteri   che dovrebbe essere l’effetto della loro divisione  si trova perennemente  squilibrato, periodicamente uno dei poteri tenta di subordinare gli altri due proprio in nome o di una maggiore rappresentatività della sovranità o del fatto che essa è appunto una e indivisibile. In quest’ultimo caso si invoca la democrazia diretta, ossia l’abolizione della divisione dei poteri: la teoria  hobbesiana e controriformista della sovranità a favore di quello esecutivo,  quella rousseiana-giacobina del legislativo e  i piccoli-borghesi innamorati della norma astratta del potere giudiziario.
In parte la teoria della divisione dei poteri potrebbe trovare una sua giustificazione nella figura tripartita della sovranità nelle culture indoeuropee oggetto della ricerca di Gorges Dumezil.  E d’altro canto la compresenza di due papi potrebbe assomigliare ai periodi di turbolenza rivoluzionaria in cui esercitano un potere legittimo due governi allo stesso tempo, quello del vecchio regime  che resiste caparbiamente all’attacco dei ribelli  e quello del nuovo  che attende ansiosamente il riconoscimento. Ma non sembra questa la situazione in cui si è venuta a trovare la chiesa con la presenza contemporanea di papa Benedetto XVI e papa Francesco. Perché in questo caso  quel che  sembra spezzarsi è la continuità del corpo sovrano, quella per cui  morto un re se ne fa un altro e morto un papa accade altrettanto o come si dice ‘Il re è morto, viva il Re’. Nella serie  potenzialmente illimitata dei corpi mortali l’assenza di discontinuità fra un corpo e l’altro è la conferma del carattere uno e indivisibile della sovranità, della sua  appartenenza alla dimensione dell’eternità.
Né la chiesa si è costituzionalizzata o la sovranità è passata al popolo di dio o all’assemblea dei vescovi come nella democrazie liberali. La sovranità non si è banalmemte pluralizzata o relativizzata. La sovranità si è semplicemente ma in modo inaudito e inimmaginabile contraddetta. Quando l’uno diventa due non significa che è diventato molti, significa che è entrato in contradizione con se stesso, la divisione non è quella elaborata da Montesquieu, è il principio della diaresi platonica, è la vittoria di una dialettica  asintetica. I due  si spaccheranno a loro volta generando i quattro e i quattro gli otto e si andrà avanti così all’infinito.
L’unico modo per dissolvere la sovranità e la teologia politica non è provarsi a limitarla o a pluralizzarla, è disseminarla attraverso la diaresi. Farla diventare innumerabile, frantumarla in una miriade di cose singolari. Provate a immaginare: ognuno dei due papi si divide a sua volta, e poi ancora fino a che  come delle donne di don Giovanni si perderà il conto. A quel punto non ci sarà più sovranità.