domenica 15 dicembre 2013

Colonna continua 10

1) Ho passato tutta l’ultima estate a leggere i titoli - libri, saggi e articoli - presentati dai candidati all’abilitazione scientifica in Filosofia morale: un’attività ai limiti dell’abbrutimento. Unica distrazione e unica salvezza, in una città chiusa per ferie, è stato rivedere -  una puntata a sera come ai vecchi tempi - molti degli sceneggiati televisivi degli anni sessanta-settanta riversati su dvd e commercializzati dalla Rai. Non tutti: di alcuni come Mastro don Gesualdo, I Giacobini, I Camaleonti, La pisana, o non c’è più traccia o sono per il momento esauriti e in attesa di ristampa. Guardandoli ho pensato spesso a un passo benjaminiano dei Passages: quello in cui Benjamin sostiene che in ogni cosa - vita umana, opera o epoca storica - giace sul fondo, nascosto ma allo stesso tempo protetto dalle forze della distruzione, un nucleo redento, adempiuto e salvo, che  cerca costantemente il momento giusto, l’adesso adatto, per manifestarsi. Lo chiama: ‘l’indistruttibilità della vita più elevata in ogni cosa’. A tal fine questo nucleo non disdegna nulla,   sfrutta tutto,  anche  quello che dal punto di vista di una cultura ‘alta’ ‘nobile’ e ‘disinteressata’ oltre che ‘progressista’, viene considerato o spurio o del tutto negativo. Nelle figure dei Passages:  i passaggi stessi, poi l’architettura in ferro e vetro,  le esposizioni universali, la prostituzione, le vetrine, la moda e, dulcis in fundo, la merce. E quindi anche i nuovi media. Secondo l’ideologia borghese non può che essere un affronto nei riguardi di Goethe, scrive  Benjamin, ‘ridurre cinematograficamente il Faust’ e ‘un abisso separa il poema del Faust e il film su Faust’. Per Benjamin  al contrario il vero abisso sta fra ‘una buona riduzione cinematrografica del Faust e una cattiva’ e decisivi non sono mai ‘i “grandi contrasti” ma solo quelli dialettici che spesso sembrano estremamente simili a delle sfumature’: è da questi ultimi però che ‘la vita rinasce sempre di nuovo’.
Non è detto allora che la vita del Faust di Goethe, il suo nucleo indistruttibile e elevato, la sua verità colta sub specie aeternitatis, sia rispettata solo da una lettura in solitaria o da una messa in scena (già questa, come è noto, ai limiti dell’impossibilità). Lo può essere da un   opera musicale, da una riscrittura in prosa, da una traduzione (penso a quella italiana di Franco Fortini), da un film e infine da uno sceneggiato televisivo, oggi da un video. La differenza non si fa fra il medium della lingua e quello delle immagini in movimento riprodotte tecnicamente, ma  fra  una cattiva lettura e una buona, fra  una traduzione pessima e una ottima (nel senso di Benjamin: quella che più si avvicina alla pura lingua), fra un film sbagliato e uno riuscito (come quello di Sokurov), fra uno sceneggiato televisivo e una fiction.  Insomma fra  ‘La vita è bella’ di Benigni e il fumetto Maus di Art Spiegelmann è quest’ultimo che rende giustizia alle vittime dei forni e rilancia la verità di fumo dei campi di concentramento.

2) Allora lo si chiamava: lo specifico televisivo. L’espressione, coniata sul più vecchio e blasonato ‘specifico filmico’ di Guido Aristarco & company, indicava la ricerca della prestazione specifica sul piano dell’espressione artistica che le nuove tecnologie mediatiche potevano offrire. Come sempre accade un nuovo media, prima di scoprire la sua vocazione propria, ricapitola tutti  i precedenti e in particolare quelli che gli sembrano i più affini. Così la fotografia rifece  la pittura e la televisione il cinema e il teatro. Più tardi si capì che la televisione discendeva dal telefono e al massimo dal radar e le cose incominciarono a cambiare.  Sono tuttavia proprio i primordi,   i  tempi preistorici, i tempi cioè in cui le cose non sono ancora definite, ma fluttuano in un vortice, quelli più  adatti all’innovazione e alla sperimentazione: così fu tentata attraverso la  trasposizione di opere letterarie a vario titolo famose in sceneggiati ed il trasferimento di pièces teatrali dai palcoscenici agli studi televisivi,  l’invenzione di un nuovo linguaggio che non fosse né letterario e né teatrale ma nemmeno filmico, qualcosa appuno di televisivo e basta, nonostante  - o forse era proprio per questo? -  facesse propria la maggior parte delle innovazioni prodotte dai e nei precedenti media. Di tutti gli sceneggiati che ho rivisto l’unico che non rispetta il criterio che ho indicato è proprio I promessi sposi (la prima edizione quella di Sandro Bolchi con Paola Pitagora e Nino Castelnuovo nelle parti di Lucia e Renzo,  Tino Carraro come Don Abbondio, Lea Massari la monaca di Monza e Massimo Girotti fra Cristofaro): la monumentalità di cui in Italia il romanzo di Manzoni  è stato rivestito  tolse agli sceneggiatori e al regista qualunque libertà. Ne venne fuori un prodotto ingessato, eccessivamente didascalico con quelle pedanti   introduzioni alle puntate e i pedagogici riassunti di quelle precedenti  letti oltretutto da un funereo e triste Giulio Bosetti. Ma per tutti gli altri vale il principio sovra esposto: sono delle invenzioni pure, né letteratura, né teatro e neppure cinema. Sono un irripetibile, un blocco di opere che andrebbe studiato in quanto tale come un genere a sé e in cui spiccano almeno tre nomi di registi (alle volte anche sceneggiatori) che andrebbero trattati come dei veri e propri autori e che sono: Giacomo Vaccari, Sandro Bolchi e Edmo Fenoglio. Il primo diresse L’idiota con Giorgo Albertazzi e Anna Proclemer, Annamaria Guarnieri, Gianni Santuccio, Lina Volonghi e Sergio Tofano (oltre come già detto un Mastro don Gesualdo con Enrico Maria Salerno e Lidia Alfonsi); il secondo, certamente il più prolifico, le due parti del Mulino del Po di Riccardo Bacchelli, I fratelli Karamazov e  I demoni  di Dostoevskji, Anna Karenina di Tolstoi e i Miserabili di Hugo (cito ovviamente quelli che ho rivisto); Edmo Fenoglio i Buddenbrook di Thomas Mann.

3) La libertà di questi autori nei confronti sia del media precedenti sia verso la stessa televisione è totale. Essi sfruttano a pieno le differenze del mezzo televisivo  riguardo a ciò cui pure si ispirano: rispetto alla letteratura l’espressione attraverso la sequenza delle immagini in movimento, rispetto al teatro le tecniche della fotografia e del cinema: il fermo immagine e il rallenti, il primo piano e lo zoom, il campo medio e la ripresa multipla e soprattutto il piano-sequenza, rispetto al cinema la diretta e il qui e ora. Contemporaneamente Edmo Fenoglio gira i Buddenbrook come un film di Fassbinder o di Angelopoulus sottoponendo gli spettatori di allora ad uno stress percettivo e cognitivo  come quando  riprende in   campo lungo l’atrio della fastosa dimora dei Bundenbrook all’epoca del loro splendore  facendo ogni volta attraversare agli attori  lo studio in tutta la sua lunghezza  quasi ci si trovasse a teatro.  Usano a piene mani il dolly, riprendono la scena dall’alto, muovono di continuo le telecamere - e tutto questo in studio. Sandro Bolchi arriva ad inondarlo per girare la piena del Po. Ma ciò che più colpisce è la prestazione degli attori: e non solo perché sono i più bravi attori italiani di teatro - da Corrado Pani a Umberto Orsini, da Salvo Randone a Lea Massari, da Carla Gravina a Giancarlo Sbragia, da Sergio Fantoni a Valeria Moriconi, da Raul Grassilli a Ottavia Piccolo, da Nando Gazzolo a Glauco Mauri, da Ileana Ghione a Tino Carraro, da Giulia Lazzarini a Gastone Moschin, da Luigi Vannucchi a Lilla Brignone, da Gianni Santuccio a Lina Volonghi, da Giorgio Albertazzi a Anna Proclemer e da tanti altri altrettanto bravi anche se meno conosciuti -, ma perché sono stati capaci di unire due tecniche attoriali non solo diverse ma soprattutto opposte: quella teatrale e quella cinematografica. Le scene in cui erano suddivisi quegli sceneggiati duravano di media  dai venti minuti alla mezzora ed erano recitate in diretta e senza tagli: l’attore doveva usare una tecnica teatrale. Allo stesso tempo  recitavano non  per un pubblico in carne e ossa ma  per una apparecchiatura e in questo caso  la tecnica attoriale era quella cinematografica. Oggi che la fiction è girata  fuori dagli studi o in ex studi cinematografici, l’attore televisivo può al massimo trasferirsi al cinema ma non appena tenta il teatro frana inevitabilmente: gli manca il controllo della voce, la capacità di concentrarsi, la costruzione  in tempo reale del personaggio. Basterebbe questa strabiliante perfomance attoriale per riconoscere allo sceneggiato televisivo di quegli anni un posto di rilievo nella storia della cultura e nelle scuole per attori.
Poiché mi tocca la seconda tornata dell’abilitazione scientifica prego la Rai di pubblicare in tempo tutto il rimanente posto che ce l’abbia ancora e, visto che andava tutto in diretta e non sempre si registrava, non sia andato perduto.

sabato 14 dicembre 2013

Colonna continua 9

1) Saranno contenti tutti coloro che a vario titolo e con diverse argomentazioni si sono opposti all’approvazione di una legge che sancisse come reato penale la propagazione e il sostegno  delle tesi cosiddette ‘negazioniste’ in riferimento all’esistenza dei campi di concentramento nazisti, delle camere a gas e dei forni crematori, vale a dire rispetto all’effettualità storica della soluzione finale, dello sterminio degli ebrei. Secondo una notizia riportata dal Corriere della sera di  quasi un mese fa (13 novembre 2013) un professore di liceo che insegnava ai suoi alunni  nell’ordine che i fatti dell’Olocausto non sono veri, che i filmati sulle deportazioni sono dei falsi e che in fin dei conti gli ebrei  sono dei furbi dai quali bisogna guardarsi, è stato assolto da un tribunale italiano ‘perché il fatto non susiste’. Non è stata applicata  nemmeno la legge Mancino che sanziona la discriminazione e l’odio etnico   sia esso  di tipo nazionale, razziale o religioso. Semplicemente non esiste una norma con cui si possa perseguire penalmente coloro che diffondono e promuovono la negazione della Shoah impedendogli di continuare a esternare le loro opinioni. In nome di una perversa interpretazione dei principi della libertà di pensiero e di espressione e facendosi scudo di una citazione - questa sì del tutto falsa - di Voltaire secondo la quale  anche se disapprovo quel che dici mi batterò lo stesso perché tu abbia il diritto di continuare a dirlo, si accetta che si possa impunemente negare l’Olocausto senza comprendere che non si tratta semplicemente di  un enunciato  constativo che di per sé  potrebbe essere indolore, ma di  un performativo che nel momento in cui dichiara mai avvenuto lo sterminio per ciò stesso ne auspica la realizzazione, definitiva  questa volta.  Negare l’Olocausto significa soltanto che ci si è fermati a metà dell’opera ed è tempo  finalmente  di  portarla a compimento.

2) Tutto quello che c’era da dire sul ‘negazionismo’ l’ha detto e scritto egregiamente Donatella Di Cesare in Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo (il Melangolo, Genova 2012).  Citando fra l’altro un testo bellissimo ma poco noto di Jacques Derrida intitolato nella versione a stampa Feu la cendre (in italiano tradotto da Stefano Agosti: Ciò che resta del fuoco), ma quando era ancora una conferenza detta a voce [così   l’ascoltai tanti anni fa dalla viva (?) voce di Derrida] Il y à là cendre. Titoli comunque entrambi ambigui e doppi: il primo potendo significare sia Fu la cenere sia Fuoco la cenere e quindi Fu fuoco la cenere e  Fuoco fu la cenere, il secondo C’è la cenere e C’è là cenere. Inutile dire che la cenere in questione, questa cenere  che è sempre là, sempre  in via di dispersione, mai presente, di cui è impossibile di conseguenza il raccoglimento e quindi il logos,  che non sopporta nessun enunciato constativo, questa cenere è  la cenere di Aschwitz, la cenere  dei   forni crematori, ciò che resta, senza restare d’altronde, dell’Olocausto, del fuoco brucia-tutto. Questa cenere è l’unico testimone - un testimone evanescente, sempre in via di sparizione, un testimone incredulo di ciò di cui è chiamato a testimoniare - della verità di Auschwitz, cioè sia del  fatto che Auschwitz sia veramente accaduto sia della verità sull’uomo di cui Auschwitz è testimonianza per quanto sia una verità di fumo, una verità che se ne va in fumo. Questa cenere è l’unica cosa - una cosa misera e tenera - in grado di recare testimonianza del fuoco dei forni: per questo la cenere fu fuoco, il suo albero genealogico ha inizio nel fuoco. Ma è vero anche il contrario: fuoco fu la cenere, il fuoco sarà stato cenere. La cenere è da sempre, ma differita nel fuoco. Non la si potrà distruggere appiccando di nuovo il  fuoco, la cenere lo precede in un passato mai stato presente e lo incenerisce ritornando dal futuro anteriore in cui dimora. Impossibile sfuggire alla cenere, impossibile negarla: essa è già  negata e anticipa qualunque negazione futura. Sempre là, imprendibile.

3) La cenere fa fuoco dritto al cuore. Quando  ne Il discorso e la cenere (Quodlibet 2006, ma la prima edizione è del 1988) mi sono occupato  del testo di Derrida sulla cenere  il contesto era rappresentato da una domanda sul compito della filosofia dopo Auschwitz, in particolare da questa domanda: che ne è della verità dopo lo sterminio? È ancora possibile o dobbiamo rinunciarvi per sempre? Non è scomparsa dentro i forni crematori? Non è diventata cenere? Se in gioco è la verità come adeguazione fra la cosa e l’intelletto, la verità come deduzione sillogistica e correttezza proposizionale, non c’è alcun dubbio: questa verità è sprofondata per sempre. Ma per parafrasare un celebre detto di Pascal c’è una verità dei filosofi e una verità vivente, una  verità indifferente nella sua presunta universalità alla sofferenza  umana e una verità che marchia a fuoco, una verità  perforante la corazza dell’io, una verità che vincola e costringe. Per dirla con Lacan la verità che ci concerne è  quella che fa da causa materiale all’agire del soggetto. È questa la verità che fuma dai camini di Auschwitz, una verità traccia, una verità evento, una verità destino, una verità patica, una verità pena.
Ciò che più di tutto colpisce  nelle argomentazioni di coloro che si oppongono alla legge sul negazionismo è l’uso disinvolto che fanno della verità: essi   temono  che in tal modo la verità possa trasformarsi in una verità di stato,  una verità imposta dall’alto, una volta per tutte, sottratta di conseguenza alla libera ricerca, all’incessante revisione, al dibattito critico. La verità, aggiungono, non può essere imposta per legge. Ma così facendo denegano la verità, e cioè che  è la verità ad essere  la legge, che anche quando essa  assume la forma del   più tollerante e rispettoso degli enunciati constativi essa è in realtà un enunciato prescrittivo e performativo insieme, una parola che ordina e fa essere la cosa. La verità non si dice nel discorso dello storico e del filosofo, la verità accade  - cade e si disperde come cenere - e accadendo può gelare ed indurire i cuori o incendiarli fino a ridurli in cenere.

4) Chiara Conterno ha tradotto recentemente Gli epitaffi scritti sull’aria di Nelly Sachs (Progedit 2013), una serie di poesie scritte fra il 1943 e il 1946 in memoria di persone realmente esistite e deportate nei campi di concentramento. Premio Nobel nel 1966 insieme allo scrittore israeliano Josef Agnon, Nelly Sachs,  dopo aver   vissuto dieci anni, dal 1930 al 1940, a Berlino con la madre  in condizioni disperate per le persecuzioni dei nazisti, riesce, con l’aiuto di Selma Lagerlöf, di cui sarà la traduttrice in tedesco, a rifugiarsi in Svezia dove, essendosi rifiutata di tornare in Gemania a guerra finita,  morirà nel 1970. Anche in Svezia  continuerà  tuttavia a sentirsi perseguitata fino ad ammalarsene; in una lettera del 1960 a Paul Celan, amico insieme alla moglie, di Nelly Sachs, Inge Waern, una amica della poetessa, così ne descrive la condizione: «Li è malata.  A tratti - era terribile -  scriveva anche tutto su dei pezzi di carta,  in quanto la sia spia  dovunque, e così siamo là, con le tende  abbassate, e non posso nemmeno telefonare. Lei crede che i suoi persecutori vogliono che tutti i suoi amici la prendano per una malata mentale in modo  da farla diventare pazza». E in una lettera alla moglie Giséle, inviata da Stoccolma qualche giorno dopo, Paul Celan scrive a sua volta: «che dirti di Nelly? Soffre molto. Non vuole più sentir parlare delle sue poesie. “Non voglio serbare - e unisce il pollice e l’indice della mano destra a forma di anello - che questa piccola luce”. Disturbi che vengono da mille lati, da lontano e da vicino. A proposito di una lettera di Ingeborg - scritta dopo la mia telefonata - alla quale I. aveva aggiunto un paio di guanti bianchi, Nelly ha detto: “Dei guanti bianchi, vuol dire: “mi lavo le mani nell’innocenza - ich wasche meine Hände in Unschuld -, dunque prova di falsità”!!!». Qual è la verità per Nelly?

lunedì 10 giugno 2013

Il dono di Lacan

Questo saggio risale al 1993 ed è la trascrizione riveduta e corretta di un intervento tenuto alla Giornata di Studio organizzata dall'associazione Cosa freudiana di Roma e dal  Centro lacaniano di studi psicoanalitici di Napoli  intorno al tema «La questione della fobia nell'insegnamento di Jacques Lacan» e svoltasi a Roma il 12 giugno di quell'anno nella sede dell'Istituto della Enciclopedia Italiana. Gli atti furono poi pubblicati in un volume non commerciale a uso interno delle due associazioni. Dal momento che Fabio Ciaramelli ha avuto la bontà di citarlo in un suo articolo pubblicato sull'ultimo numero di Alfabeta2 (Giugno 2013), dedicato al problema politico-sociologico del dono, ho pensato di ripubblicarlo qui per renderlo di nuovo, o piuttosto per la prima volta, leggibile.

 Con questo breve intervento vorrei provare ad articolare una questione che potrebbe avere come titolo: ‘Dei debiti e dei doni di Lacan’. Del dono che Lacan ci ha fatto, ma insieme e indecidibilmente del dono che Lacan è, forse anche a se stesso. E del debito, impagabile come tutti i debiti, cui, attraverso questo dono duplice ed ambiguo, ci ha costretto e ci costringe. Giacché un dono indebita e, paradosso che attiene al concetto del dono in quanto tale, tanto più indebita quanto più è gratuito. Se ci si ferma, infatti, sul dono ‘vero e proprio’, sul concetto del dono preso nella sua apparente e presunta purezza, non v'è dubbio che un dono lo si fa per niente, che da un dono non ci si aspetta né si vuole nulla in cambio ed è per questo che un pensiero del dono tale quale l'ha tentato Marcel Mauss (debito di Lacan? e in che senso?) si oppone punto per punto alla logica e/o alla legge dell'economia politica e domestica, fondate entrambe sul risparmio e sullo scambio. La conseguenza è che il dono è eslege: la sua assoluta gratuità lo situa al di là della legge, fa del dono un fuori‑legge. Il dono non fa legge, né ha forza di legge, è anti‑nomico. Ma c'è di più: non solo il dono si oppone alla legge, ma la estingue. E l'altro senso dell'oblatività: offerta gratuita, ma anche e soprattutto estinzione del reato, obliterazione del debito. E dal momento che non c'è né reato né debito se non c'è legge, il dono è destituzione della legge stessa, cancellazione di ciò a partire da cui c'è della legge in generale.
Già Mauss[i], tuttavia, prima ancora dei suoi critici, era stato costretto, forse suo malgrado, a mitigare questa opposizione semplice ed univoca che separava nettamente un pensiero del dono dalla legge dello scambio e dalla sfera del debito. La pratica del potlach ‑ che Lacan tradurrà, con un occhio a Kojéve lettore e misinterprete della fenomenologia hegeliana, nella lotta a morte immaginaria per il puro prestigio ‑ mostra come il dono generi un debito tanto più obbligante quanto più incapace di lasciarsi governare dalla legge dello scambio. Giacché ciò che è in gioco nella pratica del potlach non è la restituzione dell'esatto equivalente di quanto è stato ricevuto, restituzione che azzererebbe il debito una volta per tutte, ma una resa in eccesso: l'obbligo del dono è una donazione più grande che, mentre sembra estinguere il debito cui il donatore aveva sottoposto il donatario, operando quindi da oblazione, si limita a rilanciare sul primo l'obbligo, da cui l'altro si era liberato, di una ulteriore e più estesa donazione. La logica del potlach, che è poi la logica e/o la legge dello stesso dono, implica, infine, un dono tale da non poter essere mai restituito, un dono rispetto al quale non ci sia nulla di più grande da donare. Ed è evidente che l'esito di un potlach o di una gara di doni coincida inevitabilmente con la distruzione di entrambi i contendenti: quale dono più grande di quello della vita stessa?
Non è vero dunque che il dono non abbia una sua legge, che non faccia legge; è vero invece che la sua legge non è quella dello scambio, non è quella dell'equivalenza. Piuttosto è quella dell'eccesso, non del risparmio, ma della dépense. Il dono instaura un debito, ma un debito impagabile, un debito cioè non misurabile. E infatti, se l'obbligo del dono è donare di più, non c'è misura, vale a dire raffronto, paragone, commensurabilità, in una parola equivalenza, fra un dono e l'altro. Il dono è incommensurabile. Questo debito, che solo il dono inaugura, è ciò che Lacan chiama il debito simbolico.
Ma esiste un primo dono? Si può pensare un proto‑donatore? Ora, proprio la logica e/o la legge del dono che abbiamo tentato di isolare, esclude questa ipotesi: un donante, per il solo fatto di porsi come tale, risponde, che lo sappia o no, alla legge del dono. Il suo dono è già restituzione e la gratuità del suo atto è già contaminata dalla legge: il suo dono è obbligato, è l'effetto di un debito contratto in precedenza. Non c'è quindi un primo dono che splenderebbe isolato come un unico sole nella volta del cielo: c'è costellazione o catena dei doni. Un dono ne presuppone sempre un altro, presuppone un altro dono di cui l'attuale è, o tenta d'essere, la restituzione in eccesso. Ma effetto più sconvolgente ancora, la catena dei doni coincide e si confonde con quella del debito simbolico: c'è sempre una certa contaminazione fra dono e debito, legge e gratuità, oblazione ed obbligo. Il che comporta ancora che l'opposizione fra dono e legge, da cui un pensiero del dono non può non prendere le mosse, non solo vada mitigata, come abbiamo già visto, riconoscendo anche al dono il valore e la forza di legge, ma vada, anche se con cautela e pronti come sempre a ripristinarla (legge del dono anche questa), addirittura epochizzata nel senso che un dono si espone, per il solo fatto di scoprirsi sottoposto a un debito, ad una trascrizione secondo il registro dello scambio e dell'equivalenza: all'incommensurabilità metaforica del dono corrisponderà sempre la sua reiscrizione in una catena metonimica.
Riprendo la questione di partenza: se la logica del dono è questa logica paradossale per la quale il dono instaura un debito, la gratuità fa legge e l'oblazione non libera ma obbliga, che ne è allora del nostro debito nei confronti del dono di Lacan e che ne è del debito di Lacan di fronte al dono che lui stesso è? In altri termini, se Lacan ci fa dono, in questo seminario sulla relazione oggettuale[ii], di un pensiero del dono e perciò solo ci indebita, ci costringe a restituirgli un dono più grande ‑ il quale avrà la forma della comprensione esatta di quanto ci ha trasmesso, della difesa da chi non lo comprende o peggio lo fraintende, della propagazione degli effetti di significazione che questo dono, che è un discorso sul dono, ha e crediamo debba avere nella comunità analitica e nella comunità tout court ‑, di chi o di che cosa allora Lacan è a sua volta debitore, qual è il dono che lo precede e a cui risponde, in quale catena, di doni e debiti e di debiti e doni, si è già trovato iscritto? Giacché il rischio di qualunque comunità che fonda la propria consistenza sulla potenza del nome di un padre fondatore, è quello di credere che egli sia appunto un proto‑donatore, un'origine assoluta, eslege, un inizio ex‑nihilo.
Per contro, il pericolo insito nel modo stesso con cui ho posto la questione sta proprio nell'oblatività: nell'estinguere stavolta non soltanto il debito, ma insieme al debito anche il dono. In parole povere, nell'annullare il dono di Lacan. Che cosa impedirebbe infatti che la reiscrizione del dono di Lacan nella catena del debito simbolico si trasformasse inavvertitamente in quel pietoso reperimento delle fonti, in quell'affannosa quanto inutile ricerca delle filiazioni e delle genealogie, in quel fatale storicismo insomma, che caratterizzano il sapere accademico o se volete il discorso universitario? Così facendo il dono di Lacan verrebbe ricondotto ad una misura, ad una misura di sapere, e in tal modo l'evento stesso che Lacan è, ciò che per parafrasare Heidegger si potrebbe chiamare l’es gibt Lacan’, il ‘si dà Lacan’, il ‘c'è dono di Lacan, annegherebbe fra le onde calme del sapere, sarebbe sottoposto al calcolo, reimmesso nella legge dello scambio, ed infine archiviato, microfilmato e micro‑processato. Tutto questo ‑ è meglio che se ne sia avvertiti ‑ già avviene, è già avvenuto, continuerà ad avvenire.
Sembra che quando si tenti di parlare di Lacan ‑ ma vale per tutti, anche se quello di Lacan è un caso a parte, quasi la cartina di tornasole di tutti gli altri casi, ciò che fa da paradigma e da legge ‑ si sia costretti a stare in bilico per non cadere in uno dei due estremi: quello del primo‑donatore da una parte e quello dell'oblazione del dono dall'altra. Il ripercorrimento, quindi, di un pensiero del dono di Lacan (frase che leggerete come sempre nel doppio senso del genitivo) dovrà, sempre che un'operazione simile riesca, articolarsi su una doppia scena: sulla prima si iscriverà il debito, il nostro, nei confronti del dono di Lacan, sulla seconda, invece, il debito, questa volta di Lacan, nei confronti per esempio di Mauss, di Lévi‑Strauss e, perché no?, di Heidegger[iii] . Di Mauss ho in un certo modo già parlato, ed è evidente che l'emergenza del dono, il dono del dono se così potessi esprimermi, il fatto cioè che il dono sia considerato non solo un oggetto degno di una ricerca sociologica, ma un ‘fatto sociale totale’, risponda ad un'esigenza per così dire ‘epocale’. Non vi sarebbe discorso sul dono se l'esperienza della modernità non testimoniasse della ormai totale sottomissione delle forme di vita alla legge dello scambio, se non testimoniasse insomma della generale mercificazione che colpisce non soltanto gli oggetti, i cari vecchi oggetti che appartenevano (o almeno tale era la credenza) alla sfera dei bisogni, ma anche i soggetti, i cari vecchi ‘io’, che godevano (o tale almeno era la credenza) degli oggetti di cui sopra. L'intento di Mauss è di mostrare l'illusione di una vecchia economia politica e della sociologia ad essa collegata che dello scambio fa la forma ‘naturale’ delle relazioni intersoggettive e di cui il baratto non sarebbe che l'arcaica prefigurazione. Al di là dello scambio, ma anche contro, e del suo apprendista il baratto, sta il dono. Quest'ultimo non è una pratica che il dominio dello scambio relega, ancora per poco, nella sfera privata dove gratuità e benevolenza, amicizia e amore, si concedono il lusso di ignorare la dura legge del mercato in cui vigono indifferenza e calcolo. Esso è appunto un fatto sociale totale, non una realtà parziale, ma il sociale tutto intero, l'intera rete dell'intersoggettività di cui è anzi l'inaugurazione. E a partire dal dono che una società è possibile, che si stringono alleanze e si contraggono obblighi reciproci. E tutto questo senza che si passi per lo scambio; anzi è lo scambio adesso ad apparire derivato, caduta e deriva appunto dalla e della verità del dono. Il dono non è solo, dunque, l'altro dallo scambio, ne è la critica, è ciò che, se non ne dissolve, almeno ne riduce l'istanza di dominio: il soggetto umano non vive solamente della ricchezza prodotta dal mercato, ma anche e soprattutto della sua distruzione, del suo spreco. E in questa forma, dunque, che un pensiero del dono giunge fino a Lacan, è questo il dono del dono che lo indebita? E questa sarebbe già un'esemplificazione: salteremmo infatti tutta una tradizione della sociologia francese, tradizione in un certo senso unitaria sia quando si esprime nelle forme canoniche della comunità accademica ‑ Lévi‑Strauss per esempio ‑' sia quando assume l'aspetto di un saggismo al limite fra letteratura e ortodossia scientifica ‑ Roger Caillois, Georges Bataille, il Collegio di sociologia ‑, tradizione comunque che già reinterpreta, modifica e stravolge il dettato di Mauss. Ma anche così è in questo debito che Lacan si iscrive. Eppure non del tutto: per la stessa legge del dono c'è resto ed eccedenza, vale a dire c'è di nuovo dono. Giacché il pensiero del dono cui Lacan ci obbliga prende di mira preliminarmente proprio quell'aspetto oblativo, di estinzione del debito, che appartiene al dono nella misura in cui con esso e attraverso esso si vorrebbe sottrarre il soggetto all'arida e fredda legge dello scambio. È  sintomatico allora che un pensiero del dono si colleghi in Lacan fin dall'inizio ad un discorso sull'amore e che l'enunciato che gli fa da battistrada sia quello per il quale «amare è donare ciò che non si ha»[iv]. Ripercorriamo per un attimo la genealogia di Eros quale l'enuncia il mito di Diotima: Eros è figlio di Penia e di Poros. Penia è povertà, assenza di risorse, mancanza radicale; Poros, al contrario, è espediente, astuzia, ricchezza di sapere. Durante il banchetto degli dèi, da cui Penia è esclusa, Poros ubriaco si addormenta. Penia che si aggira nei paraggi lo vede addormentato nel giardino e lo desidera: giace con lui che continua a dormire e dal connubio prende vita Eros. Penia è dunque la desiderante e lo è perché manca, perché appunto è Aporia, la priva di risorse. Ma se amare è donare e, se chi ama, ama solo perché povero, allora ciò che amando si dona è la mancanza. Poros, infatti, quando si sveglierà ‑ e il dormire è qui metafora di un'illusione di pienezza ‑ si scoprirà mancante a propria volta: colui che fino ad allora se la dormiva beato nella sua certezza di sapere si troverà sottomesso alla legge che obbliga a desiderare, a desiderare ciò che non si ha.
L'amore antico, dunque, l'Eros pagano e classico, lungi dall'essere oblativo, lungi dall'estinguere la legge, la conferma. Ma di più: l'Eros è ciò attraverso cui la legge si trasmette. Donare ciò che non si ha, donare la mancanza, come fulcro dell'amore, è comunicare, certo al di fuori dello scambio e al di là di ogni equivalenza, la coazione a desiderare, l'obbligo o il debito che fa di noi dei soggetti e non dei meri enti naturali sprofondati ‑ dormienti ‑ nel proprio sapere cinestetico. Ma qual è allora quell'amore il cui dono avrebbe invece la capacità di sostenere il potere della legge? Non Eros certo. Agape forse? Non credo di discostarmi molto dal dettato lacaniano se arrischio la tesi che il pensiero del dono che Lacan ci dona ci aiuta tra le tante altre cose ad articolare la differenza di struttura che separa l'Eros antico dall'amore cristiano, facendo emergere tale differenza dal nucleo più profondo dell'esperienza soggettiva[v]. E l'amore cristiano, quell'esperienza dell'amore per cui la divinità stessa è amore ed il suo dono è il dono di se stessa attraverso l'incarnazione e la morte, ad avere il potere oblativo, il potere di sospendere la legge. Basta leggere le lettere di Paolo per cogliere in questo amore, non a caso onnipotente, l'oblazione totale delle legge, l'estinzione del debito che il pensiero cristiano iscrive nell'esperienza soggettiva sotto il significante del peccato. Certo Lacan ha buon gioco nel notare che proprio questo dono d'amore che più di ogni altro dono sembra veramente essere fatto per niente ‑ ciò che è diverso, lo si sarà compreso, dal ‘donare niente’ ‑, getta il soggetto nella colpevolezza: colpa non di fronte alla legge, per evocare la parola kafkiana, che anzi qui la legge è estinta, ma colpa di fronte a quest'amore che proprio in nome della sua gratuità assoluta fa sentire il soggetto come un verme, schiacciandolo irrimediabilmente sulla dimensione creaturale[vi].
Secondo Lacan, dunque, se si separa il carattere di gratuità del dono, se si isola, in altri termini, la grazia, dalla catena del debito simbolico, l'effetto sarà quello di impedire l'accesso del soggetto al desiderio, vale a dire di impedire la formazione del soggetto in quanto tale. Giacché si dà soggetto solo nella misura in cui esso venga strappato dalla potenza della legge alla pienezza di un reale dove nulla manca. Perché il desiderio emerga, è necessario che il soggetto venga alla mancanza o che della mancanza gli sia fatto dono. Tutti noi, insomma, prima di divenir soggetti siamo come Poros, addormentati nel sogno di un reale in cui ad ogni bisogno corrisponde un oggetto messo lì a disposizione dalla benignità della natura. Se non ci fosse Penia a coglierci nel sonno ed a renderci gravidi di Eros, non accederemmo mai ad una vita umana.
La differenza fra l'Eros antico e l'Agape cristiana sembra, dunque, questa: Eros è l'effetto del dono di Penia, di colei che manca e perciò desidera; donando il niente che lei stessa è, Penia non solo trasmette ad Eros la mancanza, ma gli mostra insieme di essere a sua volta sottoposta alla legge che ha introdotto la mancanza nel reale. Eros è quindi in debito, deve alla legge ‑ di cui Penia è nient'altro che il rappresentante ‑ la sua esistenza come desiderante, ossia come soggetto. Agape, invece, viene dalla sovrabbondanza, dall'onnipotenza: non dona la mancanza, ma afferma, al contrario, la pienezza del donante. Colui che dona non è a sua volta sottoposto alla legge, è al di là della legge, ed è per questo che, invece di trasmettere un debito, apre, a suo nome e ad esclusivo beneficio del suo nome, un credito infinito. Questo dono, con lo stesso movimento con cui oblitera il reato, rende, cioè, la creatura capace di non peccare, trasforma retrospettivamente il desiderio in colpa: è a partire dal dono, infatti, che il soggetto scopre che es­sere un soggetto alla/della legge, e perciò desiderante, era per lo sguardo onniscrutante del DioAmore la cifra della colpa, il marchio della malvagità.
Non solo, quindi, il dono per Lacan deve rimandare al debito, essere solo parte di una catena di debiti e doni e di doni e debiti, ma deve soprattutto avere, nell'esperienza soggettiva, la funzione di negazione della pienezza del reale, deve cioè introdurre la mancanza nel reale o sottoporre il reale alla legge. Ma per dirla in un modo ancora più appropriato, il dono non introduce tanto la legge nell'esperienza soggettiva, quanto, introducendo la legge nel reale, introduce qualcosa come un soggetto d'esperienza. In altri termini, è la legge che fa emergere il soggetto come colui che è capace di esperienza in generale: prima non esiste soggetto, semmai cinestesia, auto‑affezione, bisogno che ‘si’ sente, squilibrio immediatamente auto‑riferito. L'esperienza (Erfahrung, non Erlebnis) implica, invece, la scomposizione e l'articolazione del reale e, quindi, necessariamente la sua preliminare negazione: se il reale fa da fondo e fondale, luogo che non è un luogo e non ha luogo, ‘chora’ primordiale e mitica, in cui si confondono figura e sfondo, soggetto e oggetto, bisogno e soddisfazione, allora il dono ne è lo sfondamento, vi introduce la béance, l'apertura o, per dirla con Heidegger, la Lichtung.
Non è per nulla casuale che il pensiero del dono di Lacan si colleghi non solo al tema dell'amore, ma anche alla domanda su che cosa sia reale: se scopo del seminario del 1956‑1957 è la messa a fuoco della sindrome fobica ed in particolare della natura dell'oggetto fobico, preliminare sarà, allora, l'interrogazione sullo statuto dell'oggetto in generale ed in special modo sulla sua realtà. Strizzando l'occhio ad Hegel, Lacan, parlando di quell'unica ‘realtà’ che deve interessare un analista, accenna ad una Wirklichkeit simbolica, storica e dialettica, e la mette in contrapposizione con lo Stoff, con un'idea della materia cioè che, per quanto sia letta come impulso, flusso o tendenza, conserva i tratti della sostanza metafisica, permanente ed immutabile, e che nel suo ‘materialismo’ non è altro che il residuo di una tradizione meccanico‑ dinamistica che si riallaccia all'idea dell'Homme‑machine[vii]. La realtà dell'oggetto consiste­rebbe, dunque, nel costituire semplicemente uno dei poli dello scambio fra l'individuo e l'Umwelt o non sarebbe piuttosto l'effetto retroattivo, nachträglich, l'effetto après‑coup, ossia Wirkung, del simbolico? L'oggetto, aggiunge qualche lezione dopo, non è un dato ‘naturale’, bensì ciò che è ‘trovato’ in un'invenzione primitiva e che, quindi, nell'esperienza soggetiva è sempre un oggetto ri‑trovato, l'effetto di una retrouvaille, cioè di un incontro che è insieme un ritrovamento. Incontro, manco a dirlo, sempre mancato ed insoddisfacente[viii].
Realtà è ciò che viene instaurato dal simbolico, dalla potenza della legge. Ma a che prezzo? A prezzo appunto di quello sfondamento del reale di cui parlavo prima. Si comprende, allora, come realtà e reale siano per Lacan termini distinti e da distinguere accuratamente, significando l'uno ciò che, sottoposto al potere della differenza, viene articolato dal e nel discorso, l'altro ciò che, chiuso nell'identità semplice con sé, resta muto ed opaco. Ora è questo passaggio che instaura l'esperienza soggettiva, passaggio dal reale alla realtà, dall'oggeto come corrispettivo del bisogno all'oggetto come oggetto del desiderio umano, a costituire la funzione specifica del dono. Come avviene? L'esempio cui Lacan ricorre è ancora una volta quello freudiano del bambino del rocchetto. Giocando col rocchetto, lanciandolo al di là della cortina del letto in modo da farlo scomparire dal suo campo visivo, facendolo ricomparire richiamandolo a sé, accompagnando questo andirivieni con l'emissione dei suoni Fort‑Da, ripetendo questo gesto infinite volte, il nipotino di Freud aveva trovato il modo di sopportare l'assenza della madre.
Il rocchetto sta al posto della madre assente, ma questa ‑ è dono di Lacan ‑ non è una metonimia: è una metafora, è l'entrata del bambino nell'ordine simbolico o, all'inverso, è il marchio a fuoco che il simbolico imprime sul corpo del soggetto umano. Che cosa voglio dire? Che se il rocchetto può divenire metafora materna non è perché, ad esempio, è un oggetto transazionale, non perché sostituisce l'oggetto‑corrispettivo-del-bisogno ‑ la madre oggetto‑seno ‑, non perché è un rochetto tel quel, di cui quel che si può dire non è altro che il rocchetto è un rocchetto, è un rocchetto, è un rocchetto e così via, ma perché è un rocchetto che non è più un rocchetto, che non è più identico a se stesso, è un rocchetto che si scinde secondo l'opposizione significante Fort‑Da. Nessun rocchetto reale, in altri termini, può essere ‘via’ o può essere ‘qui’, giacche se fosse ‘via’ mancherebbe da ‘qui’ e se fosse ‘qui’ mancherebbe da ‘là’ dove l'ho mandato. Ma nel reale nulla manca o, se si vuole, nulla manca al suo posto.
Il rocchetto reale non c'è più, è stato cancellato; quel che esiste ora, ma nel senso forte dell'ex‑sistere, dell'esser gettato fuori dal reale, è la realtà del rocchetto, la sua articolabiità come rocchetto‑là e rocchetto‑qui. Ma il rocchetto stava al posto della madre, ed allora anche la madre reale ‑ enorme seno che satura il bisogno ‑ non esiste più; se esiste, ex‑siste anch'essa come realtà simbolica. La vocalizzazione ‑ l'emissione dei suoni articolati Fort‑Da ‑ va intesa, secondo Lacan, in senso forte: vocalizzare, ossia dare suono al muto, a ciò che solo attraverso la vocale diviene appunto con‑sonante, è vocare, vale a dire appellare e chiamare[ix]. Vocalizzando, il bambino dà realtà alla madre, la fa venire all'essere; ma, glossa Lacan, l'appello alla presenza avviene sempre su «uno sfondo d'assenza»[x]. Il che vuol dire che, quando è appellata ad esser ‘da, la madre non è per questo meno assente di quando è appellata ad andar ‘fort’. Praesentia in absentia: è lo statuto del significante. È  come se l'assentarsi della madre nel reale, che di per sé resterebbe nell'insignificanza, costituendo anzi un buco nel reale e rendendo impossibile l'emergenza del soggetto[xi], si metaforizzasse in quell'assenza che, per essere un effetto del significante, appunto la sua Wirkung, diviene, per parafrasare Hegel, razionale, vale a dire discorsiva ed articolabile. Ma qual è il rapporto fra questa simbolizzazione arcaica ‑ nulla più di Fort‑Da ‑, che fa emergere la realtà della madre, e il pensiero del dono di Lacan? La madre, certamente, è per il bambino il proto‑donatore: gratuito il suo esser là solo per lui, senza ragione il suo porgere il seno, miracolo d'amore il suo corpo caldo e protettivo, pura grazia quel godimento assoluto ed irripetibile che da lei s'irradia. Ma poiché la realtà della madre emerge solo a partire dall'opera della simbolizzazione, per quanto arcaica e primitiva possa essere ‑ pre‑edipica tanto per rispondere alla Klein ‑, e dal momento che questa simbolizzazione presuppone lo sfondamento di una madre reale, ecco che la proto‑donatrice si trova iscritta nel debito simbolico. Colei che dona è a sua volta in debito, in debito di un dono verso l'altro donatore; essa quindi manca e in quanto manca desidera; allora il suo amore è il dono di ciò che non si ha, il suo dono è il dona‑niente[xii].
Marchiato a fuoco dalla legge del significante, tuttavia il soggetto potrà sempre tentare con un salto all'indietro di ripristinare quella madre reale fonte di un godimento senza pari e il cui amore sembra dotato del potere dell'oblatività. Questo è l'oggetto della retrouvailles, dell'incontro sempre mancato ed insoddisfacente; giacché ormai il soggetto è, volente o nolente, al di là della soglia del significante e l'oggetto del suo desiderio gli si può offrire solo come oggetto irrimediabilmente perduto.
Manca ancora un tassello per completare il discorso del dono di Lacan: in che modo il dona‑niente di una madre simbolica si riverbera nell'esperienza soggettiva o, come si usa dire, sul piano del vissuto? Attraverso l'esperienza della frustazione. Concetto ‘evanescente lo definisce Lacan[xiii]. E con ragione: giacché la frustrazione non è altro che il nome di un passaggio, mitico senza dubbio, dalla sfera del bisogno a quella dell'ordine simbolico, passaggio che, come quello hegeliano dalla natura al mondo spirituale, si ricostruisce sempre a posteriori, retrospettivamente. Sbagliano, quindi, coloro che leggono nella frustazione nient'altro che la privazione di un oggetto reale come oggetto del bisogno: se anche per loro, in fin dei conti, la mancanza del seno vale per il bambino come sot­trazione dell'amore materno, allora la frustrazione ha già cambiato di registro. Se la frustrazione è l'opera della madre simbolica e se la madre simbolica è colei che dona‑niente, allora, più che di frustrazione, occorrerebbe, secondo Lacan, parlare di Versagung, vale a dire di revoca e disdetta. La frustrazione, in altri termini, è la revoca del dono, il passaggio dal dono oblativo, dal dono dona‑tutto al dono dona‑niente[xiv].
La frustrazione è la sottrazione dell'oggetto del bisogno; ma se l'oggetto è già il testimone dell'amore materno, allora quel che il dona‑niente revoca non è solo l'oggetto, ma l'amore stesso. Il paradosso del pensiero del dono di Lacan sta in questo: se amare è donare ciò che non si ha, allora questo dono come dono del niente, disdice, nell'atto stesso del suo darsi, l'amore che ne era la premessa e la promessa, revoca l'amore come al di qua o al di là della legge. La revoca del dono dell'amore è il dono e al posto dell'amore, giusta la parabola del bambino del rocchetto, stanno i segni. Il dono del niente è il dono del significante[xv].
Tutto sta, come è facile capire, ad intendersi sul valore di quel niente che fa di un dono un dono‑di‑niente. Che cos'è il niente, posto che il niente sopporti una domanda che interroga sull'essenza e la sostanza di ciò che è in questione e fa questione? E a questo punto che io vorrei mostrare uno fra i tanti dei debiti in cui s'iscrive il dono di Lacan: mi riferisco ad Heidegger e mi limiterò a un solo esempio. Dalla Seinsfrage o Uber Die Linie che si voglia, cito questo passo: «’L'uomo è il luogo‑tenente del niente’. La frase vuol dire che l'uomo tiene libero il luogo per il tutt'altro rispetto all'ente, in modo tale che nella sua apertura possa darsi qualcosa come l'essere‑presente (l'essere). Questo niente, che non è l'ente, e che però si dà, non è nulla di nullo, ma appartiene all'essere‑presente. Essere e niente non si dànno l'uno accanto all'altro, ma l'uno si adopera per l'altro, in una sorta di parentela di cui appena abbiamo pensato la pienezza essenziale. Né la pensiamo finché tralasciamo di chiederci: che cosa intendiamo con quel ‘ciò (es) che qui ‘si dà’ (gibt)? In quale tipo di dare si dà? In che senso appartiene a questo ‘si dà l'essere e il niente’ ciò che si rimette a questo dono custodendolo? Diciamo alla leggera: si dà. L'essere ‘è’ così poco, quanto il niente. Ma si danno entrambi»[xvi].
Non è mia intenzione quella di tentare un'analisi, non dirò completa, ma neppure parziale di questo passo così complesso e così potente. Tralascerò il testo ed il contesto, le linee e le svolte del pensiero  di Heidegger. Ma come non notare, e restare allo stesso tempo indifferenti, la corrispondenza fra il discorso di Lacan e questa tesi heideggeriana in base alla quale il niente tuttavia ‘si dà’, es gibt? il niente non è l'ente, è nessun ente, è la negazione di ogni ente, la negazione attiva dell'ente in generale, e tuttavia appartiene [xvii]all'essere‑presente, anche se in una modalità che testa tuttora non pensata. Si  dà niente, c'è dono del niente: eppure questo niente non è nulla, questo dono del niente dona l'essere. È  evidente che essere e ente non sono la stessa cosa, che anzi ciò contro cui Heidegger lotta è proprio l'identificazione fra l'essere e l'ente, lo schiacciamento dell'essere sull'ente. Certo l'essere è sempre e soltanto l'essere dell'ente, ciò che fa in modo che l'ente sia l'ente che è, e tuttavia fra essere e ente c'è differenza, l'essere non è l'ente, ne è la provenienza, ciò a partire da cui c'è dell'ente in generale e che, appunto per questo, resta sempre altro dall'ente.
L'essere non è l'ente: ma solo per dirla questa frase non abbiamo forse bisogno del niente? Non abbiamo bisogno che ci sia dato il niente, che ci sia dato niente, non c'è bisogno di un dono‑di‑niente? Il dono del niente è, quindi, quel dono che donando l'essere e la differenza dell'essere dall'ente, dona infine l'ente esattamente non donandolo, anzi disdicendone la pretesa di sostituirsi all'essere. L'uomo, l'esserci per Heideger, non è un ente fra gli altri enti, ma se è un essere‑nel‑mondo, in rapporto continuo con la totalità dell'ente, lo è a partire da quell'apertura d'essere che è il dono del niente.
Così per Lacan: il soggetto sta nella realtà, il suo mondo è popolato di oggetti di ogni tipo; egli può anche misconoscerli interpretandoli come meri oggetti naturali, enti semplicemene presenti; può addirittura prendere se stesso come un ente è può immolarsi di fronte al sacrificio di un ente supremamente essente. Eppure tutto questo non sarebbe possibile se egli non fosse a sua volta l'effetto di un dono dona‑niente. Ma per Lacan il dono dona‑niente è insieme revoca del dono: è così anche per Heidegger? Sembrerebbe di sì: perché se è vero che il dono del niente dona l'essere presente, vale a dire la manifestazione della totalità dell'ente, è anche vero che proprio il niente fa che l'essere non sia l'ente, sia il tutt'altro dell'ente. L'essere allora nello stesso momento in cui si dà come essere-presente, si sottrae, non si dà a vedere, resta nascosto: se l'essere donandosi fa in modo che il nascosto passi nel non nascondimento, tuttavia ‘si’ nasconde e ‘si’ oblia. Il dono del niente come dono d'essere è insieme revoca dell'essere. Dovremmo dire che l'essere è frustrante o che ‘si’ frustra?
Ma a questo punto non so più se quel che dico di Heidegger sia il dono che indebita Lacan o, al contrario, se sia il dono di Lacan che trascina nel suo debito il pensiero di Heidegger. Chi dona e a chi? Chi è in debito e con chi? Ma se un dono apre sempre un debito e se un debito rinvia sempre ad un dono, se non c'è un proto‑donatore, allora queste domande sono indecidibili. E se fosse proprio questo il dono di Lacan? Che il pensiero del dono è indecidibile?



[i] M. Mauss, Essai sur le don, in "Année sociologique", serie II, 1923‑1924, t. I, ri­stampato in Id., Sociologie et anthropologie, Paris 1950, tr. it. in Teoria generale del­la magia e altri saggi, Torino 1965, passim. Di questo scritto di Mauss si presuppongono, per ovvi motivi di spazio, la lettura ed il commento: si dà dunque per noto il rapporto fra Mauss e la sociologia durkheimiana e il concetto centrale di ‘fatto sociale totale’ di cui il dono è un esempio. Per quanto riguarda il debito di Lacan è sintomatico che Claude Lévi‑Strauss, nell'introduzione, ne citi un testo del 1948, L'aggressivité en psychanalise, a proposito dell'eziologia sociale del disturbo psichico. 
[ii]  J. Lacan, Le Séminaire livre IV.  La relation d'objet. 1956-1957, Seuil, Paris 1994, ed. it. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007. All’epoca in cui questo testo fu scritto non esisteva ancora l’edizione francese di Miller né tantomeno la traduzione italiana: utilizzai, come tutti allora, il dattiloscritto.
[iii] Il primo che ha attirato l'attenzione sulla referenza heideggeriana di Lacan a proposito del dono e dell'enunciato lacaniano «Amare è donare ciò che non si ha» è stato Jacques Derrida in Donner le temps 1. La fausse monnaie, Paris 1991, pp. 12-13, testo che si leggerà anche per la questione del dono in generale.
[iv] La frase compare per la prima volta nello scritto La direction de la cure et les principes de son pouvoir del 1958, poi ristampato negli  Écrits (Paris 1966, p. 618) che riprendeva l'analisi sul dono condotta appunto nel 1956‑1957 nel seminario su La relation d'objet; ritorna in seguito prepotentemente nel seminario del 1960‑1961 dedicato al transfert ed in particolare nel commentario del Simposio platonico (Le Seminaire livre VIII. Le transfert, Paris 1991, passim).
[v]   Secondo una linea o strategia di pensiero che era già di Freud: le ipotesi di Totem e tabù, ad esempio, non prendevano le mosse dai dati dell'esperienza clinica?
[vi] D'altronde l'oblazione è sì estinzione, ma anche adempimento della legge. Il biglietto obliterato sull'autobus estingue il debito dell'utente, ma adempie insieme la norma che obbliga al pagamento del servizio.
[vii] «In altri termini questa specie di bisogno che abbiamo di pensare, di confondere lo Stoff o la materia primitiva o l'impulso o il flusso o la tendenza con ciò che è realmente in gioco nell'esercizio della realtà analitica, è qualcosa che non rappresenta nient'altro che un misconoscimento della Wirkilichkeit simbolica» (J. Lacan, La relation d 'objet, cit., p. 33, ed. it. p. 28).
[viii] «La questione è ora quella di articolare la concezione dell’oggetto che è in gioco e, per poterlo fare, occorre vedere attraverso quali giri Freud ci conduca per farci concepire l’efficacia di questa istanza. Siamo già giunti a porre in rilievo, grazie a vari punti ben diversamente articolati in Freud, la nozione che l’oggetto non è mai nient’altro che un oggetto ritrovato a partire da una Findung primitiva, e che quindi che la Wiederfindung, il ritrovamento, non è mai soddisfacente» (Ivi, p. 60, ed. it. p. 55)
[ix] «L'oggetto materno è propriamente chiamato quando è assente - e rigettato, quando è presente, nello stesso registro dell'appello, per esempio con un vocalizzo» (Ivi, p. 67, ed. it. p. 62).
[x] «È il fondo della relazione del soggetto con la coppia presenza-assenza, relazione con la presenza su sfondo d'assenza, con l'assenza in quanto  costituisce la presenza» (Ivi, p. 183, ed. it. p. 182).
[xi] È  lo schema della privazione secondo Lacan in cui l'agente è il padre immaginario, la mancanza dell'oggetto è appunto reale e l'oggetto è simbolico. Non si dimentichi che il nipotino di Freud faceva, in assenza della madre, anche un altro gioco: si metteva davanti allo specchio e faceva in modo di non vedere più la sua immagine riflessa. Assentandosi la madre, si assentava anche lui, ma dal simbolico.
[xii] «Il dono implica tutto il ciclo dello scambio,  in cui il soggetto si introduce in modo tanto primitivo quanto potete supporre. C’è dono solo perché c’è un’immensa circolazione di doni che ricopre tutto l’insieme intersoggettivo» (J. Lacan, La relation d 'objet, cit., p. 182, ed. it. p.  181).
[xiii] «Il momento della frustrazione è un momento evanescente. Sfocia in qualcosa che ci proietta in un altro piano da quello del puro e semplice desiderio» (Ivi,  p. 101, ed. it. p. 97).
[xiv] «La frustrazione in se stessa non è pensabile (...) che come rifiuto di un dono in quanto il dono è   simbolo dell'amore» (Ivi, p. 181, ed. it. p. 180).
[xv] «Il dono si manifesta all’appello. L’appello si fa sentire quando l’oggetto non c’è. Quando c’è , l’oggetto si manifesta eseenzialmente  solo come segno del dono, vale a dire come niente in quanto oggetto di soddisfacimento» (Ivi, pp. 182-183, ed. it. pp. 181-182).
[xvi] M. Heidegger, Zur Seinstrage, pubblicato per la prima volta col titolo Uber Die Linie, come contributo agli scritti in onore di Ernst Jünger per il suo sessantesimo compleanno: Freundschaftliche Begegnungen, Frankfurt a. M. 1955. Ristampato come opuscolo a sé presso lo stesso editore nel 1956 e ripreso poi in Wegmarken nel 1967 presso Klostermann, ristampato poi nel 1976 come IX volume delle opere  complete. Traduzione italiana  a cura di Franco Volpi da quest'ultima edizione, Adelphi, Milano 1987, p. 367.

sabato 25 maggio 2013

Sulla cultura dei grillini pubblicato il 26 marzo 2013 sul sito web qdnapoli

-->

 Sarebbe errato denunciare l’assenza di cultura di Grillo e del Movimento 5 Stelle e credere  di poterne in tal modo disinnescare  gli effetti devastanti sul sistema politico italiano: lo fa già Sgarbi che li chiama capre e li  accusa di non sapere nulla delle bellezze dell’Italia. Una strategia completamente improduttiva e nonostante questo trrasversale agli schieramenti politico-ideologici: infatti non  appartiene, come è il caso di Sgarbi, solo alla destra, ma è una tentazione, quella di accusare i grillini di ignoranza, che alberga soprattutto nelle fila  degli elettori del PD che una lunga opera di sistematica distruzione dei classici del pensiero comunista ha abituato a sostituire alle differenze di classe quelle dei gradi di acculturazione, dimenticando che anche quando sia il più bello del mondo il patrimonio culturale è sempre un’ideologia del vincitore o che la cultura dominante coincide in ogni caso con quella della classe dominante.
La cultura di cui vorrei parlare non è quella  che s’impara a scuola e che nei casi migliori indica la compresenza  di vaste conoscenze, soprattutto letterarie e artistiche - scientifiche molto meno - e di un  gusto abbastanza raffinato per poterle da un lato riconoscerle e dall’altro apprezzarle. Più utile mi sembra un’altra nozione di cultura, quella che la lega all’uso di un medium, termine col quale si indicano due cose intrecciate: il supporto di memoria su cui l’umanità di volta in volta iscrive  e conserva le informazioni non genetiche - papiro, carta, stampa, nastro registrato, microchip - e, unito a ‘mass’, il mezzo di comunicazione di massa con cui l’informazione accumulata viene fruita da quell’invenzione moderna che è la folla. Se è vera la formula che il medium è il messaggio, la cultura allora dipende integralmente dal medium di massa che di volta in volta domina nel panorama  delle tecniche atte alla conservazione e trasmissione di tutte le informazioni necessarie alla specie umana per continuare la sua storia.
Rischia la banalità la notazione che la cultura di chi si riconosce nella tradizione del PCI di cui il PD con tutte le varianti resta nel bene e nel male l’unico erede è integralmente determinata dal medium tipografico. La stampa con la sua chiara disposizione delle lettere sulla pagina bianca, con l’obbligo della lettura da sinistra a destra e dall’alto in basso, è stata il più potente fattore di disciplinamento del pensiero  e ha abituato il lettore moderno all’argomentazione razionale, alla disposizione sintattica, alla visione panoramica, al gusto del particolare unito alla comprensione dell’insieme. È la cultura alta, divenuta oggi la semicultura dei ceti medi riflessivi, di cui parlavo prima, la cultura del libro.
Dalla fine dell’ottocento il medium tipografico viene scalzato dall’apparizione dei media elettrici - telegrafo, telefono, radio, cinema e televisione - che ripristinano attraverso l’uso elaborato della tecnologia il primato della trasmissione orale contro la supremazia della scrittura o piuttosto quello della scrittura ideografica o addirittura geroglifica contro  quella tipografica-alfabetica. Venendo a nostri giorni è il trionfo della tv generalista, ossia della sfera del consumo su quella della produzione, del piacere individuale sul bene collettivo, dell’analfabetismo sul possesso del sapere. Nessuna meraviglia che il rappresentante del medium più potente nella fase storica del capitalismo consumistico sia  assurto alla direzione politica della società italiana.
 Come tutti sanno il medium di Grillo è la rete. Per la verità Grillo incarna il passaggio mediale fra la tv generalista di cui fa un uso indiretto e la rete: in gioventù è stato un esponente della prima per poi, dopo un periodo di latenza, ricomparire nella seconda. Un discorso a parte meriterebbe il fatto che proprio a causa dei mass media il comico - e Grillo ha anticipato le Sabine  Guzzanti, i Roberto Benigni, i Maurizio Crozza ecc. - abbia sostituito la vecchia  figura dell’intellettuale di sinistra e quella più recente del giornalista acculturato. Mentre la tv generalista è profondamente individualista, la rete costruisce comunità orizzontali labili e in gran parte fantasmatiche (quelle dei social network) che hanno bisogno per durare di un’identificazione verticale che stia dentro e fuori il medium. Perché questo? Perché la cultura veicolata dal medium della rete - il cui modello è la schermata di Google - ha la forma della colonna continua. L’argomento  cercato e quindi il sapere corrispondente, non si dispone come in un dizionario o un’enciclopedia, né  si articola  come nelle scritture tipografiche in gerarchie sintattiche, ma si presenta come un elenco, anzi nemmeno un elenco che   - si pensi a quello delle donne di don Giovanni - è comunque discreto,  bensì come una grandezza continua senza scansioni, senza interruzioni e senza differenze. Tutto è eguale sulla superficie dello schermo, tutto vi scorre simile a quel fiume  nel quale secondo Eraclito non si può mai essere bagnati due volte dalla stessa acqua. Ma forse quello di Eraclito è un modo immaginifico per dire che l’essere che noi stessi siamo, una volta   che si trovi deprivato di ogni forma,  è sciorda, che l’essere come puro divenire se ne va tutto in merda. La cultura di Grillo e dei 5 stelle, nella misura in cui è la cultura del medium rete preso senza alcuna precauzione, è una diarrea mediatica, un flusso continuo, un blob  che travolge gli individui dissolvendoli. Niente lo ferma eccetto il farmaco: Grillo da questo punto di vista è la medicina che blocca il flusso e   fa diventare tutti stitici. Intravedo all’orizzonte il trionfo del carattere anale: niente sprechi, niente avventure inutili, niente voli pindarici, solo ordine,  pulizia, astinenza, povertà, decrescita felice. La felicità che sognano tutti i dittatori: quella senza desideri.
 

mercoledì 10 aprile 2013

Sui matrimoni gay

-->
Ad ogni nuovo papa, il fronte laico entra in trepidante attesa: che sia, si augura, la volta buona per avere l’accesso delle donne al sacedorzio, la revoca del celibato per i preti, l’accettazione dell’aborto, quella della contraaccezione, il diritto alla buona morte e dulcis in fundo la celebrazione dei matrimoni gay? Non prima però di aver mandato al rogo tutti i preti pedofili e i loro superiori e di avere in sostanza trasformato con qualche secolo di ritardo - ma non  è mai troppo tardi - il cattolicesimo in protestantesimo: dimenticavo le richieste dei teologi alla Vito Mancuso.
Non ci vuole un profeta biblico per sapere che resteranno delusi: non accadrà nulla di tutto questo. Anzi. Del nuovo papa già si sa ad esempio che all’altro capo del mondo dove  i cardinali sono andati a pescarlo, in Argentina, si era battuto e con durezza contro la legge che introduceva i matrimoni gay. E lo farà anche contro quella che in Francia fa altrettanto. Sulla quale e sulla discussione che aveva provocato era intervenuto qualche tempo fa sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia (30 dicembre 2012) notando fra le altre cose che a prendere posizione contro non era stato soltanto il solito cattolicesimo conservatore e reazionario ma anche l’ebraismo progressista e cosmopolita  e che lo aveva fatto nella persona del rabbino capo di Francia Gilles Bernheim  di cui si citava l’intervento intitolato Mariage homosexuel, homoparentalité et adoption: ce que l’on oublie de dire.
Il dissenso del rabbino capo verte essenzialmente sullo scompiglio che i matrimoni gay apporterebbero nella catena delle filiazioni: una preoccupazione assolutamente comprensibile dal punto di vista ebraico in cui l’appartenenza alla nazione ebraica - per discendenza soprattuto materna - e alla religione ebraica è quasi la stessa cosa e quindi il rispetto delle filiazioni è essenziale, meno per il cristianesimo in cui l’essere tutti figlio di Dio e uniti dal vincolo della fraternità in nome dell’amore produce il trionfo dell’incesto e il groviglio inestricabile delle filiazioni - oltre alle prime due persone della trinità che sono insieme padre e figlio, basterebbe pensare alla Madonna che è contemporaneamente madre di Cristo e sposa  di Dio,  del Padre,  del Verbo, dell’Agnello e dello Spirito Santo, oltre ad essere figlia come tutti gli altri.
Comunque per il rabbino capo il matrimonio non è unicamente il riconoscimento di un amore, è «l’istituzione che articola l’alleanza dell’uomo e della donna con la successione delle generazioni». Il matrimonio si fonda sulla, di più  fa tutt’uno con la, differenza sessuale, non  può diventare quindi un’istituzione asessuata. Per il rabbino capo  il rapporto parentale implica la sessuazione, il termine ‘parente’ non è neutro, è sessuato. Né la parentela può essere ridotta a un mero esercizio di funzioni, soprattutto educative. In altri termini il matrimonio introduce il nuovo nato non solo in una rete di filiazioni certa - un padre  e una madre, i loro genitori e così via all’infinito -, ma anche in una sessuazione anatomica e simbolica univoca.
Per certi versi l’argomentazione del rabbino capo potrebbe ricordare quella analoga di Jean-Claude Milner che in Les penchants criminels de l’Europe démocratique (2003) denunciava l’oblio cattolico e laico-democratico di ciò che definiva con un vezzo heideggeriano la ‘quaduplicità’, cioè l’essere irretito di ciascun essere parlante in un quadrato i cui angoli sono costituiti  da  due copie di termini:   maschile/femminile  e  genitori/figli. Questa verità valevole per tutti lo era in particolare per gli ebrei, per il nome ‘ebreo’ che deve tutto alla sola quadruplicità. Ma la notazione era rivolta contro tutti i tentativi di spiritualizzazione della sessuazione e della trasmissione del nome attraverso la generazione sessuata messi in opera appunto in primo luogo dal cristianesimo cattolico che come suo atto di nascita ha la decisione paolina di ammettere nella chiesa nascente anche i non circoncisi, annullando in tal modo le filiazioni a sfondo corporeo-materiale a favore di quelle  esclusivamente ideal-spiritualistiche. Con la paradossale conseguenza che mentre il presunto particolarismo ebraico è in grado di rappresentarsi la successione illimitata delle generazioni fino al punto di fare degli ebrei la testimonianza più potente dal punto di vista  politico del pastout lacaniano, cioè di un insieme inconsistente e illimitato, l’universalità del cristianesimo che poggia sull’abolizione di qualunque differenza forma un  insieme chiuso e limitato che implica necessariamente l’esclusione del diverso - dell’ebreo per esempio condotta fino allo sterminio.
 Esiste per Milner un vecchio sogno  perverso dell’umanità parlante, rappresentato oggi per esempio dalla setta dei Realiani, che è quello di riuscire a «disgiungere la perpetuazione della specie umana dal contatto sessuale, affrancarla dal vincolo dell’Altro sesso per farne un puro passaggio dallo Stesso allo Stesso, togliere ogni senso alla possibilità che il bambino possa nominare i suoi genitori, fare in modo che il padre non possa nominare fra le donne quella che porta il bambino che ha generato, che la madre non possa nominare fra gli uomini quello del quale ella è incinta, e che i nomi di padre e madre perdano ogni senso eccetto quello contrattuale, convenzionale». Un vecchio sogno che dura dall’abolizione della famiglia  consigliata da Platone perlomeno nell’educazione dei guardiani   e  dalla necessità di sottoporre le scelte sessuali a delle rigide leggi eugenetiche.
La critica della universalizzazione spiritualizzante in quanto prodotto del cattolicesimo e delle ideologie della democrazia moderna non ha in Milner tuttavia nulla a che vedere con lo schiacciamento della sfera del sessuale sul destino anatomico  che è invece la posizione su cui si attesta il rabbino capo per il quale se i teorici della ‘gender theory’  non definiscono gli individui in base al sesso, ma alla sessualità (omo, etero…) è perché «cancellano la dimensione biologica e anatomica che separa due sessi per non vedere che dei generi multipli, dettati dalla cultura e dalla storia». Per Milner non si tratta di identificare la differenza sessuale, la questione cioè dell’Altro sesso, con quella biologica, né di conseguenza di farsi paladino del matrimonio eterosessuale a scopi procreativi, ma di salvaguardare la differenza dell’Altro sesso da ogni riduzione al regno del Medesimo e dello Stesso. Lo dimostra una serie di colloqui  pubblicata di recente (Clartés de tout, de Lacan à Marx, d’Aristote à Mao, Paris 2011) in cui messo di fronte  dall’interlocutore alla differenza abissale che passa fra le tesi di Foucault sul fatto che «le nuove forme ufficializzate tra gay, davano forma, all’epoca, a dei nuovi tipi di legami, distinti da quelli  eterosessuali» e quel che accade oggi «in cui le unioni gay adottano le stesse forme  dei rapporti fra uomini e donne»  quali i «Pacs, le rivendicazioni dell’adozione dei bambini, il matrimonio sul modello eterosessuale», Milner, non solo si dichiara d’accordo, ma di più aggiunge che se l’intento di Foucault nella Storia della sessualità era stato quello di mostrare come nella  società moderna  la sessualità fosse usata a fini di veridificazione e di controllo,  il solo  optare a favore del termine gay contro quello di ‘omosessuale’  era un modo di mettere la sessualità fuori gioco, fare opera di critica della società moderna e costruire nuove forme di legame.
 Il punto cruciale è che mentre il referente di Milner è la psicoanalisi e  in particolare la posizione di Jacques Lacan per la quale ‘non c’è rapporto sessuale’, quello del rabbino capo è il testo biblico da cui si  estrae la tesi  del carattere relazionale dei sessi il cui significato  è  che ‘c’è il rapporto sessuale’. Quindi la cosa più interessante e per certi versi divertente del dibattito sui matrimoni gay è l’appello finale di Ernesto Galli della Loggia nel suo intervento contro i matrimoni gay affinché «personalità autorevoli (per esempio gli psicoanalisti) non abbiano paura di far sentire la loro opinione: anche quando questa non è conforme a quello che appare il mainstream delle idee dominanti».  Ma da dove viene questa   certezza  immarscescibile che gli psicoanalisti non  possano che esser d’accordo con Galli della Loggia e con il rabbino capo? Forse dalle origini ebraiche di Freud? L’aspetto appunto divertente della situazione è che uno psicoanalista ha risposto e nella persona di  Silvia Vegetti Finzi ha dato ragione a Galli della Loggia in nome di una pseudo ortodossia freudiana. Utilizzando come una clava il complesso edipico elaborato da Freud per render conto della necessità sociale che da una parte i soggetti pervengano all’assunzione della loro identità sessuale e dall’altra  alla scelta esogamica del partner, stante il fatto che la sessualità è nell’essere umano originariamente perverso-polimorfa, Vegetti Finzi trasforma una costruzione teorica e un supporto teraupetico in  una  prescrizione superegoica e colpevolizzante in cui la necessità - che diventa obbligo legale - che i genitori siano rigorosamente maschio e femmina è giustificata in nome dei diritti dell’infante: secondo Silvia Vegetti Finzi - che purtoppo non è sola nel campo della psicoanalisi  - il bambino per diventare un buon adulto ha bisogno di entrambe le figure, paterna e materna, distribuite sui due sessi biologici, pena disturbi irreversibili nella evoluzione psicologica.  La psicoanalista come se fosse un medico di base vuole eliminare il sintomo e non si rende conto che col sintomo fa fuori anche il paziente che a lei si era affidato per lenire il peso dell'esistere. Che ne è allora di tutti coloro che sono cresciuti orfani o che sono stati allevati solo dalla madre o solo dal padre, o da un patrigno o da una matrigna, o da nessuno, o ancora da zie, nonni e altre figure parentali ancora? Che ne è di tutti i senza famiglia? C’è per loro un limbo come per i morti prima del battesimo o addirittura prima della nascita di Cristo? O sono tutti condannatìi all’inferno della nevrosi o di quelle brutte cose come la pedofilia, la violenza, il sadismo e perché no l’omosessualità?  Chi non ha fatto l’Edipo è destinato alla perdizione?
Ovviamente no! E lo sapeva anche Freud che se aveva avuto la possibilità di isolare l’Edipo quale luogo di costituzione soggettiva, di normalizzazione-normazione della sessualità, era proprio perché non funzionava mai: se avesse funzionato alla perfezione nessun motivo per accorgersi della sua esistenza così come si accorgiamo di avere dei polmoni solo quando  incominciamo ad affannare. E nonostante questo, cosa mostra l’Edipo? Mostra che il sesso è una costruzione simbolica e non un dato anatomico-biologico. Il piccolo d’uomo non è come il cucciolo di cane: l’esser nato prematuro lo spoglia di ogni apparato istintuale  impedendo ad esempio che la brama sessuale emerga solo nei periodi di fecondità. Essa è invece continua e indipendente dallo sviluppo degli apparati riproduttivi: presente dall’inizio - sessualità infantile - non solo, ma priva oltretutto di un oggetto proprio, specifico perché dato in natura, la pulsione investe tutto allo stessa stregua, parti del corpo, proprio o altrui, corpi maschili e femminili secondo il dettato anatomico, e anche gli oggetti senza sesso  che  essa è in grado di  far diventare egualmente erogeni. Nella misura in cui tale sessualità perversa-polimorfa mette in pericolo la tenuta della civiltà, che per parte sua poggia sulla rinuncia al soddisfacimento pulsionale, la funzione dell’Edipo consiste nel fondare l’identità sessuale e la conseguente scelta del partner non più sul sesso biologico - cosa oramai impossibile - bensì sulla presenza-assenza di un termine dalla natura più simbolica che empirico-reale che Freud individua nel Fallo. Si dimentica che la risoluzione dell’Edipo è dovuta in entrambi i sessi alla castrazione, cioè alla perdita - del tutto  simbolica - del simbolo appunto che rappresenta la potenza della vita:  la castrazione da questo di vista è una mortificazione. Nessuno  è il fallo, tutti ne hanno un fac-simile, un sembiante,  poco servibile. Senza dire poi che il fallo in questione, il fallo cui si deve rinunciare insieme al suo corredo di soddisfacimento, è il fallo materno, ossia un oggetto inevitabilmente immaginario e non reale.
Insomma già in Freud che aveva individuato fra le fasi della sessualità umana quella fallica, distinguendola accuratamente da quella genitale, la ripartizione sessuale era ottenuta attraverso la presenza-assenza di un significante, il fallo, che non aveva più nessun rapporto con la differenza sessuale anatomica. Se fra le prestazioni dell’Edipo c’era in qualche modo anche quella di tentare di far coincidere per quanto possibile l’identità sessuale simbolica col sesso anatomico per assicurare la riproduzione della specie, ciò si è rivelato col tempo del tutto irrilevante. Una cosa invece è certa: in psicoanalisi i sessi restano due, in psicoanalisi non può avere corso la teoria culturalista dei generi sessuali. Essendo il modo primordiale di operare del simbolo quello di dividere per due, in base all’alternativa secca presenza-assenza, + -, una grandezza continua come il sesso, i sessi non possono che essere due. Ciò non esclude effetti rilevanti e divertenti: nell’Ètourdit, Lacan risolve la questione dei sessi in modo definitivo: «diciamo eterosessuale per definizione  ciò che ama le donne, qualunque sia il sesso proprio», ossia è eterosessuale chiunque ami le donne e quindi anche le omosessuali femminili, ossia  le lesbiche. Reciprocamente si dirà omosessuale chiunque ami gli uomini e quindi anche le donne eterosessuali.  Quindi le omosessuali donne sono eterosessuali e le donne eterosessuali sono omosessuali.  Omosessuali allora sono sia gli uomini che le donne, gli uomini omosessuali e le donne eterosessuali,  e sempre sia gli uomini che le donne sono anche eterosessuali,  gli uomini eterosessuali e le donne omosessuali. Sfido chiunque, anche gli psicoanalisti, a continuare a usare le categorie sessuali in modo tradizionale e a pretendere di trarne prescrizioni morali  o criteri normativi di qualunque tipo.
Dal punto di vista psicoanalitico non è importante la distinzione fra eterosessualità  e omosessualità letta in riferimento alla differenza biologica dei sessi, è  decisivo il fatto che ciascun sesso, quale che sia, si confronti con l’Altro sesso, cioè col sesso che incarna l’alterità radicale, quella alterità che in nessun caso può essere rimessa sotto il dominio dello Stesso. Ciascun sesso, messo a confronto con l’Altro sesso, con l’Éteros, è posto di fronte alla mancanza, all’impossibilità del rapporto. Che si dia un’accoppiata  fra uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna, ciò che conta è che non c’è rapporto sessuale appunto perchè l’Altro sarà  sempre incommensurabile con l’uno. Che cos’è l’Altro? L’Altro è ciò che non è uno, e che anche  se fosse molti non potrebbe mai essere contato per uno. L’Altro è ciò che, non essendo uno, non può nemmeno mai essere il tutto, l’uno-tutto o il tutt’uno. Mi rendo conto che in questo modo ci si addentra nei meandri dell’ontologia, ma credere che la psicoanalisi sia una branca della psicologia significa tradirla. Per Lacan il sesso che non è uno, che non si conta mai per uno, che di conseguenza non è un tutto, è quello che si dice donna. Allora l’Altro sesso con cui ogni sesso, uomo e/o donna, omosessuale e/o eterosessuale che sia, si confronta, scoprendo che non c’è rapporto, è quello femminile. È a partire dalla mancanza del rapporto sessuale, del rapporto con l’Altro sesso, con l’Éteros, che la psicoanalisi ripensa l’intera questione dei legami interumani.
Per chiudere, l’unica cosa che da un punto di vista psicoanalitico si può dire sulla questione dei matrimoni gay è che la loro richiesta potrebbe apparire come una domanda di normalizzazione, di schiacciamento del rapporto fra due uomini (?)  sullo schema più bieco dell’eterosessualità, abbandonando la possibilità di pensare nuovi tipi di legame. Più che l’azzeramento della sessualità come paventa il rabbino capo,  si starebbe di fronte ad un trionfo postumo della eterosessualità che veramente diventerebbe l’unico modo di rapporto fra i sessi. Non diversa era la precoccupazione di Pasolini quando prendeva posizione, con scandalo di tutti i progressisti, nei confronti dell’aborto: temeva infatti che la procreazione facile e senza prezzi simbolici da pagare preludesse ad una pratica consumistica del sesso  a tutto vantaggio del primato borghese e conformista dell’eterosessualità.