1) Sull’università.
Non sono sicuro
di essere del tutto d’accordo con la tua definizione iniziale sul ruolo delle
Università, di essere cioè «il luogo istituzionale in cui per vari secoli le
società hanno formato le proprie classi dirigenti affidando ad alcune
specifiche discipline - definite umanistiche a partire da quelle classiche come
l’etica - il compito di elaborare le forme di pensiero necessarie a governare i
mutamenti e i conflitti del proprio tempo presente e di quello avvenire». Se
ciò è mai accaduto, soprattutto nella modernità, è stato in sovrappiù rispetto
al compito specifico sia della scuola che dell’università che mi sembra principalmente quello di assicurare la trasmissione il
più possibile priva di errore del sapere accumulato, questo sì ritenuto
necessario per la riproduzione sociale. Se una funzione è stata attribuita ai cosiddetti saperi
umanistici a partire dalla creazione stessa dell’istituzione universitaria,
cioè nel medio evo, ma soprattuto a partire dalla stagione dell’umanismo, è
stata quella di elaborare la cornice, il frame, all’interno della quale il sapere che si voleva trasmettere doveva essere
incastonato per evitare dispersione, fraintendimento, equivocità, rumore e
quindi perdita. Così facendo però
si impediva anche la possibilità dell’innovazione che si ottiene solo con la degenerazione del sapere dato, con la sua contaminazione con
altri saperi non ancora legittimati, con
forme di vita alternative a quelle
valorizzate dal conformismo sociale. È quello che ci ha insegnato
Derrida proprio rispetto all’università: dal momento che ogni trasmissione,
affidandosi alla scrittura, alla lettera - da cui le humanae litterae, la cultura e l’umanesimo - rischia in linea di
diritto di essere
stravolta dal ricevente e dal momento che il mittente è per
definizione postumo e non può
difendere come un buon padre lo scritto dalla misinterpretazione, la
trasmissione del sapere e con essa il mantenimento dell’ordine sociale dato è
sempre in stato di pericolo. La
cultura umanistica fondata sul primato della voce si è presentata allora secondo Derrida come lo strumento che
doveva assicurare, costruendo il consenso sociale, la conservazione dell’ordine
dato.
L’università è un’istituzione
fondamentalmente conservatrice; e questa caratteristica non è stata modificata
dal discorso moderno sull’università, quello humboldtiano per intenderci, che
ha cercato di reintrodurre nell’università il momento innovativo costruendo il
binomio ricerca-insegnamento: la verità
è che sotto il nobile nome di
‘ricerca’ è stato semplicemente riconosciuto alla borghesia che si impadroniva
dello stato il diritto di modellare le società a propria immagine e
somiglianza, sia sviluppando le nuove scienze sia modificando i frame della
trasmissione che dovevano diventare più flessibili per stare al passo con le innovazioni delle
scienze dure: null’altro significa il primato attribuito da molti discorsi
moderni sull’università alla filosofia identificata prima con il movimento
dialettico di Hegel, poi con la
filosofia della vita e l’ermeneutica e oggi che c’è bisogno di pulizia con la filosofia analitica. La
giustificazione ideologica di tale funzione della università borghese è stata
la parola d’ordine della ‘autonomia’. Come sempre i movimenti storici sono
doppi, aporetici: se con l’affermazione dell’autonomia si voleva liberare
l’università dal controllo dello
stato che non doveva più decidere direttamente che cosa insegnare e
come, allo stesso tempo l’autonomia si
trasformava in ‘corporativismo’, autoreferenzialità del ceto
universitario - docenti e studenti -, chiusura verso il fuori dell’università
in modo che l’unica innovazione accettata fosse quella posta sotto il controllo
del corpo universitario. L’incondizionatezza che si voleva regalare all’università si è tramutata in
insindacabilità del tipo dei
saperi trasmessi e delle modalità
delle trasmissione. Ancora Derrida ci ha fatto capire che l’unica
incondizionatezza che farebbe bene all’università sarebbe la resa
incondizionata dell’università al fuori, all’altro. E i rari momenti di
trasformazione effettiva dell’università sono quelli in cui essa si è arresa
incondizionatamente al fuori - per esempio nel sessantotto in cui l’università
è stata presa d’assalto - ed è capitolata anche se per poco - prima di tutto da
nuove forme di vita, quelle aurorali del consumo e dei media elettrici che
dissolvevano autoritarismi familiari, sessuali e sociali, poi da pratiche
estetiche e filosofiche prodotte fuori dell’università (è l’epoca di Derrida
stesso, di Foucault, di Lacan, delle pratiche poetiche e letterarie
d’avanguardia), e infine dall’altro per eccellenza, dalla classe operaia.
Se questo quadro è corrispondente
al vero, se i momenti di autentica trasformazione dell’università sono quelli
in cui essa non è più riuscita a
difendersi da tutto quello che accadeva fuori dei suoi confini, ma allo stesso
tempo sui suoi bordi, allora il compito di colui che opera dentro l’università,
soprattutto se come esponente dei
saperi umanistici, è quello, un po’ da saltimbanco e un po’ da equilibrista, di
stare con un piede dentro e con un
altro fuori. E ciò in due sensi: il primo è quello di tentare di introdurre
dentro i confini dell’università i saperi, le pratiche, le forme di vita, che
si sono sviluppati fuori. È una tipo di azione che dipende dal potere di cui
dispone, dalla posizione che occupa nella gerarchia universitaria, dai maestri
che sceglie e dalle alleanze che è
in grado di stringere; è il
prodotto cioè di una negoziazione continua. Il secondo è di agire al di fuori dell’università
tentando l’invenzione di
nuovi saperi, sperimentando nuove forme della trasmissione, aprendosi a nuove
pratiche, con la consapevolezza però che non tutto quello che si agita fuori
dell’università solo per questo è innovativo e soprattutto non è abitato a sua
volta dal fantasma universitario:
voglio dire che c’è un accademismo fuori dell’accademia, che il discorso
universitario (nell’accezione di Lacan) prolifica anche al di fuori della aule
universitarie. Quindi occhi aperti! Ma anche: dimentichiamoci dell’università,
non facciamoci illusioni!
D’altronde l’unico significato
politico, diciamo così di ‘sinistra’, che ci si può aspettare dall’università e
dalla scuola in generale, è di favorire la mobilità sociale, di permettere in
altre parole ai subalterni di scalare
di classe e di
appropriarsi dei saperi necessari
all’assunzione del governo della società. Quando l’università non realizza
questo compito o per arretratezza dei saperi che trasmette o per declino della
società che sta fuori dell’università, allora l’università è del tutto inutile
- è l’attuale situazione italiana che spiega anche la caduta della reputazione
di cui parli. Se non assicuriamo la scalata sociale e non facciamo neppure
parte dell’intellettualità diffusa nei media che produce consenso sociale
(Saviano ad esempio), siamo inutili.
2) Sulla fine dell’individuo
borghese.
Tra gli effetti della globalizzazione intesa come la «polverizzazione
finanziaria» sia della proprietà in senso originario sia della nazione in senso storico e sociale, tu annoveri
anche la scomparsa del «sentimento dell’obbligo individuale del proprietario di
beni materiali e immateriali nei confronti della sua comunità di
appartenenza e con essa delle
altre esistenze umane e infine del mondo intero». Nei termini di Roberto
Esposito ciò vorrebbe dire che viene meno la comunità e il sentimento di
appartenenza ad essa perché in realtà la globalizzazione in quanto abolizione
del vincolo comunitario
rappresentato nel nostro mondo moderno dalla forma dello stato-nazione
avrebbe liberato i soggetti dall’obbligo, appunto dal munus, di occuparsi degli
altri e dell’intero pianeta. Mi
chiedo se questo schema non contrasti con
ciò che molti di noi, formatisi alla vecchia scuola del marxismo, abbiamo
sempre pensato e cioè che i regimi di proprietà di beni materiali e
immateriali, quindi anche della cultura in generale, indipendentemente dalle
forme giuridiche - privatistica o
pubblica - che potevano assumere -
la proprietà è sempre privata nel senso che privatizza l’uso e la fruizione del
valore di scambio prodotto - erano comunque il prodotto della estrazione di
plus-valore attraverso il comando sulla forza-lavoro o, in altri termini,
nicciani e benjaminiani, che la
cultura come la ricchezza materiale fossero sempre il risultato di un gesto
criminale, forse necessario, ma del quale ogni comunità deve, pena la sua
dissoluzione, pagare il prezzo. Sul problema della cultura la mia posizione è
quella di Nietzsche quando, scrivendo a Carl von Gersdoff il 21 giugno del 1871
dopo gli ultimi avvenimenti della Comune di Parigi, soprattutto l’incendio delle
Tuileries da parte dei Comunardi sconfitti, dichiara di non sentirsela di
accusare di crimine contro la cultura i responsabili delle distruzioni ma anzi
di comprenderli dal momento che di
quegli orrori che ora vengono perpetrati siamo colpevoli noi stessi, il nostro mondo e il nostro
passato. I crimini contro la cultura - oggi la lagna contro la televisione
commerciale etc. - sono dovuti ai crimini della cultura.
Forse la tua tesi funziona per i
paesi di matrice protestante e riformata in cui c’è sempre stata una forma di
mecenatismo nei confronti delle istituzioni culturali da parte dei grandi
capitani d’industria i quali convinti che la ricchezza da loro accumulata fosse
una grazia di Dio hanno ritenuto doveroso
restituirla almeno in
parte, facendovi partecipare, in modo indiretto d’altronde, anche i meno
fortunati, - posizione che però sembra convivere tranquillamente
con quella opposta anche se proveniente dalla stessa fonte religiosa per la
quale la povertà è un segno della colpa e quindi non va né aiutata né attutita.
Ma nell’Europa cattolica, anche se con qualche enclave luterana, in cui la
salvezza si raggiunge soprattutto con le opere e raramente con la grazia -
allora si è dei santi, ma la cosa non è da tutti - la sostanza accumulata è
roba mia, me la sono conquistata col sudore della fronte - un sudore alle volte di provenienza
criminale - e guai a chi me la tocca: in questo caso mi sembra difficile che ci
si senta responsabili per gli altri.
Comunque è certo che la
globalizzazione spinge più che a far comune, come crede Toni Negri,
all’individualizzazione. Ma direi di più: produce la polverizzazione
dell’individualità. Il processo cui
fai cenno mi sembra al limite un effetto di quello molto più generale
della scomparsa della funzione dell’individualità così come si era affermata nella modernità
borghese. Credo anzi che il concetto dell’individualità sia l’invenzione
specifica della cultura della borghesia e che non esista l’individuo al di
fuori dell’universo costruito dalla borghesia. Cos’è un individuo? È
l’incarnazione specifica, unica e irripetibile, dell’essenza universale ‘uomo’.
La sua necessaria pluralizzazione. L’individuo - vale a dire gli individui
sempre plurali - non è semplicemente una caduta, inevitabile forse, ma pur
sempre una caduta empirica dell’essenza universale, è la sua realizzazione, il
principio logico-ontologico che la fonda. Se per la borghesia e la modernità l’essenza
dell’uomo è da porre più nella libertà che nell’eguaglianza, allora
l’individualità come pluralizzazione e differenziazione dell’essenza è
assolutamente necessaria. O l’essenza come libertà è liberamente rifratta in
una pluralizzazione di punti di vista o non è libertà.
Sul piano della cultura ciò si
traduce nella tesi che tanto più
si realizzerà l’individuo quanto più esso sarà in grado di assimilare,
immagazzinare, e ritrasmettere in modo originale, cioè libero, il sapere accumulato.
L’appropriazione della cultura è consustanziale alla formazione della
individualità e si capisce allora
la connessione fra questo portato della cultura borghese e la
trasformazione moderna, da Humboldt in poi, dell’Università. Basta leggere il
Fichte della missione del dotto per accorgersi di quale sia il ruolo
affidato dalla modernità borghese all’educazione: dal momento che vi è una
pluralità di individui e
quindi una differenziazione necessaria nel grado di acculturazione di
ciascuno di essi, si pone la necessità di avere un ceto di educatori, i dotti, che
educhi al sapere e al suo uso libero quelli non ancora educati; essi cioè
devono essere capaci - e in tal senso vanno formati a propria volta - di
trasmettere il sapere nel senso di fare in modo che ciascuno possa
appropriarsene in modo libero e originale: tanti discorsi sui compiti della
scuola e degli insegnanti sono stanche ripetizioni delle tesi elaborate negli
anni d’oro del pensiero borghese.
La scomparsa dell’individualità nel
senso su accennato dipende da una serie di fattori tutti inerenti a quella
stessa modernità che l’aveva prodotta o aveva reso necessario la sua
concettualizzazione: mi riferisco
al fatto che le forme dello scambio generalizzato generano prima le
folle e poi le masse, le masse denaturate e civilizzate di cui parla Benjamin
nel saggio su Baudelaire, il cui avvento sulla scena della storia spinge, quando non è la causa, alle
rivoluzioni mediatiche di fine ottocento e soprattutto primo novecento. I nuovi
media, la riproducibilità tecnica delle immagini e dei suoni, la trasmissione
just in time dell’informazione, il giornalismo e la letteratura di massa,
conducono l’individualità prima al collasso e poi alla scomparsa. La
televisione e la rete fanno il resto. È d’altronde il processo che tu hai ricostruito nel corso del tuo
lavoro e che hai tentato inutilmente di far capire ai gruppi dirigenti della
sinistra che già avevano avuto mille difficoltà nel digerire la rivoluzione
mediatica della penna biro. La novità della tarda modernità è che il sapere
circola e corre nella rete, che non è più necessario introiettarlo dal momento
che i media abilitati a conservarlo e a trasmetterlo sono sempre più
indipendenti dalle prestazioni
umane e producono contaminazioni e commistioni dei generi superiori a quelle
che l’intelligenza singola coltivata da anni di studio e di accumulazione era
in grado di attivare. Anche i supporti sono più stabili e duraturi e
soprattutto il software anche se si dovesse perdere è facilmente rimpiazzabile.
Il sapere e i suoi frame sono completamente estroflessi e hanno ragione quei
teorici marxisti che vedono nella diffusione della rete
la realizzazione alla massima potenza dell’intelletto generale di cui
parlava Marx; anche se l’euforia con cui la celebrano come l’attualità stessa
del comunismo è del tutto fuori posto
dal momento che una sostanza senza soggetto, con buona pace di
Althusser, fosse anche il soggetto nulla più di un soggetto supposto sapere
alla Lacan, è semplicemente paranoica. Vero è invece che l’estroflessione del
sapere accompagnata dalla sua disponibilità integrale rende obsoleta
un’individualità tutta costruita sull’accumulazione e l’introiezione del
sapere. Da qui la crisi dell’università e della scuola in generale ancora
legati al vecchio modello del sapere individuale.
Condivido allora la tesi che tu
avanzi sulla inutilità di proseguire la battaglia politico-culturale che ti ha
visto in questi anni in prima linea volta ad opporre «alle filosofie e
estetiche delle istituzioni» quelle del consumo, ad approfondire la
divaricazione fra cultura alta e cultura bassa tentando di convincere i ceti
dirigenti politici, culturali e dell’impresa sulla bontà di un’apertura non
subalterna o addirittura ostile alla sfere del consumo e del godimento.
Piuttosto che continuare a opporre consumo e istituzioni, desiderio e sapere,
godimento e sublimazione, bisognerebbe tentare di lavorare nella direzione di
un loro nuovo intreccio che parta però dalle condizioni irreversibili della
tarda modernità, vale a dire dalla estroflessione dei saperi, dalla ricchezza
dei consumi e dalla fine dell’individualità.
3) Che fare?
a) Il soggetto. In primo luogo io
penso che bisognerebbe impegnarsi in un’azione diffusa, radicale e anche
violenta per imporre una nozione di soggettività alternativa a quella che,
volente o nolente, ricorrendo malamente anche ad autori e testi
della filosofia contemporanea, resta in realtà quella del soggetto moderno,
cartesiano, un soggetto pieno e cosciente, parente stretto di quella
individualità ormai scomparsa. Una soggettività asorrosiana - quale guasto ha prodotto la teoria
dei nuovi soggetti! - che si ritrova oggi nelle tesi di Toni Negri sulla
moltitudine, in quelle del lavoro come bene comune delle sinistre antagoniste -
detto en passant, ma non sarebbe tempo
che la sinistra decidesse di essere agonista, anzi protagonista, e non
antagonista - nel pensiero (sic) di certo femminismo per il quale non è il
desiderio a richiedere un soggetto che lo regga, ma è la costituzione di un
soggetto a legittimare il desiderio per cui una escort non desidera o il suo
desiderio è falso e indotto dal momento che non è un soggetto visto che vende
il proprio corpo. In primo luogo il desiderio è sempre il desiderio dell’altro,
desidero ciò che l’altro desidera e lo desidero come lo desidera l’altro. Non
esiste un mio desiderio prima del desiderio dell’altro, cioè non sono un soggetto se non in quanto sono assoggettato
al desiderio dell’altro. In secondo luogo il desiderio è desiderio di essere
ciò che manca all’altro che è la ragione per cui desidera. Essere un soggetto
significa istituirsi come il fondamento di questa mancanza, essere ciò
attraverso cui questa mancanza ad essere dell’altro, divenendo la mia mancanza
ad essere, può significarsi. Perché questa nozione della soggettività è
necessaria per rispondere alla crisi attuale? Perché se oggi l’Altro - l’altro
lacaniano scritto con la A maiuscola che è il tesoro dei significanti o la sfera
della cultura in generale - è la rete, esso tende a presentarsi senza vuoti,
senza mancanze e senza buchi. A ogni domanda corrisponde una risposta, ad ogni
desiderio un discorso pronto a legittimarlo, ad ogni variazione del godimento
un gadget atto a soddisfarlo. La stessa cultura del consumo rischia di vedersi
tradita: se infatti consumare vuol dire dilapidare, perdere, sprecare,
l’attuale configurazione del capitalismo tende a fare del consumo un atto
produttivo, un investimento valorizzante, ad attribuirgli una funzione
normalizzante e armonizzante nel
rapporto fra il soggetto e il mondo. La prima operazione da fare è fare vuoto,
distruggere la radice dell’albero di Avatar, bisogna produrre un ground zero: se la regola aurea della
rete è lo star connessi, bisogna disconnettersi, mettere delle pause,
introdurre discontinuità, fare dei salti. Se già oggi il soggetto è una
postazione della e nella rete, se il sapere gli è del tutto esterno, l’unica
chance è di piegarsi, vale a dire stare nella rete ma nella posizione
dell’estimità, ossia dell’esclusione interna. Ciò comporta inevitabilmente
l’accesso, che coincide con la soggettivazione, all’Altro come mancante o come
scrive Lacan barrato. Fermo restando il passaggio alla ricchezza simbolica
della produzione e del consumo
(nessuno spazio alle teorie della decrescita, ai nuovi pauperismi), bisogna
ripristinare il disagio della civiltà: la vita in comune implica la rinuncia al
godimento completo ed esaustivo
nello stesso tempo in cui ne permette però realizzazioni parziali e
perverse. Il godimento possibile si conquista inventandosi degli handicap,
accettando la condizione disagevole dell’essere desiderante che è tale perché
manca e perché anche l’Altro manca.
b) L’etica. Ne parlo perché sei tu
a chiamarla in causa citandola -
unica - per nome fra tutti i saperi cosiddetti umanistici. Ora l’etica ha a che fare con la
triangolazione fra il desiderio, la legge e il godimento. Per l’etica classica
la legge coincideva con quella della polis: stando al suo interno e
rispettandola ciascuno lavorando su stesso poteva cambiando abitudini divenire
un maître di sé e degli altri.
Obiettivo del maître è
l’apatia e la meditazione, la contemplazione - scienza e vita beata - dell’immutabile e dell’eterno - stelle fisse e ordine
del mondo. Il godimento è la beatitudine e si oppone alle passioni che
smuovendo l’anima impediscono la quiete. Nel moderno cambia tutto: il mondo
esterno non è più stabile ed eterno e la città poggia non sulle leggi ma sul
contratto. Questa trasformazione libera il godimento in tutte le sue forme -
etica libertina - ma produce
contemporaneamente l’interiorizzazione della legge - etica kantiana. Fra
le due che poi si rivelano uguali s’interpone l’utilitarismo che promuove la
massimizzazione del bene sia come il più gran bene che come il bene di tutti o
perlomeno del più gran numero.
Perché come ha dimostrato Lacan l’etica libertina e quella di Kant vanno
insieme? Perché come era già evidente con San Paolo la legge non è più come
nell’epoca classica ciò che si oppone al godimento, ossia la legge del disagio
della civiltà, ma ciò che al contrario lo comanda. Godi!, è l’imperativo
categorico della modernità. Lo dimostrano proprio i libertini che non avendo
altro che la natura per legittimare i loro gusti sessuali strani e pericolosi
finiscono con Sade per desiderare, pur di liberarsi di questa costrizione a
desiderare e a godere, di
distruggerla. Quanto devono le guerre moderne che sono guerre di distruzione al
libertinismo sadiano? Hitler non ha qualche tratto del chimico Almansi che
progetta di far esplodere il Vesuvio? L’etica moderna testimonia di un’impasse,
l’impasse del desiderio: il desiderio implica la trasgressione della legge, ma
è la stessa legge a comandare il
desiderio. San Paolo lo risolveva con l’amore di Dio. Noi con che cosa possiamo tentare di
risolverlo? Non con la politica, perlomeno non nel suo senso moderno,
contrattualistico e convenzionale. Le leggi, frutto della volontà arbitraria del sovrano - anche quando
la sovranità è del popolo - non danno un fondamento al disagio della civiltà.
Sono quasi due secoli che la sinistra comunista, senza riuscirci, tenta di
pensare una politica diversa da quella
della modernità, ossia una politica che faccia a meno dei concetti di sovranità, contratto e norma .
La mia risposta all’impasse del
desiderio è la cultura, ma un concetto di cultura che coincide con l’etica e che soprattutto non ha nulla a che
vedere con quella cultura di cui si lamentano i tagli, quella cultura alta e
borghese che non solo va tagliata ma per le ragioni dette prima del tutto
abolita. Uso il termine cultura in
due sensi entrambi di ascendenza
hegeliana: il primo testuale è la cultura come se ne parla nella fenomenologia
dello spirito. Qui la cultura è il regno tutto moderno dell’estraneazione, il
mondo svuotato di ogni sostanzialità metafisica ad opera del linguaggio, il
mondo liquido e invertito di cui è testimonianza il Nipote di Rameau di Diderot, il regno dell’inversione in cui la
coscienza è ribaltata, messa a testa in giù - e tutto l’errore è stato quello
di volerla rimettere ad ogni costo a testa in su, quando invece andava fatta
sprofondare nell’inconscio sempre di più.
È la cultura libertina che non a caso sfocia nella moralità soggettiva,
ossia in Kant. Il secondo invece
rinvia a quello che Hegel chiama lo spirito prima oggettivo e poi assoluto,
ossia le sfere dell’etica, dell’arte, della religione e della filosofia. Di esse va conservato il carattere
oggettivo, transindividuale, la loro capacità cioè di superare l’impasse della
morale soggettiva. Va invece lasciato cadere il primato della coscienza e del
sapere introiettato, nuovamente soggettivizzato-individualizzato che Hegel tende ad attribuirvi. In altri termini
bisogna essere in grado di innestare le forme etiche ed estetiche direttamente nel
corpo vile della cultura come estraneazione, consumo di sé fino alla
liquefazione: è questo il modo per
coniugare oggi consumo e sapere,
godimento e sublimazione.
L’uso di quest’ultimo termine mi
rimanda nuovamente a Lacan e mi permette di legare etica e cultura. Il
seminario sull’etica della psicoanalisi individua la risoluzione del dilemma
etico non all’interno dell’etica stessa - non viviamo più né all’epoca di
Platone né a quella di Seneca - ma in forme oggettive, socialmente
riconosciute, che stanno al confine fra l’etica e l’estetica. Nel 1959-60 Lacan
ne indica due: la tragedia attica, soprattuto l’Antigone, e l’amor cortese
medievale. Ciò che caratterizza queste
produzioni culturali è che esse sono oggettive e pubbliche - la
tragedia attica è un compito della
politica e svolge una funzione politica e l’amor cortese è un’istituzione delle
corti d’Europa - e allo stesso tempo iscrivono il desiderio e le sue
vicissitudini in uno spazio al di fuori della rimozione che genera nevrosi.
Senza cercare di abbattere il disagio della civiltà che sarebbe distruttivo
della possibilità stessa di desiderare e di godere, esse permettono però
attraverso la sublimazione - nel senso di Freud: una soddisfazione del
desiderio ottenuta non passando per la rimozione o per la perversione e senza diventare psicotici, cioè
folli - sia di significare il desiderio sia di accedere al godimento. In
termini lacaniani, l’amor cortese soprattutto, istituendo la Dama come qualcosa
di inaccessibile, permetterebbe l’accettazione senza danni dell’impossibilità
del rapporto sessuale, ossia del fatto che il godimento maschile e quello femminile non sono uguali e soprattutto
non si compenetrano per nulla. La donna è a distanza e viene mantenuta a
distanza senza che l’uomo debba
ricorrere alle manovre ossessive e senza che le donne per difendersi debbano assumere le posture isteriche.
Sono possibili esperienze e
esperimenti analoghi nel nostro tempo? Una volta ricordato che la tragedia
attica per Lacan, esemplata sull’Antigone, è la messa in scena del desiderio,
come non dare tutta la sua
importanza al fatto che per
Nietzsche, ma anche per il giovane Lukacs e per Benjamin, la tragedia avrebbe
dovuto funzionare non come sopravvivenza museale di un passato glorioso e
tantomeno come divertimento nel mondo dei consumi - alti senza dubbio -, ma come
chiave per la soluzione delle difficoltà in cui si dibattevano la cultura e le forme di vita della modernità?
Forse il tentativo del ripristino
della tragedia, di cui la politica dei teatri stabili è stata l’ultima
propaggine, è fallito. Ma l’amor cortese? Permettimi per chiudere una fantasia
che poi non lo è tanto. Da tempo
penso - un po’ per celia ma anche
un po’ sul serio - che una trasmissione come Uomini e donne di Maria de Filippi
sia nel nostro tempo e con i mezzi poveri che sono a disposizione una versione
postmoderna, adatta al mondo dei consumi generalizzato, di ciò che in altri
tempi era stato l’amor cortese. Questa trasmissione tenta una
civilizzazione del rapporto
sessuale al livello dei consumi di
massa che una volta era operata dai romanzi rosa e dalle risposte alle lettere
delle lettrici sui rotocalchi femminili. La novità è che coinvolge in questa
civilizzazione anche i maschi sia come tronisti che come pretendenti. Intanto li costringe a parlare, a passare
attraverso il linguaggio, ad imparare a far la corte ad una donna mettendo a
freno il desiderio e evitando di saltarle addosso. In secondo luogo
li aiuta ad accettare l’incomprensibilità del femminile, il suo narcisismo e il suo carattere essenzialmente capriccioso oltre che la sua
abissale e insuperabile insoddisfazione. Infine educa uomini e donne al fatto
che non c’è rapporto sessuale ma solo dei sembianti che fanno da supplenza, il
primo dei quali è appunto l’amore.
Tutto questo Uomini e donne lo fa a
livelli elementari, ai livelli zero della comunicazione e dell’espressione. Si
può pensare un Uomini e donne in cui si riversi più sapere, più esperienza, più
forma, più elaborazione, in cui i pretendenti non solo si sottopongano alle
prove più crudeli, ma imparino anche a cantare l’amore per la loro dama
imponendosi degli handicap come la
rigida struttura del sonetto o della sestina, la rima alternata, l’uso di un pacchetto di termini da
adoperare in tutte le combinazioni possibili? Non sarebbe questo un caso di incontro fra consumo e sublimazione
al di fuori del vecchio contenzioso fra cultura alta e cultura bassa?
Lavoriamo con ‘lalingua’, scritto
così tutto d’un fiato: è una delle ultime trovate di Lacan. Significa che la
lingua che parliamo non è quella
saussuriana, la lingua come sistema formale, prontuario della significazione
staccato però dalle pulsioni e dai desideri. Lalingua è la lingua materna,
quella in cui significante e pulsione sono originariamente intrecciati, in cui
il suono significante, cioè articolato, è immediata espressione del desiderio
e/o del godimento. Ripartiamo da
qui.