martedì 29 luglio 2014




Pubblico qui di seguito due contributi critici a opere prime di giovani poeti.




L'opera della revisione



E ogni volta che inizi una poesia
Convochi i morti
Essi ti guardano scrivere
Ti aiutano
                                                    José Emilio Pacheco                                                                              
                                                                                                                            

Per raggiungere lo scopo dell'arte poetica, ossia riuscire ad avvicinarsi a quel luogo in cui il dire schiude l'essere e il suono instaura, dopo averlo sospeso, il senso, il poeta efebo, per usare un'immagine di Harold Bloom, è costretto a lottare con coloro che lo hanno preceduto in questa impresa, con i suoi precursori sulla via della poesia, la cui grandezza sembra aver suturato tutto il campo delle possibilità poetiche, non lasciando alcuno spazio, neppure un interstizio, al nuovo arrivato che cerca faticosamente la propria strada e la propria voce. A compensare, tuttavia, il sentimento dell'angoscia che attanaglia il poeta efebo di fronte all'influenza che subisce da parte del poeta precursore, sta la consapevolezza che anche quest'ultimo ha in gran parte fallito: forse per l'impossibilità del compito stesso che si affida alla poesia, quello, se non di rifare il mondo dall'inizio, almeno di rovesciarlo come un guanto, anche il poeta precursore, nonostante la sua inarrivabilità, non è andato fino in fondo, si è fermato, suo malgrado, a un passo dalla rivelazione. Il dire è ricaduto su se stesso, il suono ha mancato il senso, l'apocalisse è stata rinviata.
Ogni grande poesia è revisione di una poesia precedente: è un rifacimento e una riscrittura. A questo proposito Harold Bloom elenca sei rapporti revisionistici, sei modalità cioè con cui si attua la revisione del poeta precursore da parte del poeta efebo. Il clinamen, vale a dire il fraintendimento o travisamento vero e proprio, lo scarto rispetto al poeta precursore che viene corretto in un punto del proprio itinerario e spinto in un'altra direzione. La tessera, ossia il segno di riconoscimento, il frammento che aggiunto agli altri pezzi ricostituisce l'oggetto originario: il poeta efebo usa gli stessi termini del poeta precursore ma impiegandoli in un altro senso. La kenosis, ossia l'abbassamento e l'umiliazione: il poeta efebo sembra eclissarsi di fronte alla superiorità del poeta precursore, ma in questo modo lo trascina con sé, lo svuota e riequilibra il rapporto. La demonizzazione: aiutato da un essere inferiore, né divino né umano, il poeta efebo risale a una potenza anteriore alla poesia del precursore, la quale così perde l'aura dell'unicità. L'askesis, ossia una forma di purificazione raggiunta attraverso la solitudine: il poeta efebo rinuncia a una parte delle sue doti umane e immaginative e in tal modo si isola non solo dagli altri, ma anche dal poeta precursore che viene a propria volta costretto a un'autolimitazione. E infine I'Apophrades, il giorno nefasto in cui tornano i morti: il poeta precursore ritorna nel poeta efebo ma come se a scrivere la sua poesia fosse quest'ultimo. Con il ritorno dei morti siamo pervenuti al punto massimo dell'opera di revisione poetica: la poesia del precursore è stata scritta dal poeta efebo.
La spia che mi fa credere che Michele Fogliazza appartenga alla schiera dei poeti è il fatto che egli non nasconda ma anzi esibisca spudoratamente il corpo a corpo - un corpo a corpo che dandosi nell'elemento della poesia non può che manifestarsi nella corporeità della scrittura: la sonora corposità delle parole  - che ingaggia con i poeti precursori. Che la sua poesia sia per la gran parte un rifacimento e un approfondimento di quella dei poeti precursori  - che per un poeta italiano rispondono ai nomi di Dante e di Leopardi, precursori lontani, ma soprattutto di Montale e Campana, precursori questi vicinissimi e la cui influenza innerva d'angoscia le più belle poesie di questa raccolta -  non depone a suo sfavore come se essa fosse mera imitazione, ma è la prova al contrario di quanto essa prenda sul serio il compito poetico e sia disposta a pagare il prezzo necessario per essere vera e giusta poesia.
Nella revisione ad esempio dell'Ugolino dantesco decisivo è lo spostamento, cubista come lo stesso Fogliazza suggerisce, dalla rappresentazione oggettiva e in fin dei conti solamente accennata dell'orrore, alla sua resa soggettiva, unica capace di mostrarci a quale grado di frantumazione l'io debba pervenire per arrivare a quella soglia fra l'umano e l'inumano, a quel punto di non ritorno nella degradazione, rappresentato dal «poscia, più che il dolor, potè il digiuno»: l'io si è parcellizzato in una miriade di piccoli io, di piccoli oggetti che, perduto l'ultimo affiato della coscienza, si rivelano essere nient'altro che incarnazioni dell'abiezione. Allo stesso modo nella revisione del passero solitario leopardiano, l'uccello che cantava solo durante il giorno per tacersi al calare della notte, si trasforma in un «imbizzarrito animale notturno», in un «dolce urlatore notturno», che fugge dalla luce solare, si nasconde alla chiarezza del giorno, e attende silenzioso il tramonto.
Il rifacimento del passero solitario leopardiano ci introduce al tratto più precipuo del revisionismo poetico di Michele Fogliazza: l'indeterminazione del rapporto fra il giorno e la notte, fra la luce e il buio. Il compito della poesia è di schiudere l'essere attraverso il dire, il senso attraverso il suono: secondo il dettato di Heidegger ciò significa attribuire al dire poetico la capacità di condurre ciò che è nascosto alla manifestazione, alla visibilità. Il dire poetico conduce al giorno, offre alla luce, ciò che fino allora albergava nella notte e nell'invisibilità. Ma è sufficiente questa opposizione fra la notte e il giorno, fra la luce e il buio? Dove si raccoglie la notte una volta che si è fatto giorno? Dove il buio? Forse al centro stesso della luce del giorno. «L'uomo del sole diurno / Scruta sottile l'orizzonte / Come a studiarne l'avvenire // Ma qualcosa non coglie nel fluire del vento / Nel continuo luccicare del sole»: non si accorge dell'aria che diventa sempre «più estranea» e «che s'infossa come nemico nel profondo». «Diurno», scrive Fogliazza, è termine ambiguo, è «il nome notturno del giorno»: è la notte quindi ad abitare il culmine del giorno, a installarsi al centro della luce. Nel cuore del giorno c'è la notte, e se si riesce a guardare fissi in questa notte ci si accorgerà che essa riluce. Il Dioniso notturno cede il passo a Fanes, al dio che porta alla luce, che rende visibile il nascosto.
Affisare lo sguardo nella luce è guardare la notte e viceversa. Blanchot ha sperimentato per primo forse questa doppiezza indecidibile del giorno: ciò che dovrebbe assicurare l'ordine, la coerenza, il senso, fa sprofondare nella follia, è la follia. Esiste una follia del giorno che non è quella della notte, in fondo conosciuta, esplorata, resa innocua. Esiste una follia che è propria del giorno e che appunto per questo ci sorprende, è la follia che ci afferra al culmine della sensatezza. «A lungo andare,» scrive Blanchot, «mi convinsi di vedere a faccia a faccia la follia del giorno; tale era la verità: la luce impazziva, la chiarezza aveva perduto ogni buon senso; mi assaliva sragionevolmente, senza regola, senza scopo». Come il personaggio della Follia del giorno, cui qualcuno aveva schiacciato dei vetri sugli occhi, vedeva e non vedeva, vedeva, se così si può dire, il buio, così il poeta deve esprimere gratitudine alla luce troppo forte che lo acceca perché è solo nel nero dell'accecamento che riesce a vedere il «minuscolo rigo di fulminosa luce». È in questa luce, simile più a un bagliore della notte che ai raggi dispiegati del sole diurno, che si offrono i sentieri inesplorati su cui il poeta deve incamminarsi.
In versi come «Nelle ombre dischiuse la luce si nasconde / Ed il prematuro buio sviene» e «Volgono al ginepro le ore più viola del sole basso / nell'ortaglia di fianco al fosso / Giù per la breve collina / La luce fioca prima si smarrisce / E titillano i contorni / Travolti dal colore / Ecco pare finalmente / Brulicar di quadratini scoppiettanti / Impazziti! Si diradano / ed io con loro perdo luce», sembra di ascoltare l'eco revisionista del Celan dell'elogio dell'ombra: «Parla anche tu, / parla per ultimo, / dì la tua sentenza. / Parla   / Ma non dividere il sì dal no: / Dà alla tua sentenza anche il senso: / dalle l'ombra. / Dalle ombra sufficiente, / dagliene tanta/ quanto sai ripartita attorno a te tra / mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte». L'ombra qui non è il riparo dalla luce eccessiva ma il rilucere proprio della notte a partire dal quale si origina il senso.
Se si vuole spingere più oltre il lavoro poetico bisogna modificare profondamente il dettato montaliano: per portare «alla chiarità le cose oscure» non bisogna favorire la loro tendenza naturale, il loro spontaneo volgersi alla luce. Bisogna al contrario farle flettere verso l'ombra o verso l'oscurità. Bisogna contrastare l'eliotropismo del girasole, questo fiore «impazzito di luce» e rinunciare alla regione delle «bionde trasparenze» dove «vapora la vita quale essenza». Questo movimento a ritroso, dalla luce all'oscurità, coincide con un avanzamento verso il peggio: il linguaggio già stremato dovrà diventare più soffocante, la realtà evocata dovrà essere sempre più terribile, rovente. Come per i valentiniani l'unico modo per eliminare il male dal mondo consisteva nel commetterne sempre di più e nello sprofondare in esso, così bisogna incrementare il male di vivere fino a farlo diventare irrimediabile. Il male di vivere non si è fermato, esso diviene ancora: prima era «il rivo strozzato che gorgoglia, / era l'incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato» e contro di esso, di là dal muro, si presentiva il bene «che schiude la Divina Indifferenza», ossia «la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato»; adesso invece esso è diventato «Il sonaglio attorcigliato all'orecchio / Il morso del prurito doloroso / L'affanno del respiro». Al male è riuscito «di trovarci anche di qua dal muro / Nel protetto della stalla vuota / Forte come le fiere nella selva / Contro il nostro corpo nudo».

Per rifare il mondo forse è necessario che il poeta sovrapponga al giorno eccessivamente luminoso di Montale la «lunga notte piena di inganni delle varie immagini» di Dino Campana. Suoni quel "notturno" che è forse il nome diurno della notte.


L’opera della revisione, riflessione critica in M. Fogliaza, Diurno, Opera prima, Cierre grafica, Verona 2006, pp. 43-47.

Limes e/è Limen






L’infinito è l’infinita scelta di cose
Il dolore se non  varia è confutabile
Certo la scempia è la più  vera delle rose
Edoardo Cacciatore


è sempre difficile ricostruire di un poeta la trama delle filiazioni, la catena dei poeti precursori di cui il poeta efebo è l’ultimo anello: ultimo certo solo secondo la misera misura dell’adesso ché dal punto di vista dell’eterno o del tempo smisurato la processione dei poeti è illimitata. Così è anche della poesia di Stefania Negro: nonostante ciò proverò  egualmente ad indicare una genealogia servendomi in una caso di una esplicita dichiarazione di poetica e nell’altro di una suggestione personale  che spero non eccesivamente traditrice dell’intenzione poetica di Stefania Negro.
 Parto da quest’ultima: leggendo queste poesie, cercando qualche aggancio che mi permettesse di entrare nel loro mistero e cogliere la legge cui si sottomettevano, mi è venuto in mente uno strano testo di Edgar Allan Poe, un testo che in anni passati avevo definito ‘tardo e vagamente testamentario’; mi riferisco a Eureka scritto nel 1848, quindi un anno prima della morte del poeta, e definito da Poe stesso un poema in prosa. Ma il ricordo di Eureka non è separabile per me da quello delle poche, ma intense pagine che Paul Valéry vi dedica in Variété. Li ho letti insieme e d’allora  viaggiano vicini nella mia mente e nei miei ricordi.
Che cos’è Eureka? Come nota subito Valéry Eureka vuole essere un poema cosmogonico e Poe un poeta della conoscenza: Eureka non intende parlare dell’esperienza soggettiva, non vuole essere un esercizio di poesia lirica. Riallaciandosi alla tradizione riposta nei nomi di Lucrezio e di Dante, mescolando scandalosamente i generi, Poe per Valéry mira ad una poesia capace di fare concorrenza alla filosofia e alla scienza e addirittura ad una poesia che sia filosofia e scienza senza cessare per questo di essere poesia. Forse qui il termine poesia vorrebbe tornare ad indicare quella specie di dire originario, e indifferente da questo punto di vista alle distinzioni  successive fra poesia e prosa, immaginazione e scienza, fantasia e calcolo, da cui  prende vita il mondo, se non nella sua  disposizione empirica, certamente nella sua verità, in quella verità che Poe definisce attraverso l’attributo della Consistency, termine tradotto da Baudelaire e dal traduttore italiano con Coerenza, ma che Valéry rende con il francese Consistance. Per la poesia in prosa di Poe, per la poesia della conoscenza, la verità non si dà attraverso una dimostrazione matematica, una deduzione logica o un’inferenza empirica, ma in nome della consistenza costruita dalla parola poetica.
Dopo aver dichiarato lo scopo che si prefigge scrivendo Eureka - « è mia intenzione parlare dell’Universo fisico, Metafisico e Matematico – Materiale e Spirituale: della sua Essenza, delle sue Origini, della sua Creazione, della sua Condizione presente e del suo Destino» - Poe precisa, tuttavia, che sarebbe sbagliato attendersi qualcosa come una dimostrazione di un teorema - nonostante i matematici la dimostrazione, secondo Poe, non esiste in questo mondo – e che si potrà tuttalpiù  seguire un’idea regolativa che si potrebbe formulare in questo modo: «Nell’Unità Originaria della Prima cosa risiede la Causa Secondaria di Tutto, assieme al Germe del loro Inevitabile Annichilimento».
Chiunque abbia letti i racconti ‘polizieschi’ di Poe sa che Dupin non ha niente a che vedere con Sherlock Holmes: se quest’ultimo è l’espressione del carattere scientifico di ogni metodo investigativo moderno, l’eroe eponimo del paradigma indiziario, Dupin è un poeta, applica nelle sue indagini la mescolanza di fantasia e esattezza, immaginazione e analisi, e vince infatti sulla polizia nel ritrovamento della ‘lettera deviata’ perché ha dello spazio non una concezione geometrica, ma poetica, si potrebbe anche dire topologico-poetica: laddove la polizia quadretta, Dupin vede spazi rovesciati, rivoltati come un guanto.
Non è un caso dunque che  per l’elaborazione di questa fantasia cosmogonica dotata di Consistenza, tale cioè che in essa possa trovare posto anche l’odd, il bizzarro, il perturbante, l’insolito,  risultino inservibili i metodi scientifici più accreditati, ossia la deduzione e l’induzione: la verità in questione non è quella piatta della conoscenza razionale ma quella imprevedibile, quindi indeducibile da un lato e mai già data dall’altro, di ciò che non è mai accaduto prima e non ha di conseguenza modelli o archetipi da cui lo si possa far discendere, né atomi sensibili e impressioni empiriche  di cui sarebbe la copia più o meno sbiadita.
Da questo punto di vista quel carattere impersonale che Valéry  credeva di cogliere nel poema di Poe e al quale si aggrappava come all’unica speranza che restasse all’uomo della conoscenza  non si riferiva forse  tanto al rifiuto di una poesia lirica quanto alla necessità che  poesia e filosofia, la poesia filosofica o la filosofia poetica, si liberassero una volta per tutte dell’idea che il mondo coincidesse kantianamente con ciò che il soggetto può conoscerne, cioè con quello che può essere anticipato dalle capacità conoscitive del soggetto: questo sarebbe un mondo privo di invenzione,    in cui nulla può sorprendere. Semmai dovrebbe essere il soggetto a rifluire nel mondo, partecipando del suo essere fluttuante e ondulatorio, consapevole che la verità non consiste nella prevedibilità del tutto, ma nella coerenza, nella consistenza con cui anche ciò che è bizzarro e indeducibile  si relaziona a tutto il resto.
Se dopo queste precisazioni si tornerà all’idea regolativa enunciata da Poe in apertura di Eureka secondo la quale il compito del poema è di   tenere assieme, di dare consistenza all’unità originaria della Prima Cosa, alla Causa secondaria di tutto e al germe del loro inevitabile annichilimento, si comprenderà più facilemente perché Valéry non solo riponga la speranza nel diventare impersonali ma ritenga l’impersonalità finalmente conquistata “il gran passo verso il tempo della fine del mondo”. Se la poesia è  creazione dl mondo e  insieme della legge della sua composizione,  essa è anche il principio della sua dissoluzione, del suo annichilimento, e quindi della possibilità di una nuova creazione. La speranza non sta nel fatto che tutto continui come prima, ma che qualcosa di imprevisto  faccia collassare il mondo conosciuto e ne inventi un altro assolutamente nuovo.
Non saprei come definire meglio la poesia di Stefania Negro se non ricorrendo ai termini usati da Valéry a proposito di Eureka: poema cosmogonico, poesia della conoscenza. Anche Stefania Negro vuole pensare poeticamente l’universo, tener conto dei risultati scientifici più recenti e allo stesso tempo seguire il filo dell’immaginazione. L’universo della sua poesia è un universo ondulatorio, tutto costruito sul concetto di onda: luminosa, sonora, cerebrale. Un universo concepito come un sistema elastico trasformazionale o come un palloncino che si espande senza centro. E al centro di questo universo, connesso ad esso, l’uomo; ma appunto un uomo inteso come onda, capace di andare in risonanza con il resto. Tutto, nella poesia di Stefania Negro è insieme relativo e cosmico: relativo perché dipendente dalla conoscenza umana e legato a ragioni scientifiche, ma cosmico perché  compreso a sua volta nell’universo. Nella poesia di Stefania Negro entra di conseguenza tutto: i quanti, i quark, le particelle infinitesime, le galassie, e insieme l’uomo,  lo stupore che lo prende di fronte alla vita e al suo divenire.
Nella prima poesia di questa raccolta c’è un immagine che mi sembra racchiudere come una matrice l’intero pensiero poetico di Stefania Negro: se da un lato, scrive, “la storia ha definito le nostre esistenze”, dall’altro però “il limite/è in limine”. Il limes, il limite, il confine, che ci separa e ci distingue da tutto il resto, sta però sul limen, sulla soglia, e ciò permette all’universo di sconfinare in noi, di entrare  nella nostra soggettività, e a noi di proiettarci fuori verso l’universo. Più propriamente il limite è la soglia, è ciò che separa e unisce le parti di cui si compone l’universo. Così percepire è “vedere le metamorfosi/luminose della materia, è sentire i silenzi densi di suoni”; la memoria, invece, è ciò che plasma “il sé nel legame chiaro/e simbolico tra l’inconscio e il mondo”. E  pensare è agire in modo che se “ti guardo e penso/al tuo volto amato, al dolce senso dei tuoi/sguardi, alle tue labbra rosa trepide/di baci”, allora  “il mio volto lievemente al/tuo s’accosta nel febbrile moto dei sensi”. Infine noi siamo “cifre e frammenti d’assoluto” che vivono come “lampi fluendo nel tempo” o assomigliano a dei “colubri che svelti/corrono nelle siepi”; siamo “forme che svaniscono nel nulla quando/l’uno con il molteplice si compone/ come favilla rossa di fuoco/che brucia tra favule e rovi o/come favonio che soffia sul prato/e sul mare e poi svigorito già muore”.
In controtendenza con il lirismo e l’intimismo dominanti nella poesia italiana del novecento, Stefania Negro si riallaccia in modo originale a quei pochi esempi in cui si sia tentata la  costruzione/ricostruzione della totalità,  anche se questa totalità fosse difficilmente afferrabile nella sua unitariatà, nella sua consistenza, causa il dominio assoluto in essa del divenire, del cambiamento e della trasformazione. Come dire senza vertigine ciò che non sta mai fermo un istante e sta sempre per essere un’altra cosa? Come rendere alla parola poetica ciò che è  effimero? è a questo proposito che bisogna evocare il nome dell’altro poeta  precursore di questo poema cosmogonico, un poeta precursore che, come ho già detto, viene chiamato in causa espressamente da Stefania Negro che giunge fino al punto da dedicare, a lui e alla moglie, l’intera raccolta.  Il poeta in questione è Edoardo Cacciatore.
Come scrive Giorgio Patrizi introducendo la raccolta  di tutte le sue poesie, Edoardo Cacciatore aveva deciso di accettare la sfida che “la realtà lancia al linguaggo e all’individuo”, e cioè “comprendere totalmente il reale e riconoscervi l’identità totale dell’uomo”. Ciò si può ottenere attraversando ”i fenomeni della realtà con la consapevolezza dell’alterazione del soggetto e delle cose”. Anzi è proprio la coscienza dell’alterazione a divenire insieme il processo conoscitivo della realtà e lo strumento dell’autocoscienza del poeta. Prendendo le mosse dal vitalismo eracliteo e dalla cosmogonia pitagorica, Edoardo Cacciatore aveva cercato di coniugare conflitto ed unità, cambiamento ed equilibrio, disegnando un mondo in cui  se “il tradimento è l’effemeride mutabile” e “l’assassinio il bell’in-folio per tutti i tempi”, tutto ciò si tiene perché “Alla fine l’inganno vero è veritiero/Tutto più si fa strano e meno è straniero”.
Il principio dell’alterazione per il quale “Il cacciatore anche lui diviene caccia” non indica soltanto, secondo il detto eracliteo, il passare di ogni cosa nel suo contrario, compreso il nome stesso del poeta, ma la sostanziale appartenenza di ogni cosa all’alterità, a ciò che Valéry designava con il termine impersonale tentando di commentare Eureka e Giorgio Patrizi indica, a proposito della poesia di Edoardo Cacciatore, nel concetto del “pensiero del di fuori” di Maurice Blanchot.  A questo aspira la poesia di Stefania Negro: a sperimentare l’altro.  Certo l’altro nel senso dell’universo. Ma anche l’altro nel senso dell’uomo, e non nel senso soltanto dell’altro uomo, dell’uomo altro da me, ma in quello, tutto blanchotiano, di quel che è altro nell’uomo,  dell’ignoto e dell’impersonale che lo borda, del fuori in cui esiste. In una parola dell’universo stesso. Il limite è in limine.





Bibliografia minima: E. A. Poe, Eureka, tr. it. di P. Guglielmoni, Milano 2001; P. Valéry, A proposito di Eureka, tr. it. di S. Agosti in Varietà, Milano 1971; B. Moroncini, La lettera disseminata e l’invenzione della verità. Poe, Lacan, Derrida, in Palinsesto. I modi del discorso letterario e filosofico (a cura di G. Zuccarino), Genova 1990; E. Cacciatore, Tutte le poesie, San Cesario di Lecce 2003.

 Riflessione critica, in S. Negro, Fili di luce compresi negli archi del divenire, Cierre grafica, Verona 2007, pp. 37-44.    

Stefania Negro ha recentemente pubblicato una nuova raccolta di poesie per Anterem Edizioni dal titolo Oscillazioni con una riflessione critica di Flavio Ermini (Cierre grafica,   Verona 2014). 

Choc

Ripubblico qui un breve intervento sulle parole da rottamare richiestomi da Sergio Marra per una pubblicazione del Teatro Stabile di Napoli (‘Choc’, in «Tra», bimestrale del Teatro Stabile di Napoli, n° 4, aprile/maggio 2010).


Di fronte alla possibilità di abrogare definitivamente dal vocabolario parole usurate da un uso smodato ed eccessivo ed ormai del tutto inflazionate, o di ridurne perlomeno temporaneamente la circolazione, non  c’è che l’imbarazzo della scelta.  Ma dal momento che me ne spetta solo una, così a caso scelgo una parola d’importazione che però da qualche tempo sembra  entrata di diritto nel vocabolario italiano. Non passa giorno che i titolisti dei giornali italiani, manifestando un atteggiamento assolutamente bipartisan, non aggiungano, pur di attirare dei lettori sempre più distratti,  all’esternazione di un politico, alla battuta di una star televisiva,   ad un video finito su You Tube, ad un comportamento per quel poco che sia sopra le righe o infranga il politicamente corretto, la parola ‘choc’.  Beata ignoranza! Se è vero che la vita moderna, mediatica e metropolitana, aumenta a dismisura gli  stimoli e le sollecitazioni cui sono sottoposti i nostri sensi fino al punto che la nostra esistenza quotidiana  potrebbe essere descritta  come un incessante susseguirsi di piccoli traumi, di invisibili ferite che subito si rimarginano, di modifiche continue e dolorose per adattarci al ritmo convulso e sincopato cui ci costringono le forme di vita della società contemporanea, se  è vero insomma che tutta la nostra vita non è altro che uno  ‘choc’, resta tuttavia un dubbio se questa invocazione continua al perturbante, all’urticante e allo sconvolgente abbia  lo scopo di tenerci svegli, sempre all’erta, pronti per rispondere ad ogni evenienenza e ad ogni imprevisto che ci possa capitare o non abbia di mira invece proprio il contrario, vale a dire assopirci,  renderci indifferenti, quasi anaffettivi, capaci insomma di sopportare tutto perché diventati ormai insensibili. Come ci si inietta il vaccino per  poter produrre gli anticorpi che ci difenderanno spontaneamente dalla malattia, così  ci procuriamo gli chocs per diventare immuni  dai traumi che la vita moderna ci infligge, ci facciamo male per poter controllare meglio il dolore fino al punto di non sentirlo più. Non annoierò il lettore ricordandogli che questa interpretazione della funzione degli chocs nella vita moderna si deve a Walter Benjamin che la elaborò a proposito della poesia di Baudelaire e delle forme della   vita metropolitana nella seconda metà dell’ottocento. Per concludere vorrei far notare solo questo: per Benjamin l’unica funzione della poesia lirica nella modernità era quello di produrre chocs in modo che la coscienza fosse ricoperta da una spessa coltre protettiva che la difendesse  dai suoi traumi. Per questo ogni poesia di Baudelaire presenta, secondo Benjamin, lo schema di una catastrofe, racconta un incontro mancato, mette in scena un amore impossibile, è attraversata dalla morte e dalla putrefazione. Ciò vuol dire però che a produrre gli chocs erano i poeti e che se la poesia serviva all’ipocrita lettore per attivare i suoi meccanismi di difesa, tuttavia a questa operazione sopravviveva l’opera con tutta la sua  struggente bellezza. Oggi gli chocs li producono i titolisti dei giornali: da questo si può misurare la grandezza del declino.