sabato 8 dicembre 2018



 Pubblico qui un ricordo del sessantotto che avrebbe dovuto far parte di un libro che si è perso per strada e che se mai verrà pubblicato sarà comunque fuori tempo

Prima della rivoluzione

All’inizio del secondo lungometraggio di Bernardo Bertolucci, Prima della rivoluzione (1964), fra la fine dei titoli di testa e il primo fotogramma del film vero e proprio,  compare, scritta su un fondo grigio, una frase attribuita a Talleyrand messa lì come esergo o motto dell’intera storia. La frase, forse mai pronunciata, recita esattamente così: «Chi non ha vissuto negli anni prima della Rivoluzione non sa cosa sia la dolcezza del vivere». Ho sempre avuto la tendenza, un po’ perversa a dire il vero, a leggere questa frase all’incontrario (o forse no). Aiutato in questo anche dalle contraddittorie affermazioni fatte da Bertolucci sul senso da attribuire a questa frase in riferimento al film: in un primo tempo quest’ultimo vuole essere la demistificazione della frase di Talleyrand come se «la dolcezza del vivere  fosse un fatto di dopo la rivoluzione». Poi però Bertolucci si accorge che «quello che si sentiva dentro la frase è la nostalgia, il rimpianto per un’epoca che è finita perché c’è stata la rivoluzione». Anche per Bertolucci la vita borghese, la vita prima della rivoluzione, aveva un sapore dolce di cui non si può non rimpiangere la scomparsa.  Con l’aiuto del Pasolini della Religione del mio tempo, Bertolucci scopre di essere lacerato da una contraddizione insanabile: il desiderio della  rivoluzione è impastato indiscernibilmente con la nostalgia del passato borghese che è esattamente ciò di cui la rivoluzione dovrebbe liberarci distruggendolo[1].
La frase di Talleyrand – non c’è alcun dubbio – è un manifesto controrivoluzionario o almeno contro i misfatti del biennio giacobino. E il film che s’ispira alla Certosa di Parma di Stendhal tende a rispettarne l’intenzione: come il Fabrizio stendhaliano abbandona i   fervori napoleonici e rivoluzionari e rientra nei ranghi reazionari e benpensanti, così quello di Prima della rivoluzione passa dalla militanza comunista e dalla passione quasi incestuosa per la zia al matrimonio borghese e tranquillizzante. È qui, però, che, vedendo e rivedendo il film, mi prende un dubbio che mi spinge a interpretare la frase all’incontrario: la dolcezza del vivere cui fa riferimento riguarda la vita di Frabrizio prima del suo impegno politico e dell’amore  per  Gina o invece è esattamente l’effetto, il risultato,  di queste scelte? Prima della rivoluzione è ambientato nei primi anni sessanta del secolo scorso e parla di una generazione nata durante gli anni quaranta o nel corso della guerra o immediatamente dopo la sua fine.  E che cosa sono stati gli anni sessanta se non il tempo dell’incubazione della rivoluzione, del suo annuncio e della sua imminenza? Il tempo in cui un vecchio mondo crolla e uno nuovo si prepara spingendo al cambiamento delle abitudini e degli stili di vita?
Se oggi, a tanti anni di distanza (nel sessantotto avevo ventidue anni ed ero fra il secondo e il terzo anno di università), tentando di sfuggire al doppio pericolo della memorialistica egocentrica dell’’io c’ero’ e dell’analisi inutile e frettolosa su ciò che è vivo e ciò che è morto, penso agli anni sessanta mi viene in mente solo questa idea: sono stati, è stato il sessantotto usato come parte per il tutto, gli anni di prima della rivoluzione, gli anni in cui la rivoluzione desiderata, sognata e auspicata ha prodotto la dolcezza del vivere, ha portato la vita, come avrebbe detto Benjamin, al suo punto più elevato, un punto che non bisogna mai dimenticare anche se gli eventi successivi, gli anni dopo la rivoluzione, hanno fatto di tutto per smentirlo e per cancellarlo.
Nel sessantotto si è scoperto che i modelli di vita borghesi cui si sembrava destinati per nascita e appartenenza di classe potevano essere abbandonati senza rischio, che si poteva lavorare insieme, far politica o studiare in modo collettivo, e che l’anonimato non era più un problema, che ci si poteva impegnare in un impresa, spendendoci sia tempo che denaro, senza ricavarne nulla che non fosse il semplice piacere di stare insieme agli altri. Il sessantotto è l’uscita dall’asfissia dell’intérieur borghese e la scoperta della strada, la dimensione pubblica che va di pari passo con l’emancipazione personale, l’affermazione   dentro il collettivo del desiderio singolare. La possibilità, insomma, di vivere una vita non fascista, usando questo termine nell’accezione che gli dava Pasolini, ossia non conformista.
Poi vennero le bombe e la dolcezza del vivere scomparve. La rivoluzione (che forse non ci fu neppure: nient’altro che un abbozo, un conato incomposto) fu sconfitta. Ed invece del lavoro del lutto, fu la disperazione. I rivoluzionari dimostrarono ancora una volta che volevano un padrone, un superio ancora più cattivo dei padri contro i quali si erano ribellati. Prese il volto feroce della disciplina   della lotta armata la cui istanza autopunitiva si manifestò dieci anni dopo nell’assassinio di Moro, decisione impolitica che segnò la fine delle Brigate rosse e la fine di tutto. Ma come  comprese ancora una volta Pasolini, assunse anche  il volto solo apparentemente più benevolo di una coazione conformista al godimento, ossia al consumo, il cui dominio non è mai cessato.
 Se fossi stato uno scrittore, e anche bravo, e non il semplice apprendista filosofo che sono, avrei voluto essere l’autore di un’Educazione sentimentale novecentesca il cui perno non fosse però il 1848 ma il ’68 e gli anni immediatamente successivi. Ai miei occhi il romanzo di Flaubert è, fra le tante altre cose, anche la testimonianza più precisa di cosa siano gli anni dopo la rivoluzione, gli anni dopo la sconfitta. Intanto in che cosa consiste l’evento rivoluzionario e in generale qualunque evento storico che, non nel momento in cui accade, ma solo dopo e non sempre, a cose fatte, subisce la trasformazione in qualcosa da celebrare o esecrare perché assurto, come direbbe Ricoeur, al ruolo del ‘tremendum fascinosus’,  allo statuto cioè dell’evento che interrompe la storia già data e ne inaugura una totalmente nuova? E soprattutto come appare a colui che, anche quando l’ha desiderato, nel momento in cui lo vive ne è travolto e sorpassato? Come al suo antenato Fabrizio del Dongo capita di partecipare alla battaglia di Waterloo che segna la fine dei suoi sogni rivoluzionari senza capirci assolutamente nulla e senza neppure accorgersi di aver incontrato lo spirito del mondo a cavallo, così a Fréderic Moreau i feriti che cadevano durante  la rivoluzione di Febbraio, i «morti stesi per terra non avevano l’aria di veri feriti, di veri morti» e tutt’al più gli sembrava di «assistere a uno spettacolo». Non è già qui che inizia, come avrebbe detto Saint-Just, il raggelamento della rivoluzione?
 Molti anni dopo questo è il bilancio che Fréderic fa della rivoluzione di Febbraio: «Mancava la scintilla! Eravate solo dei piccoloborghesi, e i migliori tra voi, dei pedanti! Quanto agli operai, hanno mille ragioni di lamentarsi: (…) non gli avete propinato che belle parole!(…) Insomma questa Repubblica mi pare vecchia». E in lui, alla fine, torna a parlare la voce del padrone: «Forse il Progresso lo può realizzare soltanto una aristocrazia o un uomo solo…L’iniziativa viene sempre dall’alto. Il popolo, lo si voglia o no, è sempre minorenne!».
Spira nel romanzo un senso di chiusura, di definitivo sbancamento, dei sogni e delle aspirazioni che avevano animato i due amici  Moreau e Deslauriers. La desolazione è tale che di tutto ciò che hanno vissuto l’unica cosa degna di ricordo sia un’avventura non consumata con delle prostitute: rievocandola anni  dopo per Fréderic  l’attimo di smarrimento ed impotenza finisce per essere «la cosa migliore che ci sia toccata!», e Deslauriers non può che confermarlo: «Già, forse è proprio così. È la cosa migliore che ci sia toccata!»[2].
Citando la pagina finale dell’Educazione sentimentale nel saggio sulla narrazione, Benjamin vi coglie tutta la distanza che si è aperta nella modernità fra il racconto e il romanzo, tra l’estrazione della ‘morale della storia’ che è lo scopo del primo e l’individuazione del ‘significato della vita’ che è quello del secondo: all’inizio della decadenza dell’età borghese «il significato della vita si è depositato come il fondo nel bicchiere della vita»[3]. Tutta la vita si racchiude in un mazzo di fiori timidamente offerto a delle prostitute in un bordello.
E la dolcezza del vivere? Svanita! Cosa ci resta da sperare? Che ad una nuova svolta del tempo il dopo non smentisca il prima e la dolcezza duri.









[1] Le citazioni di Bertolucci sono prese da A. Marini, Bertolucci, il cinema, la letteratura – Il caso Prima della rivoluzione, Falsopiano edizioni, Alesandria 2012, p. 58.  Il tema è ripreso da Bertolucci in Dreamers (2003)  e questa volta con riferimento esplicito al ’68.
[2] G. Flaubert, L’educazione sentimentale, tr. it di G. Bogliolo, Meridiani, Mondadori, Milano 2000, per le citazioni rispettivamente pp. 358, 456-457, 524.
[3] W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, tr. it. di R. Solmi in Id., Opere complete, a cura di R. Tiedemann e H. Schwppenhäuser, edizione italiana a cura di E. Ganni, vol VI. Scritti 1934-1937, Einaudi, Torino 2004, p. 334.


giovedì 28 giugno 2018


 

Un dialogo fra Alberto Abruzzese e me sullo stato del mondo e il destino dei saperi umanistici



ecco caro bruno una scaletta di ragionamenti che vado inseguendo, tanto per spiegari meglio le intonazioni che ho avuto nel mio affrettato intervento all'istituto di studi filosofici e darti modo di giudicarli
un abbraccio
alberto

 
Sintetizzo il ragionamento per punti e schematicamente: 
1.
il dispositivo occidentale della crisi come innovazione e dunque come catena di crisi periodiche necessarie al soggetto moderno, alla sua rigenerazione, si è concluso nella condizione di una catastrofe permanente;
2.
questa condizione terminale consiste nel rapido salto dal capitalismo storico a ciò che viene detto capitalismo finanziario per dire l’avvento di specifiche forme di potere che non si riesce a nominare altrimenti che con parole vuote;
3.
le piattaforme digitali, l'abitare in rete, sono al tempo stesso strumento e rivelazione di tale passaggio d'epoca;
4.
a noi che in maggioranza docenti universitari, viene dato il ruolo di formare professionisti in grado di "lavorare" in una dimensione tecno-scientifica che si è tanto auto-rigenerata all’interno dei propri mezzi strumentali da raggiungere un progresso più che mai esponenziale;
5.
poco o male o inutilmente è servito l'umanesimo che alcuni di noi – interessati a un pensiero critico delle forme sociali (dunque politico) – hanno messo in gioco nella formazione di ceti professionali da destinare al campo delle istituzioni civili, così come della riproduzione di nuovi formatori;
6.
credo sia ormai chiaro quanto proprio dal fallimento della tradizione umanista, in quanto insieme di valori e di pratiche, sia dipesa e dipenda la profonda crisi dei ceti dirigenti, la loro incapacità di agire sulla complessità sociale del mondo presente; l'umanesimo (comprese le sue stesse componenti anti-umaniste) non ha funzionato, ha cessato di funzionare, perché ha rivelato la propria natura reale;
7.
la catastrofe del mondo umano e della natura umanizzata (sempre più velocizzata dal progresso tecno-scientifico) mi pare riscontrabile nelle pratiche del nostro lavoro intellettuale, caratterizzato da una spirale autoreferenziale, da una sorta di evasione nel compiacimento del nostro stesso pensiero, nella continua ricerca di una verità "inesauribile" e che tuttavia diamo di continuo “esauribile”;
8.
una prassi, la nostra, tragicamente lenta e ellittica che contrasta con la rapidissima trasformazione di ogni oggetto, forma e contenuto dell'esistenza umana; 
9.
e invece non c'è più tempo: dato che in gioco c'è più che mai la morte e la sofferenza della carne umana (unica “verità” inemendabile è invece il dolore psicofisico della persona ... il vivente tra carne, oggetto, e soggetto);
10.
non possiamo tuttavia esimerci – come stiamo ancora continuando a fare, sempre in nome della nostra stessa qualità di pensiero – dal tentare qualcosa di concreto che riguardi, ora e subito, ciò che più ci avvicina all'altro da noi e cioè il nostro stesso dolore;
11. nessun altruismo, ma semmai un egoismo estremo: docente e discente accomunati da una medesima necessità di sopravvivenza; insieme per fondare una auto-formazione finalmente in grado di praticare uno scarto di posizione rispetto al nostro ruolo storico. Senza alcuna nostalgia di inquadramento istituzionale
12.
credo che innanzi tutto vada affrontato il nodo più cruciale e rivelatore sempre più emerso con massima chiarezza nel gigantesco scarto tra le tradizioni dell'Umanesimo e le innovazioni tecno-scientifiche: gli attuali regimi di formazione, così evoluti sul piano delle tecnicalità professionali, continuano a "servirsi" delle vecchie vocazioni del soggetto moderno (quella congiunzione tra vocazione e professione che Weber ha individuato nella nascita del capitalismo occidentale;
13.
dovremmo trovare modi di auto-formazione in cui rielaborare una idea di vocazione adeguata al mondo presente delle professioni: prendersi a carico le "persone" gettate in una complessità insostenibile;
14.
le reti digitali sono l’unico territorio in cui potere sperimentare forme di resistenza allo stato di necessità e alla volontà di potenza della natura umana dentro un orizzonte post-umano e dunque post-antropocentrico. 
post scriptum ad evitare ogni fraintendimento sulla natura del digitale: il mondo in rete non è assolutamente "nuovo" ma funziona da potenza rivelatrice del mondo come è sempre stato.

Caro Alberto, ecco un abbozzo di risposta

1) Da quando la storia ha cessato di essere inchiesta e curiosità – nei confronti dei diversi, barbari e stranieri, e nei confronti di  se stessi, come eravamo e non siamo più, come avremmo potuto essere se…, come non essere più quello che siamo stati e siamo ancora (se ne fa ancora di questo genere, ma nelle periferie e ai margini – è il caso del miglior Foucault) – ed è diventata tempo orientato, teleologia, essa è catastrofica. Per datare la cosa lo è dal momento in cui una religione orientale – il cristianesimo ebraico – ha colonizzato l’occidente. A partire dal cristianesimo la storia ha un fine e inevitabilmente una fine, il tempo è ridotto, viviamo sempre nei tempi penultimi, ossia in tempi catastrofici, siamo perennemente in transito. Dopo la caduta di ogni ipotesi provvidenzialistica, che Benjamin datava nel barocco, o si è tentato di laicizzare, umanizzare, il telos, o, dimostratasi falsa anche questa alternativa, lo si è abolito dando spazio al nichilismo. L’ultimo tentativo di risposta che si muovesse ancora nella prospettiva aperta dal messianesimo ebraico-cristiano è stata quella di Benjamin: la catastrofe permanente è anche la rivoluzione permanente. Non esiste il bersaglio verso le quali le forze progressiste si dirigono inevitabilmente e che altrettanto inevitabilmente colpiranno, esiste lo scopo – la redenzione della vita creaturale, ciò che tu chiami corpo sofferente – che coincide col tragitto, che fa tutt’uno con la transizione. I tempi penultimi si infinitizzano e in ogni momento di questo tempo interminabile fa capolino il Messia che di volta in volta salva  ammassi  di macerie umane.


Che cosa si apre alla fine del tempo storico, del tempo orientato?  La spazialità, oggi nella forma delle reti.

2)  Qui bisogna fare un salto teorico: il capitalismo è dall’inizio, ossia da sempre, una macchina astratta schizofrenica (Tausk e Deleuze). Che vuol dire: a) macchina non nel senso dell’utensile o strumento inerte che per mettersi in movimento presuppone la mano ed il cervello, ma in quello della cibernetica, ossia dell’autogoverno e dell’autoregolazione. La macchina come innesto di due o più macchine: quella che produce i flussi e quella che li consuma, quella che li libera  e quella che li blocca, quella che  li spezzetta e quella che li ricompone secondo  logiche diverse da quelle di partenza, la macchina del desiderio e la macchina  del godimento, la macchina che accumula e quella che dilapida. In quanto ai flussi non c’è numero chiuso: dalle merci ai  liquidi seminali, dai capitali alla forza lavoro, passa di tutto. b) astratta nel senso di non essere vincolata a nessuna configurazione empirica: forme statuali, assetti societari, identità sociologiche, strutture psichiche. Astratta nel senso del concetto marxiano del lavoro astratto, del lavoro tout court, in cui si dissolvono le differenze  empiriche dei lavori concreti, scompaiono le incidenze degli strumenti sulla qualificazione del lavoro, si aboliscono i  tempi vissuti per la sua esecuzione a regola d’arte. Il capitalismo ha dissolto la classe borghese su cui pure si è fondato all’inizio della sua storia, può fare a meno dello stato nazionale che è stata la sua incubatrice, ha scompaginato la classe operaia perlomeno nelle sue manifestazioni storico-sociologiche più note. c) schizofrenica nel senso di spaccare l’intero che di volta in volta costruisce e in cui sembra rinchiudersi. Il capitalismo è trasfrontaliero, un invasore clandestino di terrritori altrui, nomade e migrante. Con la forza di un terremoto disegna una linea di frattura nei territori che conquista, li divide e li separa. È deterritorializzante.
Il che non esclude, come è dimostrato dal momento storico che stiamo vivendo, che possa, di fronte al rischio dell’autodistruzione innescato dalla stessa liberazione turbolenta del flussi che lo caratterizza, chiudersi momentaneamente su se stesso, riterritorializzarsi, ripristinando la forma originaria dello stato, lo Ur-staat, ossia la forma dispotica dello stato. Ma solo per il tempo necessario a permettere la nuova accumulazione. Poi riparte. 


3) Da questo punto di vista il capitale è in primo luogo spazio, territori sempre in via di deterritorializzazione, spazi che si dividono da porzioni più vaste e si aggiungano ad altre per formare insiemi nuovi, articolazione e disarticolazione. Qui c’è il secondo salto teorico: bisogna valorizzare in pieno la tesi freudiana secondo la quale lo spazio è la proiezione esterna dell’estensione della psiche. D’altronde la prima rete è stata quella neuronale con i suoi neuroni passaggi e i suoi neuroni barriere: esattamente una macchina desiderante nel senso di Deleuze. La psiche è estesa, ossia si dà in esteriorità, è esteriore a sé: inconscia. Non sa di sé e non sa quel che fa, ma proietta questa esteriorità nello spazio che da questo punto di vista è integralmente psichico senza diventare psicologico, ossia senza aver bisogno di ripiegarsi su se stesso nella forma della coscienza di sè.  Sia  le reti, sia il capitale, che non è altro che l’insieme complesso delle reti (Deleuze le ha chiamate rizoma) su cui viaggiano i flussi informativi e no (o tutti i flussi sono di per sé informativi?) sono allora la proiezione esterna, spaziale, della psiche. Ciò dovrebbe dare adito a ricerche finalmente fondate di psicopolitica.

4) Se l’umanesimo coincide con la libertà assicurata dal primato della coscienza, allora esso è spirato senza un  gemito con la spazialità di psiche. A meno che un ‘più reale umanesimo’ (Benjamin) non sia possibile a partire proprio dallo spazio psichico e dalle reti inconscie, catene neuronali o catene significanti. Un umanesimo che presupponga la critica radicale dell’uomo (Foucault) e di ogni antropologia  generale, di ogni sapere preventivo e di  ogni schema anticipatore. Un umanesimo reale, che faccia cioè i conti col reale, con l’inemendabile, il non idealizzabile, il vincolo, il patico irriducibile, il godimento allo stato brado, il dolore irrimediabile, la ‘sofferenza inutile’ (Levinas).

5) Da tempo penso – e non solo perché sono in pensione: lo pensavo anche prima – che i saperi di cui siamo   i soggetti (lo siamo sempre, in  pensione o no) siano obbligati   ormai ad uscire dall’università o a restarvi  ma in una posizione di estimità, in esteriorità interna. E ciò per due ragioni: sia perché quel che di umanistico nel senso tradizionale questi saperi ancora pensavano di custodire e tramandare, è, come si è visto prima, morto, e di conseguenza viene espulso dall’università come cosa inutile e improduttiva, sia perché il ‘più reale umanesimo’ di cui dovremmo essere i promotori è irricevibile dallo stato odierno dell’archvio dei saperi  trasmissibili, ossia accademici. La verità è che l’intero settore della scienze umane – antropologia, sociologia, psicologia ed economia più la storia e per alcuni aspetti anche la filosofia – è entrato al servizio della biopolitica. L’umanesimo, nell’università, non ha più nulla di umano.

5) Il modello del Beruf non esiste più: lo si vede dalla politica che non è più una professione né una confessione di fede.

 
6) Da oggi si lavora nelle reti cercando di praticare una connessione disconnessa: un pensiero-flusso.