1) Come non era difficile
prevedere, il dopo Berlusconi si presenta peggiore di ciò che lo aveva
preceduto. Dopo il primo clown, in fin dei conti simpatico (almeno a distanza),
che ci ha fatto sorridere per vent’anni con le sue gaffes, i suoi amori da strapazzo,
le sue manie di grandezza, i suoi trucchi per ingannare l’inesorabile vecchiaia
e schivare la più ancora inevitabile morte, le sue capriole per restare a galla, le sue illusioni da viveur
e da tombeur de femmes, e che però in
tal modo concentrava su di sé l’angoscia che come un fiume in piena invade la
vita contemporanea; dopo il mite e sobrio Mario Monti che si è rivelato alla fine l’altra faccia della coppia
clownesca, il perfido Bianco col suo cappello a punta, severo
e autoritario, sempre pronto a
trattare male l’altro, l’incapace, pasticcione e stralunato (abiti fuori
misura e scarpe giganti) Augusto (Berlusconi); dopo questi due insomma, è venuto il terzo clown che non fa
ridere nessuno, che l’angoscia l’incrementa invece di attenuarla e che, dopo averla generata e diffusa, ne
addita anche i responsabili affinché siano sterminati. Non credevo che in concomitanza con la scomparsa delle classiche nevrosi
fosse più possibile incontrare delle autentiche denegazioni (Verneinung), ma Grillo mi ha rapidamente
convinto del contrario: come Bossi alla sua epoca, sostenendo di aver
incanalato la violenza armata dei popoli del nord nell’alveo costituzionale,
affermava in realtà la sua predilezione
per l’uso dei fucili, così Grillo nella sua - che per disgrazia è anche
la nostra -, ripetendo che se non ci fosse il Movimento 5 stelle in Italia ci sarebbero i nazisti come in Grecia, dichiara la sua
affinità profonda con il nazionalsocialismo (cosa già notata e confermata
oltretutto dalla presa di posizione di Riccardo Pacifici).
Che fra il primo e l’ultimo clown vi sia continuità,
anche se non identità, è dimostrato dal fatto che Grillo è stato in gioventù un
giullare di quello stesso medium di massa - la tv generalista - di cui l’altro
è stato l’inventore (prima delle tv di Berlusconi la televisione in Italia non
era ancora un vero e proprio mass medium). Da questo punto di vista rappresenta
un passaggio mediale, che se non è ancora definibile come epocale, tuttavia ci
va molto vicino: dalla tv generalista alla rete. E - perché negarlo? - ai
caratteri potenzialmente totalitari del nuovo mezzo di comunicazione che
se può venir
interpretato come lo strumento per
la realizzazione della cosiddetta ‘democrazia diretta’ è proprio perchè sembra
poter fare a meno della distanza,
della mediazione e della
differenza. Non si tratta però di ripetere lo stucchevole elogio della democrazia parlamentare
rappresentativa con tutto il suo corredo di deleghe, libertà di mandato e
lungaggini procedurali, quanto di
denunciare il principio sostanziale che le sorregge entrambe, democrazia
rappresentativa e democrazia diretta: la sovranità del popolo. È questo
concetto olistico di ‘popolo’, del popolo come totalità chiusa e compatta a rendere totalitarie le forme
moderne del governo democratico:
quando Grillo dice che vuole il cento per cento dei suffragi, dice di essere il
popolo, di rappresentare tutto il popolo o il popolo come un tutto. Quelli che
non votano lui/con lui, sono moltitudine dispersa, vagamente criminale, perché
non si riconoscono parte del tutto del popolo. Dal momento che anche la
democrazia parlamentare rappresentativa può, come si riconosce dappertutto,
trasformarsi in democrazia plebiscitaria (ancora Berlusconi), in ‘populismo’,
non c’è differenza sostanziale fra una sovranità del popolo che il popolo «esercita nelle forme e nei limiti
della Costituzione» e una sovranità esercitata in modalità ‘diretta’, attraverso la rete, col mandato imperativo e con un esecutivo -
vale a dire il governo - ridotto a braccio armato del legislativo. Anche qui,
quando Grillo dice che non gli
piace la parola ‘governo’, è perché si pone contro la divisione dei poteri e si
rifiuta di accettare l’autonomia dell’esecutivo dal legislativo: il suo modello
è la Convenzione giacobina in cui
il legislativo era, con
scandalo di Kant, immediatamente governo e faceva leggi ad personam immediatamente esecutive,
che mandavano cioè subito alla ghigliottina senza passare per un tribunale - quelli italiani che,
loro, ce li mandano con processi
che definire ‘regolari’ è un eufemismo,
erano ancora di là da venire.
Mentre Bersani non sa come
trattare i 5 stelle e oscilla fra la tentazione di considerarli dei fascisti -
un fascismo-movimento, non certo o non ancora un fascismo-regime - e quella di prenderli - D’alema
docet - come una costola impazzita della sinistra, il primo clown ha capito
subito di che cosa si trattava: o
una diramazione italiana della setta di Scientology o la reincarnazione del
dittatore dello stato libero di Bananas. Solo un clown riconosce un altro clown.
2) Come ho scritto più volte la
democrazia nella sua accezione classica che è poi l’unica accettabile, è
una forma di governo.
L’opposizione fra la democrazia e
il governo nei termini della modernità è foriera soltanto di forme totalitarie
dello stato, di destra o di
sinistra poco importa. Alla tesi della democrazia come governo si accompagna
infatti quella per cui c’è differenza fra governati e governanti, una differenza reale dovuta al fatto
che il popolo non è un/il tutto, ma solamente una parte, che esso elegge,
laddove la forma di governo sia quella democratica, i suoi governanti o attraverso il suffragio universale o
attraverso il sorteggio, per
affidargli il compito di guidare la nave nella bonaccia e nella tempesta, sulle
rotte sicure o nel mare aperto, quando si conosca già l’approdo o nel caso che si viaggi al buio. Pronto
al prossimo giro a cambiare la
classe di governo se si fosse rivelata poco esperta delle leggi della navigazione
e senza escludere nemmeno, come diceva Nietzsche, che alle volte navigare bene
è far naufragio.
Se al contrario si crede
fermamente che sia il popolo intero a governare, vale a dire a governarsi,
e chi governa è considerato una
parte del popolo cui si è
delegato - delegato anche se dato
in modo diretto: c’è sempre delega - il momentaneo esercizio del potere, lo
sgomento è inevitabile. Se governa male - e si governa sempre male: governare
è, diceva Freud, una delle tre professioni impossibili, le altre due essendo
insegnare e analizzare -, la soluzione pià semplice e immediata è quella
moralistica: quella parte del popolo ha tradito per interesse personale o di gruppi organizzati, si è staccata
dal popolo di cui faceva parte ed è caduta quindi allo stato di moltitudine
dispersa, potenzialmente se non realmente criminale. Sono zombi e vanno
eliminati. Ma alla lunga questa
soluzione non è sufficiente: se è il popolo che governa se stesso e si governa
così male l’attacco scriteriato a chi governa ricade come un boomerang su chi
si è fatto governare. Come Edipo,
il vero colpevole è lui: accade allora che la depressione e la
malinconia s’impadroniscano del popolo che, stremato, non può fare altro che abbandonarsi al primo demagogo di passaggio, al primo dittatore
disponibile. E ce n’è sempre
qualcuno pronto alla bisogna.
Se la democrazia come forma di governo presuppone che il
popolo sia parte, implica anche che vi siano altre parti della polis potenzialmente in conflitto
fra di loro. Implica in più che le
parti non siano soltanto quel che abbiamo chiamato fino a qualche tempo fa ceti
e classi, ma anche i sessi ed in ultima analisi le singolarità qualunque che
noi tutti siamo, anche noi in fin
dei conti parti della città non
ricomponibili in un insieme chiuso, non destinati a fare uno.
3) La via di Bersani è una via
stretta. Ma le vie della navigazione sono senpre strette, si naviga sempre fra Scilla e Cariddi,
e la virtù del nocchiero sta nella capacità di sfidare la sorte tenendo sempre
la barra a dritta. Sfidare la sorte, ossia andare a vedere il rilancio
dell’avversario convinti che sia un bluff ma pronti anche a perdere tutto. Non
conta chi lo farà per primo, se Bersani o Renzi o qualcun’altro che non è ancora comparso all’orizzonte, conta che
finalmente nella storia del partito della sinistra italiana, vale a dire nel
partito nuovo di Togliatti, si tagli con l’eredità stalinista, quella per cui il
partito non è la prefigurazione dello Stato o del non stato dopo la rivoluzione, ma è il nerbo
dello stato attuale, dello stato quale è.
Sono settant’anni che il partito della sinistra italiana, ritenendosi
già stato, partito-stato, partito-istituzione, subordina gli interessi di una parte a quelli presunti dell’insieme, mette al primo posto gli
interessi del paese intero, si sacrifica in nome dell’interesse generale. So
che dopo l’89 ciò che sopravviveva del PCI ha dovuto espiare la sudditanza
dall’Urss e quindi l’accusa di
essere un partito antinazionale il che gli è costato la conventio ad exludendum
dal governo dell’Italia. Ma solo per una vicissitudine storica
l’internazionalismo comunista si è declinato come inchino alla politica di
potenza di un altro paese.
L’internazionalismo vuol dire che
il partito della sinistra non s’identifica con la totalità del popolo
che nella modernità coincide con la nazionalità, ma sposa l’interesse di una
parte del popolo la cui unica chance di affermazione riposa sulla
capacità di opporsi al popolo, di chiamarsi fuori.
Il partito della sinistra è una
parte il cui obiettivo è di
portare al governo i senza parte, i non riconosciuti, i non garantiti (che non
necessariamente, come ha dimostrato Ranciére, coincidono con i poveri). E questo
non per ragioni moralistiche o sentimentali, né in nome di un’astratta esigenza di giustizia, ma per motivi
strettamente economici, perché sono
la fonte della produzione della ricchezza. Essi vanno emancipati da
qualunque vincolo che ne blocchi il potenziale politico-rivoluzionario e ciò
anche quando il vincolo in questione sia una forma protettiva di qualche parte
sociale che al principio era anch’essa un senza parte ma che col tempo è entrata
a far parte del gruppo dei privilegiati.
Una delle conseguenze immediate
del pensarsi e agire da parte per il partito della sinistra è il rovesciamento
di un paradigma che è inevitabile nel partito-tutto: che non ci debbano essere
nemici a sinistra. È vero il contrario: l’unico nemico da cui il partito della
sinistra debba guardarsi è l’estremismo. In altri termini ciò che il partito della sinista deve
sapere in primo luogo è che la
contraddizione non è solo quella fra lavoro salariato e capitale, ma anche quella fra popolo e popolo, fra la parte-senza
parte e il popolo di cui fa parte. Il riferimento al popolo come tutto non
appartiene solo al plebiscitarismo
di destra ma anche e soprattutto al populismo di sinistra. È contro
quest’ultimo che lotta il partito della sinistra.
Per questo dicevo che la via di
Bersani è stretta: il nemico del PD è Grillo. Ma per batterlo il Pd non può fare accordi con il PDL: quello di
Grillo è un bluff e bisogna andare a vederlo anche a costo di elezioni
anticipate. Tutta la borghesia italiana tifa come al solito per le larghe
intese e per l’accordo: per una volta ci si provi a non
starla a sentire.
4) Un tentativo interessante di
applicare la teoria aristotelica delle forme di governo fra cui la democrazia
alla situazione della Repubblica popolare cinese, tuttora governata, checché ne
dicano tutte le espressioni della
sinistra occidentale, dal partito comunista è quella offerta da Pasquale
Pasquino nell’ultimo numero del Mulino del 2012 (L’enigma della Cina postmaoista, Il Mulino 6/2012, pp. 1085-1092).
Se si vuole tentare di comprendere
la storia della rivoluzione comunista cinese, al di là delle lacrime di
coccodrillo sull’assenza di democrazia o del lamento sul ritorno del
capitalismo, la chiave potrebbe essere questa: in che modo non ripetere
l’esperienza di quella russa? Come evitare il collasso dell’Unione sovietica?
Dopo un breve primo periodo in cui la Cina tenta di ripercorrere la stessa via
della Russia, la questione della
dirigenza cinese diventa quella di differenziarsi dalla strada imboccata da
Stalin e proseguita anche dopo l’abiura dei crimini staliniani. Non è solo per le differenze della realtà
cinese rispetto a quella Russa - differenze storiche, economiche e culturali -,
è soprattutto per la consapevolezza di un’involuzione della spinta
rivoluzionaria in Russia che la Cina è spinta a cercare un’alternativa. La questione principale
delle rivoluzioni non è
infatti come iniziarle, è come
continuarle, quali istituzioni possono rendere permanante la rivoluzione che nel
suo concetto è un evento discontinuo. Come si trasmette la rivoluzione?
La prima risposta del gruppo
dirigente cinese guidato da Mao è che la rivoluzione si continua dal basso
attraverso la mobilitazione continua delle masse, tenendo costantemente accesa
la spinta rivoluzionaria al fine
di evitare che non solo le vecchie classi sconfitte ma soprattutto i costumi culturali
sedimentati riprendano il sopravvento.
Questa rivoluzione che si chiama culturale dal momento che quella
economico-sociale è considerata ormai alle spalle e si tratta soltanto di
impedire, attraverso un’immane rieducazione delle masse, la riproduzione dei costumi delle vecchie classi dominanti, fallisce in un modo
molto simile all’esperimento di Terrore durante la rivoluzione francese per l’inevitabile
ricorso alla fuga in avanti
moralistica, spinta in molti casi fino alla violenza e alla prevaricazione,
derivante dalla perdurante resistenza della parte del popolo coinvolta
nell’operazione ad accettare supinamente le virtù rivoluzionarie, non perché
siano rivoluzionarie ma perché
sono virtù e come tali in opposizione al desiderio. Da questo punto di vista la
rivoluzione culturale è la risposta estremistica all’esistenza della
contraddizione in senso al popolo.
Fallita questa strada il gruppo
dirigente sopravvissuto a Mao imbocca l’altra strada, quella tentata da Lenin
subito dopo la fine dell’economia di guerra, vale a dire la strada della Nep.
Se ciò avviene non è solo perché la Cina come la
Russia nel ‘17 è un paese povero,
a prevalenza contadina, sotto sviluppato,
è perché il comunismo presuppone il più ampio sviluppo delle forze
produttive e tale sviluppo si ottiene solo attraverso l’economia capitalistica.
La sfida è quindi quella
dell’accumulazione capitalista a guida comunista ed è la strategia perseguita in Cina ancora adesso.
È a questo punto della storia che si pone il problema
politico per eccellenza: che fare della nuova ed emergente classe di
imprenditori capitalistici prodotta dall’apertura all’economia di mercato?
Permetterle di organizzarsi al di fuori del partito con tutti i rischi connessi
a questa scelta o tentare di integrarla all’interno dell’istituzione politica
monopolistica della rappresentanza, appunto il partito comunista cinese (in
verità Pasquino prima di partito aveva scritto fra parentesi ‘detto’)? Dal
momento che la questione è politico-istituzionale e non semplicemente economico-sociale
è a questo punto che Pasquale Pasquino rimanda alla tripartizione aristotelica
delle forme di governo (che sono anche
forme istituzionali): l’oligarchia, ovvero il governo delle classi
superiori nel proprio interesse; la democrazia, ossia il governo delle classi
medio basse caratterizzato dalla stessa parzialità della prima; e infine quella
che Aristotele considera la migliore possibile e cioè il governo misto che può
tenere insieme giustizia e stabilità perché integra le componenti sociali più importanti
della città all’interno delle istituzioni che governeranno la comunità
politica.
Ed è quanto sta accadendo in
Cina: il tentativo senza precedenti dell’integrazione dei capitalisti
all’interno dell’istituzione, il partito, che rappresentava all’inizio e continua
a rappresentare le classi sociali inferiori, può essere descritto secondo Pasquino come «la versione post-comunista
dell’antico governo misto, con la presenza inedita della rappresentanza
politica attraverso il partito» (1091).
È la teoria sviluppata alla fine degli anni novanta dall’ex segretario
del partito Jiang Zemin delle tre rappresentanze: quella del popolo, quella
degli intellettuali e quella del tutto nuova degli ambienti legati agli affari. È
del tutto evidente che le tre rappresentanze «appaiono come il tentativo di giustificare
da un punto di vista di una politica popolare il ruolo crescente dei
businessmen, piccoli e grandi, e delle classi medie e superiori» (cfr. Jean-Louis
Rocca, La società cinese, Il Mulino
2011, p. 47).
Non c’è dubbio che un simile
tentativo sia accompagnato da
un’infinità di perplessità: la prima delle quali è quella di come garantire il
pluralismo che caratterizza ormai il partito. Sarebbe del tutto errato porre una simile questione nei termini propri delle democrazie
occidentali: è difficile pensare che in Cina
possa attecchire una democrazia competitiva di stampo europeo-occidentale. Si
tratta piuttosto di capire «attraverso quali modalità interessi e ideologie diverse possano trovare espressione -
interna ed esterna - e raggiungere dei compromessi essenziali al mantenimento
del partito unico» (ibidem).
Perplessità ancora maggiori si possono avere nei confronti della morale
confuciana cui il gruppo dirigente
cinese fa esplicitamente ricorso
per garantire l’armonia fra le componenti sociali prodotte dall’apertura all’economia di mercato i cui interessi sono manifestamente
conflittuali. Come se rispetto alla rivoluzione culturale si fosse caduti dalla
padella nella brace.
Detto questo, se nell’attuale sistema mondo esiste un
laboratorio politico, non è certo in Italia che lo si può trovare, come una certa intellettualità di sinistra di casa nostra si ostina a sostenere,
ma nell'estremo oriente, nella Cina.