Pubblico qui un ricordo del sessantotto che avrebbe dovuto far parte di un libro che si è perso per strada e che se mai verrà pubblicato sarà comunque fuori tempo
Prima della
rivoluzione
All’inizio del secondo lungometraggio
di Bernardo Bertolucci, Prima della
rivoluzione (1964), fra la fine dei titoli di testa e il primo fotogramma
del film vero e proprio, compare,
scritta su un fondo grigio, una frase attribuita a Talleyrand messa lì come
esergo o motto dell’intera storia. La frase, forse mai pronunciata, recita
esattamente così: «Chi non ha vissuto negli anni prima della Rivoluzione non sa
cosa sia la dolcezza del vivere». Ho sempre avuto la tendenza, un po’ perversa
a dire il vero, a leggere questa frase all’incontrario (o forse no). Aiutato in
questo anche dalle contraddittorie affermazioni fatte da Bertolucci sul senso
da attribuire a questa frase in riferimento al film: in un primo tempo
quest’ultimo vuole essere la demistificazione della frase di Talleyrand come se
«la dolcezza del vivere fosse un fatto
di dopo la rivoluzione». Poi però Bertolucci si accorge che «quello che si
sentiva dentro la frase è la nostalgia, il rimpianto per un’epoca che è finita
perché c’è stata la rivoluzione». Anche per Bertolucci la vita borghese, la
vita prima della rivoluzione, aveva un sapore dolce di cui non si può non
rimpiangere la scomparsa. Con l’aiuto
del Pasolini della Religione del mio
tempo, Bertolucci scopre di essere lacerato da una contraddizione
insanabile: il desiderio della
rivoluzione è impastato indiscernibilmente con la nostalgia del passato
borghese che è esattamente ciò di cui la rivoluzione dovrebbe liberarci
distruggendolo[1].
La frase di Talleyrand – non c’è
alcun dubbio – è un manifesto controrivoluzionario o almeno contro i misfatti
del biennio giacobino. E il film che s’ispira alla Certosa di Parma di Stendhal tende a rispettarne l’intenzione: come
il Fabrizio stendhaliano abbandona i
fervori napoleonici e rivoluzionari e rientra nei ranghi reazionari e
benpensanti, così quello di Prima della
rivoluzione passa dalla militanza comunista e dalla passione quasi
incestuosa per la zia al matrimonio borghese e tranquillizzante. È qui, però,
che, vedendo e rivedendo il film, mi prende un dubbio che mi spinge a
interpretare la frase all’incontrario: la dolcezza del vivere cui fa
riferimento riguarda la vita di Frabrizio prima del suo impegno politico e
dell’amore per Gina o invece è esattamente l’effetto, il
risultato, di queste scelte? Prima della rivoluzione è ambientato nei
primi anni sessanta del secolo scorso e parla di una generazione nata durante
gli anni quaranta o nel corso della guerra o immediatamente dopo la sua
fine. E che cosa sono stati gli anni
sessanta se non il tempo dell’incubazione della rivoluzione, del suo annuncio e
della sua imminenza? Il tempo in cui un vecchio mondo crolla e uno nuovo si
prepara spingendo al cambiamento delle abitudini e degli stili di vita?
Se oggi, a tanti anni di distanza
(nel sessantotto avevo ventidue anni ed ero fra il secondo e il terzo anno di
università), tentando di sfuggire al doppio pericolo della memorialistica
egocentrica dell’’io c’ero’ e dell’analisi inutile e frettolosa su ciò che è
vivo e ciò che è morto, penso agli anni sessanta mi viene in mente solo questa
idea: sono stati, è stato il sessantotto usato come parte per il tutto, gli
anni di prima della rivoluzione, gli anni in cui la rivoluzione desiderata,
sognata e auspicata ha prodotto la dolcezza del vivere, ha portato la vita,
come avrebbe detto Benjamin, al suo punto più elevato, un punto che non bisogna
mai dimenticare anche se gli eventi successivi, gli anni dopo la rivoluzione, hanno
fatto di tutto per smentirlo e per cancellarlo.
Nel sessantotto si è scoperto che
i modelli di vita borghesi cui si sembrava destinati per nascita e appartenenza
di classe potevano essere abbandonati senza rischio, che si poteva lavorare
insieme, far politica o studiare in modo collettivo, e che l’anonimato non era
più un problema, che ci si poteva impegnare in un impresa, spendendoci sia
tempo che denaro, senza ricavarne nulla che non fosse il semplice piacere di
stare insieme agli altri. Il sessantotto è l’uscita dall’asfissia dell’intérieur borghese e la scoperta della
strada, la dimensione pubblica che va di pari passo con l’emancipazione
personale, l’affermazione dentro il collettivo del desiderio singolare.
La possibilità, insomma, di vivere una vita non fascista, usando questo termine
nell’accezione che gli dava Pasolini, ossia non conformista.
Poi vennero le bombe e la dolcezza
del vivere scomparve. La rivoluzione (che forse non ci fu neppure: nient’altro
che un abbozo, un conato incomposto) fu sconfitta. Ed invece del lavoro del
lutto, fu la disperazione. I rivoluzionari dimostrarono ancora una volta che
volevano un padrone, un superio ancora più cattivo dei padri contro i quali si
erano ribellati. Prese il volto feroce della disciplina della lotta armata la cui istanza
autopunitiva si manifestò dieci anni dopo nell’assassinio di Moro, decisione
impolitica che segnò la fine delle Brigate rosse e la fine di tutto. Ma
come comprese ancora una volta Pasolini,
assunse anche il volto solo
apparentemente più benevolo di una coazione conformista al godimento, ossia al
consumo, il cui dominio non è mai cessato.
Se fossi stato uno scrittore, e anche bravo, e
non il semplice apprendista filosofo che sono, avrei voluto essere l’autore di
un’Educazione sentimentale novecentesca
il cui perno non fosse però il 1848 ma il ’68 e gli anni immediatamente
successivi. Ai miei occhi il romanzo di Flaubert è, fra le tante altre cose,
anche la testimonianza più precisa di cosa siano gli anni dopo la rivoluzione,
gli anni dopo la sconfitta. Intanto in che cosa consiste l’evento
rivoluzionario e in generale qualunque evento storico che, non nel momento in
cui accade, ma solo dopo e non sempre, a cose fatte, subisce la trasformazione
in qualcosa da celebrare o esecrare perché assurto, come direbbe Ricoeur, al
ruolo del ‘tremendum fascinosus’, allo
statuto cioè dell’evento che interrompe la storia già data e ne inaugura una
totalmente nuova? E soprattutto come appare a colui che, anche quando l’ha
desiderato, nel momento in cui lo vive ne è travolto e sorpassato? Come al suo
antenato Fabrizio del Dongo capita di partecipare alla battaglia di Waterloo
che segna la fine dei suoi sogni rivoluzionari senza capirci assolutamente
nulla e senza neppure accorgersi di aver incontrato lo spirito del mondo a
cavallo, così a Fréderic Moreau i feriti che cadevano durante la rivoluzione di Febbraio, i «morti stesi
per terra non avevano l’aria di veri feriti, di veri morti» e tutt’al più gli
sembrava di «assistere a uno spettacolo». Non è già qui che inizia, come
avrebbe detto Saint-Just, il raggelamento della rivoluzione?
Molti anni dopo questo è il bilancio che Fréderic
fa della rivoluzione di Febbraio: «Mancava la scintilla! Eravate solo dei
piccoloborghesi, e i migliori tra voi, dei pedanti! Quanto agli operai, hanno
mille ragioni di lamentarsi: (…) non gli avete propinato che belle parole!(…)
Insomma questa Repubblica mi pare vecchia». E in lui, alla fine, torna a
parlare la voce del padrone: «Forse il Progresso lo può realizzare soltanto una
aristocrazia o un uomo solo…L’iniziativa viene sempre dall’alto. Il popolo, lo
si voglia o no, è sempre minorenne!».
Spira nel romanzo un senso di
chiusura, di definitivo sbancamento, dei sogni e delle aspirazioni che avevano
animato i due amici Moreau e Deslauriers.
La desolazione è tale che di tutto ciò che hanno vissuto l’unica cosa degna di
ricordo sia un’avventura non consumata con delle prostitute: rievocandola anni dopo per Fréderic l’attimo di smarrimento ed impotenza finisce
per essere «la cosa migliore che ci sia toccata!», e Deslauriers non può che
confermarlo: «Già, forse è proprio così. È la cosa migliore che ci sia
toccata!»[2].
Citando la pagina finale dell’Educazione sentimentale nel saggio sulla
narrazione, Benjamin vi coglie tutta la distanza che si è aperta nella
modernità fra il racconto e il romanzo, tra l’estrazione della ‘morale della
storia’ che è lo scopo del primo e l’individuazione del ‘significato della
vita’ che è quello del secondo: all’inizio della decadenza dell’età borghese
«il significato della vita si è depositato come il fondo nel bicchiere della
vita»[3].
Tutta la vita si racchiude in un mazzo di fiori timidamente offerto a delle
prostitute in un bordello.
E la dolcezza del vivere? Svanita!
Cosa ci resta da sperare? Che ad una nuova svolta del tempo il dopo non
smentisca il prima e la dolcezza duri.
[1]
Le citazioni di Bertolucci sono prese da A. Marini, Bertolucci, il cinema, la letteratura – Il caso Prima della rivoluzione,
Falsopiano edizioni, Alesandria 2012, p. 58.
Il tema è ripreso da Bertolucci in Dreamers
(2003) e questa volta con riferimento
esplicito al ’68.
[2]
G. Flaubert, L’educazione sentimentale,
tr. it di G. Bogliolo, Meridiani, Mondadori, Milano 2000, per le citazioni
rispettivamente pp. 358, 456-457, 524.
[3]
W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni
sull’opera di Nikolaj Leskov, tr. it. di R. Solmi in Id., Opere complete, a cura di R. Tiedemann e
H. Schwppenhäuser, edizione italiana a cura di E. Ganni, vol VI. Scritti 1934-1937, Einaudi, Torino
2004, p. 334.