CRITICHE E RECENSIONI 1
a) Enzo Moscato, Lacarmèn (Una metamorfosi napoletana), Kairos 2016.
Abbagliati dalla musica di Bizet,
solare e drammatica allo stesso tempo come voleva Nietzsche, si rischia di
dimenticare (a meno che non lo si sia mai letto prima come è nel mio caso) il racconto di
Prosper Mérimée che dà origine alla storia e al personaggio. Si dimentica o si
ignora che il racconto di Mérimée non si chiude con la tragica morte di Carmen per mano di don
José, ma con una piccola dissertazione etnografica e storica sugli zingari che
culmina in una analisi della loro lingua. Nelle ultime due pagine Mérimée affronta
il problema della provenienza geografica
e culturale degli zingari che secondo gli orientalisti vengono
dall’India, delle trasformazioni che la
loro lingua ha subito a causa del contatto con altri popoli e altre civiltà e
finanche dell’esistenza dei dialetti zingareschi. D’altra parte il racconto era iniziato con Mérimée che giustificava il suo
viaggio in Andalusia con lo scopo di individuare, previa consultazione di una
biblioteca locale, il luogo dove si era svolta la battaglia di Munda combattuta
da Giulio Cesare contro i repubblicani conservatori. La storia di Carmen e di
José si incastona fra una ricerca storica e un’analisi linguistica.
La voglia di leggere finalmente il
racconto di Mérimée mi è stata provocata, come spesso accade – libro chiama
libro – , da un’altra lettura, quella della riscrittura della Carmen di
Bizet/Mérimée fatta da Enzo Moscato. Ma prima di parlare di quest’ultima vorrei
tornare ancora per un attimo sul racconto di Mérimée che mi è apparso come una
splendida conferma di quanto sosteneva Benjamin sulla natura della narrazione
nel saggio su Nicolai Leskov. Non si narra (o non si narrava), scriveva
Benjamin, per informare il lettore su dei fatti accaduti (a questo provvede il giornalismo) o per ricostruine
esattamente il senso (compito precipuo della scienza storica), ma per produrre un sapere e dare, se
possibile, un consiglio. L’arte del racconto non serve a scoprire la direzione
di marcia del corso del mondo che dal punto di vista del narratore - è sempre
Benjamin che parla – è dato per scontato, consistendo in nient’altro che nella
successione delle generazioni e in
quella delle culture e delle forme dell’organizzazione sociale, ma a comprendere come una singola vicenda, che
sia stata vissuta dal narratore stesso o da altri e di cui, in un modo
qualsiasi - racconto di una altro, manoscritto ritrovato casualmente, messaggio affidato a una
bottiglia – quest’ultimo sia venuto a
conoscenza, s’incastoni nel corso del mondo, indichi come ci si deve stare nel
corso del mondo, quale sia il modo migliore di condursi in esso, quando debba
essere contestato e quando assecondato. La
narrazione serve, in altre parole, a far
tesoro, ossia esperienza, del racconto del fatto riuscendone ad estrarre un sapere e un fare, vale a dire un saper
fare: nel caso della Carmen un saper
fare che riguarda insieme la lingua e il
desiderio. Si possono separare il modo con cui Carmen vive la passione amorosa,
un modo libero e tragico allo stesso
tempo, dalla lingua gitana, da come essa declina l’intreccio fra il dire e il
desiderare, fra il sapere e la pulsione erotica?
Quel che resta della storia di Carmen,
sembra dirci Mérimée, è la lingua, l’insegnamento che ne traiamo è quello della
lingua con la quale da un lato tramandiamo una storia ma dall’altro otteniamo
un sapere sulla tragicità della vita umana e un consiglio
su come farvi fronte. E la lingua, insieme al mare, è anche ciò che
resta della storia di Napoli, della Napoli del ’44 e di quella di adesso in cui
Moscato ha trasposto la storia di Carmen translitterando il suo nome in Lacarmèn. Nel monologo finale di Mérimée che, come nel
racconto, anche nella piéce fa il punto
sulla storia, Carmen diviene il tramite
per produrre un sapere su Napoli e i
napoletani che si sovrappone e si sostituisce a quello sull’Andalusia e gli
zingari: la storia di Napoli è una storia di pietre rotolanti, di distruzioni e
di rovine, di eruzioni, di guerre e di terremoti, e ogni volta a questo
paesaggio desolato sopravvive soltanto la lingua. Da un lato le pietre che a Napoli «non hanno mai goduto vita
stabile e sicura, bensì hanno sempre fatto – comme se dice? –
‘giacomo-giacomo…’tienimi-che-mi-tengo’…per il loro fragilissimno statuto»,
dall’altro la lingua, «ch’esta lengua di pietre cadute e mare, che nessuno può
toccare né dissolvere, annullare» e che, dice Mérimée, «io, straniero,
forestiero, per opera ‘e magia o de pietà/grandezza ‘e Dio, senza
volerlo, per istinto e per ragione, parlandola, cantandola – ‘a sentire? – ho
fatto mia»!
La stessa storia di Carmen e don José, la
storia di Lacarmèn e di Napoli, il loro ricordo, hanno subito la medesima sorte delle pietre
cadenti. Di loro, dei napoletani, della loro vita, non c’è più memoria, sono
fantasmi, «fantasmi tutti quanti», non esistono. Non sono essi il fulcro, la ragione del racconto; solo la
lingua lo è, solo la lingua, non Carmen e la sua storia, forse Lacarmèn come la
si chiama in napoletano, è «soggetto e al contempo oggetto di narrazione». È
più che ovvio che il nome di Enzo Moscato sia di risonanza europea: egli sta
dalla stessa parte di Paul Celan per il quale
l’unica cosa sopravvissuta allo
sterminio era la lingua, quella lingua che, uscita
rafforzata dal silenzio e dalla perdita, era, indecidibilmente, una lingua
salvata e una lingua che salva.
b) Annuario Kaiak I, Sottosuoli, Mimesis 2016.
Da quando Dostoevskji scrisse nel
1864 le Memorie del sottosuolo, questo
termine, che denotava inizialmente solo
una collocazione spaziale (indagata tuttavia dal punto di vista antropologico nel contributo di Rossella Bonito-Oliva), è diventato il nome proprio di una forma di
vita specifica della contemporaneità: l’uomo del risentimento. Ma non solo: allo
stesso tempo esso è stato usato per indicare una forma, anch’essa
contemporanea, della letteratura. Tutta la letteratura contemporanea è, si
potrebbe dire, una letteratura del sottosuolo, una, per dirla con Lacan,
lituraterra, una letteratura degli scarti, dei rifiuti, una letteratura spazzatura,
una letteratura delle fogne.
Il primo annuario cartaceo della
rivista online di filosofia Kaiak esplora il doppio significato del sottosuolo,
la sua doppia natura, socio-psico-politica da un lato e letteraria dall’altro, ponendo al
lettore, una volta che abbia scorso tutti i saggi che compongono il volume, la
domanda su un loro possibile rapporto, su di un loro eventuale incontro. Che
non vuol dire che la letteratura contemporanea è risentita o che il
risentimento è un fenomeno soltanto letterario, ma che forse la letteratura è,
fra tutti i tipi di discorso, quello più attrezzato per dare voce ad un tratto
decisivo della vita contemporanea, il
più adatto sia per esprimerlo che per riscattarlo dalla sua miseria.
Il responsabile della prima accezione
del sottosuolo è sicuramente Nietzsche che dal momento in cui, come lui stesso
racconta in una lettera a Overbeck del febbraio del 1887, ha scoperto in
una libreria la traduzione francese del
libro di Dostoevskij, ha fatto diventare
questo «essere sotterraneo» questo «essere che perfora, che scava, che scalza di
sottoterra» (Aurora), il prototipo dell’uomo del risentimento e
della sua invenzione più riuscita, la cattiva coscienza. Quest’ultima,
chiarisce Nietzsche nella Genealogia
della morale, è la più grave malattia che abbia colpito l’uomo da quando fu sottoposto alla metamorfosi più radicale
che egli abbia mai vissuto, «quella metamorfosi in cui si venne a
trovare definitivamente incapsulato nell’incantesimo della società e della
pace». La sorte toccata agli animali acquatici quando furono costretti a divenire
creature terrestri oppure a perire, fu la stessa che colpì quei semianimali che erano gli uomini i quali
«felicemente adattati allo stato selvaggio, alla guerra, al vagabondaggio,
all’avventura», si trovarono da un giorno all’altro con tutti i loro istinti
originari «svalutati e divelti», con la conseguenza di sentirsi inevitabilmente in difetto di fronte
ai nuovi ideali di mansuetudine e umiltà.
Da qui la cattiva coscienza, il senso
della propria inadeguatezza e della propria incapacità che, essendo pur sempre
un’espressione della volontà di potenza,
anche se di una volontà di potenza rivolta contro se stessi, agisce in
due direzioni: l’abbassamento di chi ce la fa, di chi è forte abbastanza
per sopportare il dolore, al livello dei non e mal riusciti, dei deboli, da
un lato, e dall’altro la trasformazione
della propria deformità morale, della propria bruttezza, dei propri limiti, in
fonti di godimento, indirette affermazioni dell’amor proprio. Più ci si umilia
o ci si sente umiliati, più si gode della propria umiliazione, ci si sguazza
dentro. E più si accresce il nostro senso di umiliazione, più aumenta il desiderio
di vendicarsi degli altri considerati i responsabili della propria umiliazione.
Il risentimento è questo: la strategia per consacrare la vendetta sotto
il nome della giustizia. Quanta voglia
di semplice vendetta, di voglia di uccidere come la chiamava Pasolini, si cela
dietro le richieste di giustizia, personale o sociale? Quanta invidia,
quanto risentimento, alimentano il
nobile ideale dell’eguaglianza? E allo stesso tempo quanti comportamenti
giudicati asociali, se non decisamente delinquenziali, dalle norme vigenti, non
sono che l’effetto del dominio del risentimento? Quante vite che si muovono ai margini della società,
quasi nel suo sottosuolo, non sono in realtà che il risultato dell’assunzione del
potere da parte dell’uomo del sottosuolo, cioè dell’uomo del risentimento? Da
qui il carattere duplice del sottosuolo che
sia l’editoriale che la maggior parte dei saggi dell’annuario illustrano (in particolare quello di Gianvito Brindisi sui sottosuoli giudiziari e le politiche del giudizio, quello di Eleonora de Conciliis sugli effetti devastanti della pastorale cristiana, quello di Massimo Palma sul rapporto fra Bataille e Benjamin a proposito del fascismo, quello di Paolo Vignola sulle conseguenze del turbocapitalismo e quello sui sottosuoli psichici di Mario Bottone):
sottosuolo/risentimento = populismi di destra e di sinistra, violenza e odio
sociale verso i poveri e i migranti da un lato, e dall’altro sottosuolo = vite infami rese tali dal
potere.
Tralasciando il ruolo dell’Idiota, dell’antipaolino Cristo-Budda,
nell’economia della riflessione di Nietzsche sul rapporto fra nichilismo e cristianesimo, ciò
che sicuramente il filosofo tedesco ha compreso di Dostoevskij è la dialettica dell’umiliazione,
cioè il suo rapporto solo apparentemente antagonista, in realtà complice,
dialetticamente complice, con l’orgoglio. Come ha ben compreso André Gide nel suo Dostoevskij si deve distinguere nello
scrittore russo l’umiltà dall’umiliazione: se
l’umiltà, quella vera, comporta la rinuncia all’orgoglio, l’umiliazione
al contrario ne è una forma di accrescimento. L’umiliazione rinforza l’orgoglio
creaturale, l’amor proprio, la voglia di perseverare nella propria abiezione.
Non a caso l’orgoglio è il vero
e proprio peccato capitale, quel ritenermi talmente sprofondato nel male che
neanche lo sconfinato amore di Dio avrebbe
più il potere di salvarmi. La mia
malvagità è più forte della grazia. Se è vero quindi che «l’uomo che è stato
umiliato cerca a sua volta di umiliare», lo è anche il fatto che ogni
umiliazione inflitta non può che agire da rinforzo per l’orgoglio che deriva
dal sentirsi l’essere supremo in
malvagità.
Quanto a Dostoevskij l’uomo del
sottosuolo è l’espressione della contemporaneità perché è il prodotto, o il
sottoprodotto, del progresso e della civilizzazione europea, del primato
della razionalità illuministica e strumentale, dell’utilitarismo secondo il
quale si fanno le cose solo per il proprio vantaggio, degli ideali del bello e
del sublime. Eppure l’uomo non può essere considerato senza desideri e senza
quella libertà che consiste nel volere anche cose diverse dalla propria
utilità, né la vita umana può essere ridotta al principio aritmetico del due
più due fa quattro. Non c’è esattezza nella vita, ma disordine, eccesso, violenza e crudeltà.
Come dimostra l’idiota, fra l’assoluta
bontà e la crudeltà il confine è labile. Inibito ad esprimere se stesso, l’uomo moderno è costretto a
trasformare la libertà in canaglieria, il desiderio in cattiveria, l’amore del prossimo in umiliazione.
Nonostante tutto questo Memorie
del sottosuolo è un romanzo, non un saggio di costume, né un manifesto politico. E più che un romanzo nel senso classico del termine, è un
monologo, un flusso di coscienza che,
mentre si declina in prima persona, in realtà
destituisce l’io dal ruolo di coordinatore dei pensieri e delle emozioni del soggetto,
lo frantuma e lo spezzetta, rendendolo un io isterico, contorto e
labirintico. È noto d’altra parte il
ruolo che l’epilessia gioca nella
pratica letteraria di Dostoevskij: l’io è preso nel ciclo tonico clonico
caratteristico di questa malattia sia essa di origine fisica o psichica. L’io è
lacerato, spaccato, fra momenti di rigidità assoluta e altri di movimenti
convulsi e incontrollati, fra fasi di immobilità e fasi di agitazione
frenetica, passando senza soluzione di
continuità dagli uni agli altri.
È questa forma del monologo un o
il segnale delle trasformazioni, non solo del senso della letteratura, ma anche
delle sue tecniche narrative, rese necessarie affinché il sottosuolo trovi la sua voce, la sua
modalità espressiva? Il lato letterario del sottosuolo è rappresentato
nell’annuario di Kaiak dal saggio di Rolland Caignard dedicato a Natalie
Sarraute (ma anche da quello di Giuseppe Russo sul risentimento nella letteratura americana contemporanea e dal contributo di Vincenzo Cuomo sulla produzione filmica del gruppo dei Quay Brothers; in posizione più defilata infine si colloca il saggio del filosofo iraniano Reza Negarestani sul fenomeno della nigredo). Questa scrittrice il cui nome,
accomunato a quelli di Claude Simon e di Alain Robbe-Grillet, è generalmente
posto sotto l’etichetta del noveau roman
o, come voleva Sartre, dell’antiromanzo, in realtà discende in linea retta da
Dostoevskij. Nel saggio Dostoevskij e
Kafka compreso nell’Età del sospetto la
Sarraute nega che fra il romanzo psicologico di cui lo scrittore russo sarebbe
il massimo rappresentante e il romanzo dell’assurdo di cui sarebbe invece portavoce l’autore praghese ci sia contrapposizione. Entrambi, il romanzo
che esplora l’uomo del sottosuolo e quello che sembra limitarsi alla superficie,
mirano in realtà a portare ad espressione
uno strato dell’umano ricoperto dalle convenzioni sociali e da una lingua
depurata da tutti i suoi tratti idiosincratici. In realtà ciò che chiamiamo profondità è solo
una piega della superficie e quest’ultima a guardare meglio è fatta a strati.
In Natalie Sarraute il sottosuolo
diviene la sottoconversazione: l’obiettivo dei romanzi antiromanzi della
scrittrice francese consiste nel riuscire a dare voce a tutto ciò che si agita
immediatamente dietro il dialogo ufficiale, quello fatto di ‘lui disse’ e ‘lei
rispose’, quello che si attiene al significato pubblico e riconosciuto, quindi conformista, delle parole e delle frasi.
Sotto, dietro, o fra le sue pause e i suoi silenzi, di questo dialogo che non
dice niente, c’è una sottoconversazione fitta e intrecciata, fatta di pensieri appena formati e subito svaniti,
di conati e di cadute, di mezze frasi e di sottintesi. Come Sarraute scrive in Conversazione e sottoconversazione non
ci vuol molto a capire quel che si dissimula dietro al presunto coscienzialismo
del monologo interiore: «una ridda inestricabile di sensazioni, immagini,
sentimenti, ricordi, impulsi, piccoli atti latenti che nessun linguaggio
interiore può esprimere, che si accalcano alle porte della coscienza, si
raccolgono in agglomerati compatti, sorgono improvvisamente e subito si sfaldano, si combinano diversamente
e riappaiono sotto una nuova forma, mentre dentro di noi continua a dipanarsi
il flusso ininterotto delle parole, simile al nastro che esce crepitando dalla
fessura di una telescrivente». La sottoconversazione è l’umano colto allo stato
nascente, prima delle regole semantiche, delle ripartizioni fra quel che si può
dire e ciò che va taciuto, prima che un ordine del discorso prenda il
sopravvento sul brulichio delle parole, sul mormorio incessante del linguaggio.
Giustamente Rolland Caignard legge
la narrativa di Natalie Sarraute a partire dalla griglia teorica di Julia
Kristeva, dalla sua distinzione fra il simbolico e il semiotico: se il primo si
riferisce all’aspetto della significanza che rileva ciò che nel linguaggio è del segno – nominazione,
sintassi, significazione, denotazione di un oggetto, di una verità -, il
secondo rinvia invece ad un ritmo espressivo, ad un linguaggio che vira verso le allitterazioni, le intonazioni,
le metafore e le ripetizioni, ad una lingua che, come ‘lalangue’ lacaniana, si
intreccia alla pulsione, si confonde, più che col corpo, con i suoi pezzi, e che, così facendo, si trasforma da freno al
desiderio in veicolo del godimento.
Non è un caso se per illustrare il senso che
Natalie Sarraute attribuisce alla sottoconversazione siamo ricorsi a termini e
espressioni – il brulichio della parole, il mormorio incessante del linguaggio –
usati da Michel Foucault nelle sue riflessioni sulla letteratura. Con esse
Foucault voleva indicare non solo ciò che ribolle dietro l’ordine del discorso,
un possibile linguaggio della follia, una eventuale lingua dell’infamia, ma
anche e soprattutto le pratiche letterarie di autori come Maurice Blanchot e
Raymond Roussel, Antonin Artaud e George Bataille. Ciò vuol dire che la
letteratura moderna, la versione contemporanea della finzione occidentale, come
Foucault chiamava la letteratura, è l’unica in grado di essere la voce del
sottosuolo. Se è vero che le vite dei folli e quelle degli uomini infami sono giunte
fino a noi solo attraverso i discorsi del potere - le perizie psichiatriche e i resoconti
polizieschi -, è altrettanto vero che in essi si è depositata ed è leggibile in
filigrana la voce degli esclusi. Essi sono letteratura in nuce, o almeno, il
punto a partire dal quale una letteratura del sottosuolo diviene possibile.
Se, come è ovvio, quella di Foucault
è soltanto una delle possibili chiavi per collegare i due versanti del sottosuolo,
quello socio-psico politico e quello letterario, tuttavia la comprensione del loro rapporto resta un compito assolutamente
imprenscindibile. Merito dell’annuario di Kaiak essersi mosso in questa
direzione.