lunedì 13 gennaio 2014

Colonna continua 11

1) In un precedente intervento su questo blog mi è capitato di scrivere che ciò che caratterizza il capitalismo è il fatto di mettere al lavoro il tempo, tutto il tempo, da ultimo anche l’ultimo tempo che si sottraeva al lavoro, ossia il tempo  impiegato in ciò che solo con un eufemismo o con un ironia che sconfina nella crudeltà  veniva definito ‘lavoro’ intellettuale. E di aver sostenuto che l’obiettivo di chi si professa comunista consiste nel liberare il tempo, tutto il tempo, dal lavoro. Ma che cosa vuol dire liberare il tempo dal lavoro? Se questa affermazione ha un senso, essa  deve significare la sottrazione del tempo a qualunque forma di durata. È del tutto inutile ad esempio  porsi l’obiettivo di liberare il tempo dallo scopo del capitalismo che consiste nell’accumulazione senza limiti, se poi lo si assoggetta ad un qualunque tipo di progetto fosse il più apparentemente nobile e disinteressato. Liberare il tempo deve voler dire non investire più sul tempo e non investire più il tempo in scopi e finalità che richiedano il rinvio del piacere presente  in vista di un vantaggio futuro qualunque esso sia.  Se si vuole  sfuggire all’imperativo economico bisogna smettere in primo luogo di risparmiare e di risparmiarsi, e la prima cosa su cui l’uono ha tentato di risparmiare  è stato il tempo, il primo granaio che ha costruito è stata la memoria,  la prima cosa che ha imparato è stato come fare a sopravvivere.  Tutto questo perché il tempo non è come vorrebbe chi  ha tutto l’interesse a mantenere in vita la divisione del lavoro e a distinguere dunque fra l’attività manuale e quella intellettuale, fra il lavoro asservito e il lavoro come realizzazione libera di sé, il lavoro  come l’essenza più propria dell’umanità,   ciò che dura e,  durando, sostiene il progetto e permette l’edificazione, ma la perdita incessante, l’usura senza limiti, la corrosione irremediabile. Se di una durata del tempo è possibile parlare, essa è solo la  durata della perdita.

2) Traggo l’espressione ‘durata della perdita’ impiegata per definire la natura del tempo da un bel libro di Ciro Papparo dedicato al pensiero di Georges Bataille e dal titolo, programmatico come pochi, Perdere tempo (Mimesis 2012).  Il lungo e non ancora terminato processo di messa al lavoro del tempo  da parte del capitalismo non  ha lasciato insensibile la riflessione filosofica: in concomitanza con la rivoluzione dei rapporti di produzione il pensiero più avvertito del novecento, da Bergson a Heidegger, da Benjamin fino appunto a Bataille, ha tratto la conclusione che il caro e vecchio essere della tradizione della metafisica occidentale, l’essere  identico ed eterno,   fosse  ormai divenuto tempo. ‘Essere e tempo’ significa in  realtà ‘Essere è tempo’, l’essere è evento, storia, destino. Invio e compito. Impossibile d’ora in poi separare l’essere dalle estasi temporali del passato, del presente e dell’avvenire: l’essere è estatico, gettato-proiettato fuori di sé. Detto ancora in altro modo: l’essere è ex-sistenza. È accaduto tuttavia che in questa presa in carico da parte del pensiero filosofico, che è sempre, anche quando non ci pensa esplicitamente, decostruttivo e critico, di un processo storico-mondiale quale la messa al lavoro del tempo,  si sia prodotto un rovesciamento e l’essere divenuto tempo  si sia rivelato non un serbatoio o un magazzino, non un ‘fondo’, bensì un colatoio. In un passo del Su Nietzsche. Il culmine e il possibile, col quale Papparo chiude la sua ricostruzione del pensiero di Bataille, il filosofo francese scrive: «Quando l’essere stesso è divenuto il tempo - tanto è roso all’interno - quando il moto del tempo ha fatto di esso, alla lunga, a forza di sofferenze e diserzione, questo colatoio dove scorre il tempo, l’essere si fa aperto all’immanenza, non differisce più dall’oggetto possibile». 

3) Divenuto tempo che cola, come sangue da una ferita aperta, l’essere  si sottrae definitivamente a qualunque gerarchia come quelle ad esempio fra  il permanente e il transuente, il necessario e il  contingente, l’ideale e l’empirico, l’autentico e il non autentico, l’importante e l’effimiro, sfugge all’ansia  del trascendere,  non si sottomette più al progetto, non si risparmia più. Coincide infine con l’insieme del possibile, con il semplice accadere, con la gratuità dell’esistere, con quella malattia inguaribile della vita umana che è  il suo essere mortale. Citando Svevo, Papparo  esclude che il tempo possa, come si dice, guarire: come cifra di una vita mortale, il tempo somiglia in realtà alla malattia che «procede per crisi e lisi e ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti»,  anche se  «a differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure». L’essere divenuto tempo concide col puro divenire; ma il divenire a sua volta è scialo - nel  senso di una ricchezza tanto lussureggiante quanto inutile - vale a dire spreco, dispendio. Se il lavoro implica, come diceva Hegel, la messa a freno del desiderio  - e non è importante se si tratti  del lavoro della mano o di quello della mente -, il rinvio a più tardi - per Lacan è la parola d’ordine di tutti i capi, democratici o no, quella  che intima: «Cari sudditi, per i desideri ripassate più tardi!» -, perdere tempo dovrà avere necessariamente a che fare con una certa inoperosità, con un certo non fare, anche, come voleva Lafargue, con un certo ozio  a condizione però che lo si utilizzi  non per lo studio, ma per il piacere. Ma soprattutto perdere tempo  vuol dire accettare fino in fondo che il tempo è ciò che si perde e in cui ci si perde, o, in altri termini, che il tempo è ciò che passa e che a noi è dato soltanto di far passare il tempo, di essere noi stessi solo il tempo che passa.


                                

domenica 5 gennaio 2014

Ancora sull'università e sui saperi umanistici

Rendo pubblica  qui una risposta privata ad una sollecitazione di Alberto Abruzzese sul ruolo dell'università e dei saperi umanistici, in particolare l'etica.


  
1) Sull’università. 
Non sono sicuro di essere del tutto d’accordo con la tua definizione iniziale sul ruolo delle Università, di essere cioè «il luogo istituzionale in cui per vari secoli le società hanno formato le proprie classi dirigenti affidando ad alcune specifiche discipline - definite umanistiche a partire da quelle classiche come l’etica - il compito di elaborare le forme di pensiero necessarie a governare i mutamenti e i conflitti del proprio tempo presente e di quello avvenire». Se ciò è mai accaduto, soprattutto nella modernità, è stato in sovrappiù rispetto al compito specifico sia della scuola che dell’università  che mi sembra principalmente  quello di assicurare la trasmissione il più possibile priva di errore del sapere accumulato, questo sì ritenuto necessario per la riproduzione sociale. Se una funzione  è stata attribuita ai cosiddetti saperi umanistici a partire dalla creazione stessa dell’istituzione universitaria, cioè nel medio evo, ma soprattuto a partire dalla stagione dell’umanismo, è stata quella di elaborare la cornice, il frame, all’interno della  quale il sapere  che si voleva trasmettere doveva essere incastonato per evitare dispersione, fraintendimento, equivocità, rumore e quindi perdita. Così facendo però  si impediva anche la possibilità dell’innovazione che  si ottiene solo con la   degenerazione del sapere dato, con la sua contaminazione con altri saperi non ancora legittimati, con  forme di vita alternative a quelle  valorizzate dal conformismo sociale. È quello che ci ha insegnato Derrida proprio rispetto all’università: dal momento che ogni trasmissione, affidandosi alla scrittura, alla lettera - da cui le humanae litterae, la cultura e l’umanesimo - rischia in linea di diritto   di essere stravolta  dal ricevente e  dal momento che il mittente è per definizione postumo e non può  difendere come un buon padre lo scritto dalla misinterpretazione, la trasmissione del sapere e con essa il mantenimento dell’ordine sociale dato è sempre  in stato di pericolo. La cultura umanistica fondata sul primato della voce  si è presentata allora secondo Derrida come lo strumento che doveva assicurare, costruendo il consenso sociale, la conservazione dell’ordine dato.
L’università è un’istituzione fondamentalmente conservatrice; e questa caratteristica non è stata modificata dal discorso moderno sull’università, quello humboldtiano per intenderci, che ha cercato di reintrodurre nell’università il momento innovativo costruendo il binomio ricerca-insegnamento:  la verità è che sotto il nobile nome  di ‘ricerca’ è stato semplicemente riconosciuto alla borghesia che si impadroniva dello stato il diritto di modellare le società a propria immagine e somiglianza, sia sviluppando le nuove scienze sia modificando i frame della trasmissione che dovevano diventare più flessibili per stare   al passo con le innovazioni delle scienze dure: null’altro significa il primato attribuito da molti discorsi moderni sull’università alla filosofia identificata prima con il movimento dialettico di Hegel, poi  con la filosofia della vita e l’ermeneutica e oggi  che c’è bisogno di pulizia con la filosofia analitica. La giustificazione ideologica di tale funzione della università borghese è stata la parola d’ordine della ‘autonomia’. Come sempre i movimenti storici sono doppi, aporetici: se con l’affermazione dell’autonomia si voleva liberare l’università dal controllo dello  stato che non doveva più decidere direttamente che cosa insegnare e come, allo stesso tempo l’autonomia si  trasformava in ‘corporativismo’, autoreferenzialità del ceto universitario - docenti e studenti -, chiusura verso il fuori dell’università in modo che l’unica innovazione accettata fosse quella posta sotto il controllo del corpo universitario. L’incondizionatezza  che si voleva regalare all’università si è tramutata in insindacabilità del tipo  dei saperi  trasmessi e delle modalità delle trasmissione. Ancora Derrida ci ha fatto capire che l’unica incondizionatezza che farebbe bene all’università sarebbe la resa incondizionata dell’università al fuori, all’altro. E i rari momenti di trasformazione effettiva dell’università sono quelli in cui essa si è arresa incondizionatamente al fuori - per esempio nel sessantotto in cui l’università è stata presa d’assalto - ed è capitolata anche se per poco - prima di tutto da nuove forme di vita, quelle aurorali del consumo e dei media elettrici che dissolvevano autoritarismi familiari, sessuali e sociali, poi da pratiche estetiche e filosofiche prodotte fuori dell’università (è l’epoca di Derrida stesso, di Foucault, di Lacan, delle pratiche poetiche e letterarie d’avanguardia), e infine dall’altro per eccellenza, dalla classe operaia.
Se questo quadro è corrispondente al vero, se i momenti di autentica trasformazione dell’università sono quelli in  cui essa non è più riuscita a difendersi da tutto quello che accadeva fuori dei suoi confini, ma allo stesso tempo sui suoi bordi, allora il compito di colui che opera dentro l’università, soprattutto se come esponente  dei saperi umanistici, è quello, un po’ da saltimbanco e un po’ da equilibrista, di stare con un piede dentro e  con un altro fuori. E ciò in due sensi: il primo è quello di tentare di introdurre dentro i confini dell’università i saperi, le pratiche, le forme di vita, che si sono sviluppati fuori. È una tipo di azione che dipende dal potere di cui dispone, dalla posizione che occupa nella gerarchia universitaria, dai maestri che  sceglie e dalle alleanze che è in  grado di stringere; è il prodotto cioè di una negoziazione continua. Il secondo è di agire al di fuori dell’università   tentando l’invenzione di nuovi saperi, sperimentando nuove forme della trasmissione, aprendosi a nuove pratiche, con la consapevolezza però che non tutto quello che si agita fuori dell’università solo per questo è innovativo e soprattutto non è abitato a sua volta dal fantasma  universitario: voglio dire che c’è un accademismo fuori dell’accademia, che il discorso universitario (nell’accezione di Lacan) prolifica anche al di fuori della aule universitarie. Quindi occhi aperti! Ma anche: dimentichiamoci dell’università, non facciamoci illusioni!
D’altronde l’unico significato politico, diciamo così di ‘sinistra’, che ci si può aspettare dall’università e dalla scuola in generale, è di favorire la mobilità sociale, di permettere in altre parole ai subalterni di scalare   di classe e di appropriarsi  dei saperi necessari all’assunzione del governo della società. Quando l’università non realizza questo compito o per arretratezza dei saperi che trasmette o per declino della società che sta fuori dell’università, allora l’università è del tutto inutile - è l’attuale situazione italiana che spiega anche la caduta della reputazione di cui parli. Se non assicuriamo la scalata sociale e non facciamo neppure parte dell’intellettualità diffusa nei media che produce consenso sociale (Saviano ad esempio), siamo inutili.

2) Sulla fine dell’individuo borghese. 
Tra gli effetti della globalizzazione intesa   come la «polverizzazione finanziaria» sia della proprietà in senso originario  sia della nazione in senso storico e sociale, tu annoveri anche la scomparsa del «sentimento dell’obbligo individuale del proprietario di beni materiali e immateriali nei confronti della sua comunità di appartenenza  e con essa delle altre esistenze umane e infine del mondo intero». Nei termini di Roberto Esposito ciò vorrebbe dire che viene meno la comunità e il sentimento di appartenenza ad essa perché in realtà la globalizzazione in quanto abolizione del vincolo comunitario  rappresentato nel nostro mondo moderno dalla forma dello stato-nazione avrebbe liberato i soggetti dall’obbligo, appunto dal munus, di occuparsi degli altri e dell’intero pianeta.  Mi chiedo se questo schema non contrasti con  ciò che molti di noi, formatisi alla vecchia scuola del marxismo, abbiamo sempre pensato e cioè che i regimi di proprietà di beni materiali e immateriali, quindi anche della cultura in generale, indipendentemente dalle forme giuridiche  - privatistica o pubblica - che potevano assumere  - la proprietà è sempre privata nel senso che privatizza l’uso e la fruizione del valore di scambio prodotto - erano comunque il prodotto della estrazione di plus-valore attraverso il comando sulla forza-lavoro o, in altri termini, nicciani e benjaminiani, che  la cultura come la ricchezza materiale fossero sempre il risultato di un gesto criminale, forse necessario, ma del quale ogni comunità deve, pena la sua dissoluzione, pagare il prezzo. Sul problema della cultura la mia posizione è quella di Nietzsche quando, scrivendo a Carl von Gersdoff il 21 giugno del 1871 dopo gli ultimi avvenimenti della Comune di Parigi, soprattutto l’incendio delle Tuileries da parte dei Comunardi sconfitti, dichiara di non sentirsela di accusare di crimine contro la cultura i responsabili delle distruzioni ma anzi di comprenderli dal momento che  di quegli orrori che ora vengono perpetrati siamo colpevoli  noi stessi, il nostro mondo e il nostro passato. I crimini contro la cultura - oggi la lagna contro la televisione commerciale etc. - sono dovuti ai crimini della cultura.
Forse la tua tesi funziona per i paesi di matrice protestante e riformata in cui c’è sempre stata una forma di mecenatismo nei confronti delle istituzioni culturali da parte dei grandi capitani d’industria i quali convinti che la ricchezza da loro accumulata fosse una grazia di Dio hanno ritenuto doveroso  restituirla almeno in  parte, facendovi partecipare, in modo indiretto d’altronde, anche i meno fortunati,  - posizione che  però sembra convivere tranquillamente con quella opposta anche se proveniente dalla stessa fonte religiosa per la quale la povertà è un segno della colpa e quindi non va né aiutata né attutita. Ma nell’Europa cattolica, anche se con qualche enclave luterana, in cui la salvezza si raggiunge soprattutto con le opere e raramente con la grazia - allora si è dei santi, ma la cosa non è da tutti - la sostanza accumulata è roba mia, me la sono conquistata col sudore della fronte - un  sudore alle volte di provenienza criminale - e guai a chi me la tocca: in questo caso mi sembra difficile che ci si senta responsabili per gli altri.
Comunque è certo che la globalizzazione spinge più che a far comune, come crede Toni Negri, all’individualizzazione. Ma direi di più: produce la polverizzazione dell’individualità. Il processo cui  fai cenno mi sembra al limite un effetto di quello molto più generale della scomparsa della funzione dell’individualità così come  si era affermata nella modernità borghese. Credo anzi che il concetto dell’individualità sia l’invenzione specifica della cultura della borghesia e che non esista l’individuo al di fuori dell’universo costruito dalla borghesia. Cos’è un individuo? È l’incarnazione specifica, unica e irripetibile, dell’essenza universale ‘uomo’. La sua necessaria pluralizzazione. L’individuo - vale a dire gli individui sempre plurali - non è semplicemente una caduta, inevitabile forse, ma pur sempre una caduta empirica dell’essenza universale, è la sua realizzazione, il principio logico-ontologico che la fonda. Se per la borghesia e la modernità l’essenza dell’uomo è da porre più nella libertà che nell’eguaglianza, allora l’individualità come pluralizzazione e differenziazione dell’essenza è assolutamente necessaria. O l’essenza come libertà è liberamente rifratta in una pluralizzazione di punti di vista o non è libertà.
Sul piano della cultura ciò si traduce nella tesi che  tanto più si realizzerà l’individuo quanto più esso sarà in grado di assimilare, immagazzinare, e ritrasmettere in modo originale, cioè libero, il sapere accumulato. L’appropriazione della cultura è consustanziale alla formazione della individualità e si capisce allora  la connessione fra questo portato della cultura borghese e la trasformazione moderna, da Humboldt in poi, dell’Università. Basta leggere il Fichte  della missione del dotto  per accorgersi di quale sia il ruolo affidato dalla modernità borghese all’educazione: dal momento che vi è una pluralità di individui e   quindi una differenziazione necessaria nel grado di acculturazione di ciascuno di essi, si pone la necessità di avere un ceto di educatori, i dotti, che educhi al sapere e al suo uso libero quelli non ancora educati; essi cioè devono essere capaci - e in tal senso vanno formati a propria volta - di trasmettere il sapere nel senso di fare in modo che ciascuno possa appropriarsene in modo libero e originale: tanti discorsi sui compiti della scuola e degli insegnanti sono stanche ripetizioni delle tesi elaborate negli anni d’oro del pensiero borghese.
La scomparsa dell’individualità nel senso su accennato dipende da una serie di fattori tutti inerenti a quella stessa modernità che l’aveva prodotta o aveva reso necessario la sua concettualizzazione: mi riferisco  al fatto che le forme dello scambio generalizzato generano prima le folle e poi le masse, le masse denaturate e civilizzate di cui parla Benjamin nel saggio su Baudelaire, il cui avvento sulla  scena della storia spinge, quando non è la causa, alle rivoluzioni mediatiche di fine ottocento e soprattutto primo novecento. I nuovi media, la riproducibilità tecnica delle immagini e dei suoni, la trasmissione just in time dell’informazione, il giornalismo e la letteratura di massa, conducono l’individualità prima al collasso e poi alla scomparsa. La televisione e la rete fanno il resto. È d’altronde il processo che  tu hai ricostruito nel corso del tuo lavoro e che hai tentato inutilmente di far capire ai gruppi dirigenti della sinistra che già avevano avuto mille difficoltà nel digerire la rivoluzione mediatica della penna biro. La novità della tarda modernità è che il sapere circola e corre nella rete, che non è più necessario introiettarlo dal momento che i media abilitati a conservarlo e a trasmetterlo sono sempre più indipendenti dalle  prestazioni umane e producono contaminazioni e commistioni dei generi superiori a quelle che l’intelligenza singola coltivata da anni di studio e di accumulazione era in grado di attivare. Anche i supporti sono più stabili e duraturi e soprattutto il software anche se si dovesse perdere è facilmente rimpiazzabile. Il sapere e i suoi frame sono completamente estroflessi e hanno ragione quei teorici marxisti  che vedono  nella  diffusione della rete  la realizzazione alla massima potenza dell’intelletto generale di cui parlava Marx; anche se l’euforia con cui la celebrano come l’attualità stessa del comunismo è del tutto fuori posto  dal momento che una sostanza senza soggetto, con buona pace di Althusser, fosse anche il soggetto nulla più di un soggetto supposto sapere alla Lacan, è semplicemente paranoica. Vero è invece che l’estroflessione del sapere accompagnata dalla sua disponibilità integrale rende obsoleta un’individualità tutta costruita sull’accumulazione e l’introiezione del sapere. Da qui la crisi dell’università e della scuola in generale ancora legati al vecchio modello del sapere individuale.
Condivido allora la tesi che tu avanzi sulla inutilità di proseguire la battaglia politico-culturale che ti ha visto in questi anni in prima linea volta ad opporre «alle filosofie e estetiche delle istituzioni» quelle del consumo, ad approfondire la divaricazione fra cultura alta e cultura bassa tentando di convincere i ceti dirigenti politici, culturali e dell’impresa sulla bontà di un’apertura non subalterna o addirittura ostile alla sfere del consumo e del godimento. Piuttosto che continuare a opporre consumo e istituzioni, desiderio e sapere, godimento e sublimazione, bisognerebbe tentare di lavorare nella direzione di un loro nuovo intreccio che parta però dalle condizioni irreversibili della tarda modernità, vale a dire dalla estroflessione dei saperi, dalla ricchezza dei consumi e dalla fine dell’individualità.

3) Che fare?
a) Il soggetto. In primo luogo io penso che bisognerebbe impegnarsi in un’azione diffusa, radicale e anche violenta per imporre una nozione di soggettività alternativa a quella che, volente o nolente,  ricorrendo   malamente anche ad autori e testi della filosofia contemporanea, resta in realtà quella del soggetto moderno, cartesiano, un soggetto pieno e cosciente, parente stretto di quella individualità ormai scomparsa. Una soggettività asorrosiana  - quale guasto ha prodotto la teoria dei nuovi soggetti! - che si ritrova oggi nelle tesi di Toni Negri sulla moltitudine, in quelle del lavoro come bene comune delle sinistre antagoniste - detto en passant, ma non  sarebbe tempo che la sinistra decidesse di essere agonista, anzi protagonista, e non antagonista - nel pensiero (sic) di certo femminismo per il quale non è il desiderio a richiedere un soggetto che lo regga, ma è la costituzione di un soggetto a legittimare il desiderio per cui una escort non desidera o il suo desiderio è falso e indotto dal momento che non è un soggetto visto che vende il proprio corpo. In primo luogo il desiderio è sempre il desiderio dell’altro, desidero ciò che l’altro desidera e lo desidero come lo desidera l’altro. Non esiste un mio desiderio prima del desiderio dell’altro, cioè non  sono un soggetto se non in quanto sono assoggettato al desiderio dell’altro. In secondo luogo il desiderio è desiderio di essere ciò che manca all’altro che è la ragione per cui desidera. Essere un soggetto significa istituirsi come il fondamento di questa mancanza, essere ciò attraverso cui questa mancanza ad essere dell’altro, divenendo la mia mancanza ad essere, può significarsi. Perché questa nozione della soggettività è necessaria per rispondere alla crisi attuale? Perché se oggi l’Altro - l’altro lacaniano scritto con la A maiuscola che è il tesoro dei significanti o la sfera della cultura in generale - è la rete, esso tende a presentarsi senza vuoti, senza mancanze e senza buchi. A ogni domanda corrisponde una risposta, ad ogni desiderio un discorso pronto a legittimarlo, ad ogni variazione del godimento un gadget atto a soddisfarlo. La stessa cultura del consumo rischia di vedersi tradita: se infatti consumare vuol dire dilapidare, perdere, sprecare, l’attuale configurazione del capitalismo tende a fare del consumo un atto produttivo, un investimento valorizzante, ad attribuirgli una funzione normalizzante e armonizzante  nel rapporto fra il soggetto e il mondo. La prima operazione da fare è fare vuoto, distruggere la radice dell’albero di Avatar,  bisogna produrre un ground zero: se la regola aurea della rete è lo star connessi, bisogna disconnettersi, mettere delle pause, introdurre discontinuità, fare dei salti. Se già oggi il soggetto è una postazione della e nella rete, se il sapere gli è del tutto esterno, l’unica chance è di piegarsi, vale a dire stare nella rete ma nella posizione dell’estimità, ossia dell’esclusione interna. Ciò comporta inevitabilmente l’accesso, che coincide con la soggettivazione, all’Altro come mancante o come scrive Lacan barrato. Fermo restando il passaggio alla ricchezza simbolica della  produzione e del consumo (nessuno spazio alle teorie della decrescita, ai nuovi pauperismi), bisogna ripristinare il disagio della civiltà: la vita in comune implica la rinuncia al godimento completo ed esaustivo  nello stesso tempo in cui ne permette però realizzazioni parziali e perverse. Il godimento possibile si conquista inventandosi degli handicap, accettando la condizione disagevole dell’essere desiderante che è tale perché manca e perché anche l’Altro manca.
b) L’etica. Ne parlo perché sei tu a chiamarla in  causa citandola - unica - per nome fra tutti i saperi cosiddetti umanistici.  Ora l’etica ha a che fare con la triangolazione fra il desiderio, la legge e il godimento. Per l’etica classica la legge coincideva con quella della polis: stando al suo interno e rispettandola ciascuno lavorando su stesso poteva cambiando abitudini divenire un maître di sé e degli altri.   Obiettivo del maître  è l’apatia e la meditazione, la contemplazione - scienza e vita beata -  dell’immutabile  e dell’eterno - stelle fisse e ordine del mondo. Il godimento è la beatitudine e si oppone alle passioni che smuovendo l’anima impediscono la quiete. Nel moderno cambia tutto: il mondo esterno non è più stabile ed eterno e la città poggia non sulle leggi ma sul contratto. Questa trasformazione libera il godimento in tutte le sue forme - etica libertina - ma produce  contemporaneamente l’interiorizzazione della legge - etica kantiana. Fra le due che poi si rivelano uguali s’interpone l’utilitarismo che promuove la massimizzazione del bene sia come il più gran bene che come il bene di tutti o perlomeno del più gran numero.  Perché come ha dimostrato Lacan l’etica libertina e quella di Kant vanno insieme? Perché come era già evidente con San Paolo la legge non è più come nell’epoca classica ciò che si oppone al godimento, ossia la legge del disagio della civiltà, ma ciò che al contrario lo comanda. Godi!, è l’imperativo categorico della modernità. Lo dimostrano proprio i libertini che non avendo altro che la natura per legittimare i loro gusti sessuali strani e pericolosi finiscono con Sade per desiderare, pur di liberarsi di questa costrizione a desiderare e a godere,   di distruggerla. Quanto devono le guerre moderne che sono guerre di distruzione al libertinismo sadiano? Hitler non ha qualche tratto del chimico Almansi che progetta di far esplodere il Vesuvio? L’etica moderna testimonia di un’impasse, l’impasse del desiderio: il desiderio implica la trasgressione della legge, ma è la stessa legge a  comandare il desiderio. San Paolo lo risolveva con l’amore di Dio. Noi con  che cosa possiamo tentare di risolverlo? Non con la politica, perlomeno non nel suo senso moderno, contrattualistico e convenzionale. Le leggi,  frutto della volontà arbitraria del sovrano - anche quando la sovranità è del popolo - non danno un fondamento al disagio della civiltà. Sono quasi due secoli che la sinistra comunista, senza riuscirci, tenta di pensare una politica diversa da quella  della modernità, ossia una politica che  faccia a meno dei concetti di sovranità, contratto e  norma .
La mia risposta all’impasse del desiderio è la cultura, ma un concetto di cultura che coincide con l’etica  e che soprattutto non ha nulla a che vedere con quella cultura di cui si lamentano i tagli, quella cultura alta e borghese che non solo va tagliata ma per le ragioni dette prima del tutto abolita.  Uso il termine cultura in due sensi  entrambi di ascendenza hegeliana: il primo testuale è la cultura come se ne parla nella fenomenologia dello spirito. Qui la cultura è il regno tutto moderno dell’estraneazione, il mondo svuotato di ogni sostanzialità metafisica ad opera del linguaggio, il mondo liquido e invertito di cui è testimonianza il Nipote di Rameau di Diderot, il regno dell’inversione in cui la coscienza è ribaltata, messa a testa in giù - e tutto l’errore è stato quello di volerla rimettere ad ogni costo a testa in su, quando invece andava fatta sprofondare nell’inconscio sempre di più.  È la cultura libertina che non a caso sfocia nella moralità soggettiva, ossia in  Kant. Il secondo invece rinvia a quello che Hegel chiama lo spirito prima oggettivo e poi assoluto, ossia le sfere dell’etica, dell’arte, della religione e della filosofia.  Di esse va conservato il carattere oggettivo, transindividuale, la loro capacità cioè di superare l’impasse della morale soggettiva. Va invece lasciato cadere il primato della coscienza e del sapere introiettato, nuovamente soggettivizzato-individualizzato che Hegel  tende ad attribuirvi. In altri termini bisogna  essere in  grado di innestare le forme  etiche ed estetiche direttamente nel corpo vile della cultura come estraneazione, consumo di sé fino alla liquefazione: è questo  il modo per coniugare  oggi consumo e sapere, godimento e sublimazione.
L’uso di quest’ultimo termine mi rimanda nuovamente a Lacan e mi permette di legare etica e cultura. Il seminario sull’etica della psicoanalisi individua la risoluzione del dilemma etico non all’interno dell’etica stessa - non viviamo più né all’epoca di Platone né a quella di Seneca - ma in forme oggettive, socialmente riconosciute, che stanno al confine fra l’etica e l’estetica. Nel 1959-60 Lacan ne indica due: la tragedia attica, soprattuto l’Antigone, e l’amor cortese medievale. Ciò che caratterizza queste  produzioni culturali è che esse sono oggettive e pubbliche - la tragedia  attica è un compito della politica e svolge una funzione politica e l’amor cortese è un’istituzione delle corti d’Europa - e allo stesso tempo iscrivono il desiderio e le sue vicissitudini in uno spazio al di fuori della rimozione che genera nevrosi. Senza cercare di abbattere il disagio della civiltà che sarebbe distruttivo della possibilità stessa di desiderare e di godere, esse permettono però attraverso la sublimazione - nel senso di Freud: una soddisfazione del desiderio ottenuta non passando per la rimozione o per la perversione   e senza diventare psicotici, cioè folli - sia di significare il desiderio sia di accedere al godimento. In termini lacaniani, l’amor cortese soprattutto, istituendo la Dama come qualcosa di inaccessibile, permetterebbe l’accettazione senza danni dell’impossibilità del rapporto sessuale, ossia del fatto che il godimento maschile e quello  femminile non sono uguali e soprattutto non si compenetrano per nulla. La donna è a distanza e viene mantenuta a distanza senza  che l’uomo debba ricorrere alle manovre ossessive e senza che le donne  per difendersi debbano  assumere le posture isteriche.  
Sono possibili esperienze e esperimenti analoghi nel nostro tempo? Una volta ricordato che la tragedia attica per Lacan, esemplata sull’Antigone, è la messa in scena del desiderio, come  non dare tutta la sua importanza al  fatto che per Nietzsche, ma anche per il giovane Lukacs e per Benjamin, la tragedia avrebbe dovuto funzionare non come sopravvivenza museale di un passato glorioso e tantomeno come divertimento nel mondo dei consumi - alti senza dubbio -, ma come chiave per la soluzione delle difficoltà in cui si dibattevano  la cultura  e le forme di vita della modernità?
Forse il tentativo del ripristino della tragedia, di cui la politica dei teatri stabili è stata l’ultima propaggine, è fallito. Ma l’amor cortese? Permettimi per chiudere una fantasia che poi non lo è tanto.  Da tempo penso - un  po’ per celia ma anche un po’ sul serio - che una trasmissione come Uomini e donne di Maria de Filippi sia nel nostro tempo e con i mezzi poveri che sono a disposizione una versione postmoderna, adatta al mondo dei consumi generalizzato, di ciò che in altri tempi era stato l’amor cortese. Questa trasmissione tenta una civilizzazione  del rapporto sessuale  al livello dei consumi di massa che una volta era operata dai romanzi rosa e dalle risposte alle lettere delle lettrici sui rotocalchi femminili. La novità è che coinvolge in questa civilizzazione anche i maschi sia come tronisti che come  pretendenti. Intanto li  costringe a parlare, a passare attraverso il linguaggio, ad imparare a far la corte ad una donna mettendo a freno il desiderio e evitando di saltarle addosso. In  secondo luogo  li aiuta ad accettare  l’incomprensibilità del femminile,   il suo narcisismo e il suo  carattere essenzialmente capriccioso oltre che la sua abissale e insuperabile insoddisfazione. Infine educa uomini e donne al fatto che non c’è rapporto sessuale ma solo dei sembianti che fanno da supplenza, il primo dei quali è appunto l’amore.
Tutto questo Uomini e donne lo fa a livelli elementari, ai livelli zero della comunicazione e dell’espressione. Si può pensare un Uomini e donne in cui si riversi più sapere, più esperienza, più forma, più elaborazione, in cui i pretendenti non solo si sottopongano alle prove più crudeli, ma imparino anche a cantare l’amore per la loro dama imponendosi degli handicap come la  rigida struttura del sonetto o della sestina, la rima alternata,  l’uso di un pacchetto di termini da adoperare in tutte le combinazioni possibili? Non sarebbe questo un caso  di incontro fra consumo e sublimazione al di fuori del vecchio contenzioso fra cultura alta e cultura bassa?
Lavoriamo con ‘lalingua’, scritto così tutto d’un fiato: è una delle ultime trovate di Lacan. Significa che la lingua che parliamo non è  quella saussuriana, la lingua come sistema formale, prontuario della significazione staccato però dalle pulsioni e dai desideri. Lalingua è la lingua materna, quella in cui significante e pulsione sono originariamente intrecciati, in cui il suono significante, cioè articolato, è immediata espressione del desiderio e/o del godimento.  Ripartiamo da qui.

sabato 4 gennaio 2014

Sulla questione dei saperi umanistici

  
1) L’ultimo numero del Mulino (6/13) si apre e chiude con due interventi dedicati alla sorte dei saperi umanistici nella scuola e nell’università italiane: un saggio di Maurizio Bettini dal titolo I classici. Antenati o enciclopedia culturale e Un appello per le scienze umane firmato da Alberto Asor Rosa, Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito. Il primo riscatta la sua stanca e stucchevole difesa del liceo classico e dell’insegnamento del latino con due osservazioni interessanti sul rapporto con gli antichi: la prima di considerarli e quindi di insegnarli come altri, come diversi da noi contemporanei, non dunque come sorgente dell’identità ma al contrario come irruzione dell’alterità, la seconda che ne discende  necessariamente di  riconoscere   l’antichità degli altri,  delle altre culture e  civiltà, degli altri popoli, smentendo quindi la tesi che l’unica antichità, l’unica classicità, possibili siano le nostre e gli altri siano tutti dei neonati senza storia.
Ma è l’appello per le scienze umane che dal mio punto di vista solleva le maggiori perplessità. Intanto per lo scollamento totale fra il titolo e il contenuto dell’appello:  delle scienze umane in difesa delle quali - così almeno sembra di capire - l’appello è scritto, nel testo non c’è traccia. A meno che non sia sia di fronte all’inveterato errore della cultura italiana, anche di quella filosofica, di intendere sotto la dizione   ‘scienze umane’ in realtà le discipline filologiche e ermeneutico-letterarie, quella che da Dilthey in poi si definiscono ‘scienze dello spirito’ in opposizione a quelle della natura e fra le quali viene annessa  anche la psicologia ma solo ed esclusivamente nella sua declinazione di ‘psicologia comprendente’ (tradotto: niente psicologia come scienza e niente psicoanalisi). In realtà le scienze umane sono un’altra cosa: secondo Michel Foucault - un autore molto citato ma pochissimo studiato seriamente - le scienze umane, la cui costituzione avviene a fine settecento ed è contemporanea del trascendentalismo kantiano, sono la biologia, la linguistica e l’economia politica. Se si definiscono scienze umane è perché applicano il metodo scientifico - l’unico che esista, quello galileiano -   a quei saperi di cui l’uomo è allo stesso tempo soggetto e oggetto, in cui cioè  «l’uomo appare con la sua posizione ambigua di oggetto nei riguardi di un sapere e di soggetto che conosce» . Dal tripode foucaultiano discendono in sequenza tutte le altre scienze umane: dalla linguistica la semiologia e la scienza della letteratura, dalla biologia l’antropologia, la psicologia, la stessa psicoanalisi (l’obiettivo polemico di Freud non è la scienza, è la religione!), dall’economia politica la sociologia. Va anche detto che la storia delle scienze umane è anche quella della loro decostruzione, della loro critica interna. Sempre stando a Foucault dal ceppo delle scienze umane  provengono scienze e pratiche che dissolvono lo stesso concetto di uomo: sono l’antropologia culturale di Levi-Strauss e la psicoanalisi lacaniana, entrambe figlie della linguistica strutturale saussuriana. Ciò vuol dire: le scienze umane producono la fine dell’uomo, determinano l’esaurimento definitivo della tradizione umanistica.

2) Al contrario l’appello per le scienze umane si risolve in una difesa ad oltranza della cultura cosiddetta umanistica e nella polemica rovente con il prepotere dei saperi scientifici. Al riguardo una prima osservazione:  nella terza parte dell’appello, che credo scritta da Roberto Esposito (si riconosce la trama del suo libro dedicato alla filosofia italiana Il pensiero vivente), si ricostruisce rapidamente il percorso della cultura italiana, oggi a rischio di estinzione, identificata col sapere umanistico - in particolare letterario, filosofico, storico -  e scandita dai nomi di Dante, Machiavelli, Sarpi, Campanella, Vico, Cuoco, Foscolo, Manzoni, Gentile (memore del libro aggiungerei: Leonardo, Bruno, Leopardi, De Sanctis, Gramsci, Croce). I punti di forza di questa tradizione culturale,  che costituisce l’ossatura della  cosiddetta Italian Theory, sarebbero il suo «carattere mondano e terreno, lontano dal ripiegamento nella coscienza interiore o dalla vocazione metafisica di tanta parte della filosofia europea» e soprattutto la sua anima politica anti statalistica e latamente rivoluzionaria. Si potrebbe anche concordare se non fosse che  da questo Pantheon risulta, non si sa perché, escluso Galileo Galilei, il padre (insieme a Cartesio che ne fondava il lato del soggetto) della scienza moderna, del moderno metodo scientifico, quello adottato appunto dalle scienze umane. La scienza moderna, il moderno razionalismo, non solo appartengono in tutto alla cultura italiana, ma  sono un’invenzione della filosofia: il concetto di episteme nel senso della mathesis  universalis ha le sue radici nei primordi del pensiero filosofico in cui le prime scienze a costituirsi come tali e a dettare per sempre il modello della scientificità in quanto tale sono state le matematiche (aritmetica e geometria) e fra le scienze fisiche l’astronomia. Certo, poi c’è voluto Galilei per avere una fisica scientifica, ma chiunque abbia letto gli studi di Koyré e ne abbia fatto tesoro sa che Galilei è platonico e non è un naturalista. Le ‘sensate esperienze’, che insieme alle ‘dimostrazioni necessarie’, sono una delle due opzioni del metodo scientifico non rinviano soltanto all’esperienza dei sensi nel suo carattere improvviso e immediato ma anche e soprattutto ad un’esperienza compresa e articolata,  elaborata attraverso la ragione. Come scrive Koyré «l’esperienza intesa come esperienza bruta, come osservazione del senso comune, non ha avuto nella nascita della scienza classica altra funzione che quella di ostacolo».  Lo ‘sperimentare’, ossia l’interrogazione metodica della natura attraverso l’esperienza, «presuppone il linguaggio nel quale porre le proprie domande e un vocabolario che permetta di interpretare le risposte della natura». Se il linguaggio in questione, conclude Koyré, è «quello matematico, o meglio geometrico, questo linguaggio, e più esattamente la decisione di usarlo (…), non poteva , a sua volta, essere dettata dall’esperienza che andava condizionando». 

3) Certo poi il discorso scientifico satura il soggetto ridotto a mero polo rappresentivo atto soltanto a far da fondamento a saperi  fortemente formalizzati in cui la natura, umana e non umana, è trasformata  integralmente  nella combinatoria logica delle piccole lettere, vale a dire in funzioni e algoritmi. Ma del  quale proprio l’esito finale delle scienze umane opera la decostruzione, non ripristando contro Cartesio un improbabile sinolo di materia e forma, corpo e anima, emozione e cognizione, come vorrebbe la vulgata umanistica, ma  facendo emergere il soggetto dell’inconscio, cioè il soggetto della combinatoria della lettera in cui s’incripta non una generica naturalità, un misto incomprensibile di istinti, passioni e sentimenti,  ma la spinta inesauribile di una pulsione al godimento cui non è estraneo un profondo desiderio di morire. La polemica nei confronti della scienza ha un senso alla sola condizione di riguardare (1) la sua refrattarietà nei confronti del soggetto (dell’) inconscio, (2) la sua necessaria struttura paranoica tutta impegnata nel respingere la finta come carattere costitutivo dell’esperienza soggettiva e a lottare contro le potenze dell’inganno, (3) la formazione della sua ’ideologia spontanea’ che nel caso della scienza si chiama ‘naturalismo’ e si traduce nel tentativo sistematico di riduzione di tutta l’esperienza non solo a grandezze misurabili  e quindi quantificabili, ma soprattutto al fatto che il rapporto fra di esse sia sempre a resto zero, esente da difettività o eccessi,     quando al contrario da ogni parte si testimonia l’esistenza - termine da intendere nel senso logico-ontologico e non ontico, nel senso dell’ex-sistere, nel cader fuori dall’essere come identità e sostanza - di grandezze incommensurabili, di eccedenze non contabilizzabili,  di resti in pura perdita,   fra i quali ad occupare il primo posto sono quelli attinenti al  godimento sessuale.

4) L’appello per le scienze umane non distingue fra il discorso della scienza e la sua ideologia spontanea; in tal modo ricade nella tradizionale e ormai del tutto superata contrapposizione fra discipline  filologico-storiche e  ermeneutico-letterarie da una parte  e saperi scientifici dall’altra, fra qualità e quantità, anima e esattezza (per citare Musil) e soprattutto fra umanesimo e tecnicizzazione, come se la tecnica, tanto per evocare Heidegger, non fosse l’ultima propaggine dell’umanismo. Nella prima parte dell’appello, scritta con ogni probabilità da Alberto Asor Rosa, sotto il termine tecnicizzazione, usato a mo’ di insulto, vengono rubricate cose del tutto diverse a dimostrazione del  conservatorismo  del suo estensore: si passa infatti dalla modellistica pedagogica, l’accento posto cioè più sulle metodologie dell’educazione che sui contenuti da trasmettere (una polemica assolutamente giusta su cui Ernesto Galli della Loggia si è espresso in termini chiari e condivisibili) all’uso dei test e dei quiz   per approdare all’introduzione come strumenti didattici dei computer, delle lavagne luminose e di internet,  tesi quest’ultima che si allinea con quell’antagonismo sociale di stampo piccolo-borghese e perciò estremistico che invece di lottare  contro i rapporti di produzione fa la guerra ai treni. È evidente che al di là di questa retorica antitecnica la posta in gioco dell’appello è la sottomissione dell’intero apparato della formazione (dalla scuola all’università) alla cosiddetta ‘cultura della valutazione’. Come è ormai ampiamente dimostrato [penso in particolare al libro di Valeria Pinto, Valutare e punire edito da Cronopio, ma si veda anche l’ultimo numero della rivista Aut Aut (360/2013)] la ‘valutazione’ consiste nell’applicazione al comparto della formazione dei criteri di ottimizzazione utilizzati nel management aziendale. In questo modo e nelle forme attuali del capitalismo, il cosiddetto neoliberismo, si attua la sussunzione del lavoro intellettuale svolto nella scuola e nelle università (essendosi un simile processo già compiuto nell’industria culturale) sotto il dominio del valore di scambio. Iniziato sul lato degli studenti con l’introduzione del sistema dei crediti formativi che  misurano il  tempo di lavoro necessario all’acquisizione di saperi e competenze, il processo di estensione della  forma merce  al settore del lavoro intellettuale si compie con  l’introduzione del sistema della valutazione dei prodotti della ricerca e dell’insegnamento. La seconda parte dell’Appello  mostra di aver molto chiara la questione  come quando stigmatizza lo slittamento inevitabile che il progetto della valutazione opera dal piano della qualità della ricerca a quello della quantità (corsa frenetica alla pubblicazione  del più gran numero di titoli, ossia libri, risultato ottenuto molto spesso attraverso la semplice scomposizione: due libri valgono il doppio di uno solo anche se in realtà  sono il frutto di un unico progetto di ricerca. Nella mia attività di commissario dell’abilitazione scientifica mi è capitato di imbattermi in casi simili) e si nota come anche sul piano del linguaggio si assista ad una trasformazione che la dice lunga sugli intenti del processo in  atto: il passaggio dal concetto classico di ‘giudizio’ a quello di ‘valutazione’ e l’uso di vocaboli come ‘prodotto’, ‘impatto’ e ‘rendicontazione’ dimostrano infatti la «matrice produttivistica di una logica modellata su quella del mercato». Da questo punto di vista non c’è  dubbio che «il riferimento dell’intero paradigma della valutazione è il marketing aziendale, appena filtrato dalla retorica del merito, naturalmente inteso come prestazione in vista di un utile».

5)   Sarebbe tutto giusto e condivisibile se la risposta non  fosse  per l’ennesima volta l’arroccamento difensivo nella trincea oramai completamente smantellata dei saperi umanistici. È tempo di dirlo chiaramente: la critica del sistema e della cultura della valutazione che si eleva soprattutto dai  settori cosiddetti umanistici dell’accademia universitaria  è solo il rifiuto rabbioso  che  settori cospicui della piccola borghesia che avevano creduto di ovviare alla loro pochezza sociale attraverso il prestigio  derivante dagli studi classici - e in tal modo evitare di  ritrovarsi arruolati nei ranghi della classe operaia -  oppongono all’inevitabile sussunzione del loro lavoro, il lavoro intellettuale, sotto la foma merce. Quello che non era riuscito all’estremismo di sinistra nella incarnazione della   banda dei quattro e di Pol Pot, ossia liquidare la divisione del lavoro trasformando attraverso la violenza  professori universitari e maestri elementari, scrittori e artisti, scienziati ed ingegneri, tutti in zappatori della terra (sogno non a caso dei conservatori e dei reazionari), è stato ottenuto  in forma soft dal capitalismo neoliberale facendo diventare gli intellettuali degli impiegati di concetto, costringendoli a riempire moduli, erogare test, compilare statistiche, preoccuparsi di mediane e requisiti minimi e soprattutto timbrare il cartellino.  Giacché in che cosa consisteva il prestigio di aver abbracciato gli studi classici e i saperi umanistici se non nell’essere pagati, come ha scritto Jean-Claude Milner, con il salario dell’ideale? Vale a dire col tempo? Ossia con quell’ozio degli antichi che è il tempo  che si dedica allo studium proprio perché si è  esonerati dal lavoro, l’unico che sia mai esistito, quello dei servi e degli schiavi? A parte il fatto che per la maggior parte dei professori universitari dei settori umanistici quell’ozio che si oppone al negozio, ossia all’ufficio, alla cura e alla preoccupazione del domani, ed implica perciò la tranquillità dell’animo propria di chi si dedica al bios theoreticos, si è da lunga pezza trasformato  dapprima nell’ozio padre di tutti  i vizi di ascendenza cristiana e poi nel dolce far niente del giovin signore pariniano, è il principio stesso dell’uso libero del tempo a  fondare la divisione del lavoro, la divisione cioè fra  il lavoro intellettuale e  quello manuale, e quindi la differenza di classe in quanto tale. Ciò che caratterizza il capitalismo non è altro che questo: aver messo il tempo, tutto il tempo, al lavoro. E se  si vuole liberare il tempo dal lavoro, che è il compito di chi si definisce comunista, ciò non può passare per la riaffermazione  della divisione del lavoro, ossia  di nuovo attraverso la sottrazione del tempo dello studio a quello del lavoro. Che è un modo per dire che il mio tempo è più nobile del tuo e che per questa ragione va utilizzato meglio indirizzandolo verso ciò che è libero e creativo e e non verso ciò che è  ripetitivo e servile.  La strada da seguire è un’altra: far leva su ciò che nella grandezza  ‘merce’  eccede, esattamente come accade in quella del godimento sessuale con la quale è d’altronde strettamente apparentata, lo scambio formalmente uguale, la transazione senza resto, il pari e patta di ogni regime equivalente. É in altri termini il ruolo che in una politica di sinistra spetta al lavoro intellettuale: non è nuova la tesi che il primo passo consista nel riconoscersi appieno in quanto produttori, ossia merce, equiparati non in base ad un egualitarismo astratto e risentito, ma a partire dal posto che si occupa nei rapporti della produzione e riproduzione sociale, al lavoro manuale. Produttori di concetti e di forme, ma pur sempre produttori. Non consumatori parassitari del lavoro altrui.  

6) In quanto alla filosofia, che deve alle humanae litterae  nient’altro che  il fatto di  aver potuto ritagliarsi uno spazio nell’università italiana, penso che farebbe bene a prepararsi, come diceva Benjamin, a sopravvivere alla cultura. Forse il connubio fra la filosofia e l’università celebrato due secoli fa dalla cultura dell’idealismo tedesco e importato in Italia da Giovanni Gentile, sta per finire. Di cosa vivranno i filosofi se gli si toglierà il salario dell’ideale? Dovranno imparare un mestiere. Consiglio il tornitore di lenti.