martedì 5 giugno 2012

Colonna continua 7

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1) L'Europa di nuovo in crisi, l'Europa un bluff. L'illusione dell'Europa è finita. Era finita già con le guerre balcaniche, finita ancor prima con la scomparsa dell'Urss. Da zona terza fra Stati Uniti e Unione Sovietica, che guarda ai non allineati, l'Europa tende di nuovo all'assetto imperiale e questa tendenza riaccende gli egoismi, le paure, i distinguo. Fa decadere il sogno europeo: l'Europa unita come superamento del conflitto fra Francia e Germania, est e ovest, nord e sud. Ma questo sogno era possibile a patto di non sfrangiare eccessivamente i confini: quali paesi fanno parte dell'Europa? Per cultura tutti, ma per equilibri geopolitici? Dall'Europa vanno esclusi i paesi dell'est, Russia in testa. L'Europa pre‑caduta del muro poteva guardare a est; l'Europa dopo la caduta si trova con i paesi dell'est riconquistati all'occidente in guerra con la Russia. Così se la Russia è europa questo esclude Polonia, Ucraina, Bielorussia, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia. E se sono europei questi paesi, anzi occidentali, la Russia è cacciata a oriente. Lo stesso vale per l'Inghilterra: se è Europa l'Europa è sbilanciata verso gli Stati Uniti, e se l'Europa vuole essere se stessa deve escludere l'Inghilterra. E a sud dove si ferma l'Europa? La Turchia è europea? Per ragioni diplomatico‑militari e geopolitiche sembrerebbe di sì, almeno dovrebbe essere ascritta al campo occidentale, ma per tradizioni religioso‑culturali? E a che titolo Italia e Spagna per non parlare del Portogallo sono Europa?

 2) Se si vuole incominciare a capire che cosa stia succedendo all’Europa conviene partire da una illuminante osservazione di Michel Foucault: «Ecco come nasce l’idea di Europa e della bilancia europea. Si cristalizza col trattato di Westfalia, che costituisce la prima manifestazione completa, consapevole, esplicita di una politica dell’equilibrio europea; il trattato di Westfalia, com’è noto, aveva la funzione principale di riorganizzare l’impero, di definire il suo statuto, i suoi diritti rispetto ai principi tedeschi, le zone di influenza sul territorio tedesco da parte dell’Austria, della Svezia, della Francia: il tutto in ragione delle leggi di equilibrio che ci spiegano come la Germania sia potuta divenire, e come è effettivamente divenuta, la fucina della repubblica europea. Non bisogna infatti dimenticare che l’Europa, in quanto entità giuridico-politica e sistema di sicurezza diplomatica e politica, è il giogo che i paesi più potenti d’Europa hanno imposto alla Germania, ogniqualvolta hanno tentato di farle dimenticare il sogno dell’imperatore assopito, che si tratti di Carlo Magno o di Barbarossa o di quell’ometto che è bruciato tra il suo cane e la sua amante una sera di maggio (aprile, 30 aprile, sic) nei locali della cancelleria. L’Europa è la maniera di far dimenticare l’impero alla Germania. E se l’imperatore effettivamente non si risveglia mai, non c’è da stupirsi che la Germania alzi la testa a volte e dica: “Io sono l’Europa, perché voi avete voluto che io sia l’Europa”. Lo dice proprio a quelli che hanno voluto che essa non fosse altro che l’Europa, vale a dire all’imperialismo francese, alla dominazione inglese e all’espansionismo russo. Si è voluto sostituire il desiderio di impero, in Germania, con l’obbligo dell’Europa. “Non importa – risponde la Germania -, perché sarà l’Europa il mio impero. è giusto che sia l’Europa il mio impero – dice la Germania –, perché voi avete creato l’Europa solo per imporre alla Germania la dominazione dell’Inghilterra, della Francia e della Russia”» (M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, lezione del 22 marzo 1978, tr. it. pp. 221-222).

3) L'Europa un'idea triste. In un passaggio di «Variazioni sulla libertà» (Sguardi sul mondo attuale, pp. 67‑68) Valery dice che la libertà della mente consiste nella capacità ‑ un automatismo la chiama ‑ di ridurre nel più breve tempo possibile le idee alla loro natura di idee, di essere delle idee e nient'altro che idee, impedendo di confonderle con ciò che esse rappresentano o con i valori affettivi e impulsivi che l'accompagnano: il rapporto che infatti lega le idee a questi valori è solo accidentale. L'esempio di tutto questo è quello dell'idea triste: un'idea triste si deve scomporre in un'idea senza tristezza e in una tristezza senza idea. La libertà di cui parla Valery non si deve confondere con la cosidetta libertà di pensare, cioè di manifestare le opinioni. La libertà secondo Valery non ha nulla a che fare con le opinioni, cioè con la dimensione della doxa. La libertà ha che a che fare con l'indipendenza della mente dal sistema delle abitudini, delle credenze e degli affetti che tendono a condizionarci.
In che misura è applicabile questo principio nel caso dell'Europa? Che cos'è l'idea di Europa, siamo in grado di pensarla senza il correlato delle sue opinioni? Non è un'idea triste? Noi non riusciamo a separare l'idea di Europa dalla tristezza che sempre l'accompagna. Se pensiamo all'Europa degli ultimi secoli essa ci appare come un concentrato di tristezza.


4) Nato alla fine della seconda guerra mondiale, tutta la mia giovinezza e buona parte dell'età matura sono state europee. L'opposizione non era fra l'Europa e il resto del mondo, ma fra l'Europa e gli Stati Uniti. Ora l'Europa che era mia era quella della libertà della mente, un'Europa che incominciava a dismettere la sua tristezza, quella tristezza, ossia quella idea di sé che l'aveva condotta alla catastrofe. Era l'Europa del materialismo, dell'etica kant‑libertina, l'Europa di Spinoza, l'Europa di Hegel e Marx, l'Europa di Nietzsche, del nichilismo attivo, della trasvalutazione di tutti i valori, dell'oltreuomo e della età tragica (Frammenti postumi 1987‑88, p. 53‑54, l'età tragica: il rapporto selezionante fra valori contrari alla vita e valori che la incrementano), l'Europa della psicoanalisi, dell'ermeneutica del sospetto, della decostruzione, della grande letteratura ‑ Moravia, Proust, Kafka, Musil, Joyce  ‑, della poesia ‑ Machado, Guillen, Alberti, Rilke, Trakl, Mandel'stam, Majakovski, Achmatova, Hikmet (un poeta turco come Arghezi), Fortini ‑, della musica ‑ Schoenberg, Berg, Webern, Nono, Berio, Stokhausen ‑, del teatro ‑ Strelher, Brecht, Il Living, Carmelo Bene ‑, del cinema ‑ Bergman, Dreiser, Truffaut, Renais, Bresson, Godard, Bunuel, Visconti, Fellini, Antonioni, Eisenstein, Vertov ‑ etc. La mia prima lettura fu la rivista L'europa letteraria, lì incominciai a scoprire i poeti, gli scrittori, i pittori. 
Uscita sconfitta ‑ sconfitti anche i paesi vincitori, sconfitti anch'essi perché non avevavo saputo evitare la guerra, perché l'avevano fatta per salvare il peggio della loro storia, per boria e eccesso di paura ‑ dalla guerra, l'Europa sembrava aver capito quanto la propria storia fosse una storia terribile di cui oltre le cose indicate non andava salvato nulla. Era l'Europa del cinema europeo contro Hollywood, della destituzione dell'io a favore dell'inconscio, dell'assunzione delle spinte pulsionali più violente. L'europa di Sade, nel bene e nel male, nella trasgressione e nel sadismo freddo e lucido, nell'estremo dell'eros e nella pulsione di morte all'opera.
Era l'europa post‑cristiana, post‑imperialista, che si opponeva all'american way of life, all'ideologia del successo, dell'adattamento alle regoli sociali, l'Europa della critica delle istituzioni totalizzanti, in particolare la chiesa, l'esercito, la magistratura, l'università, l'Europa che se sbarcava negli Stati Uniti era per portare la peste, vale a dire il disincanto, la vunerabilità, e non i valori: questi ultimi erano solo valori di sterminio.
Era l'Europa che sapeva di poggiare sul fondamento dei campi di concentramento nazisti, le sue uniche e vere radici.
Adesso l'opposizione ha cambiato di senso: l'Europa è diventata quella dei valori superiori ‑ il vero, il bello, il bene ‑, delle radici ‑ cristiane innanzitutto, ma poi greche, giudaiche etc., della pace, la stessa di Monaco, la pace che prepara la guerra. E questa Europa ben fondata si prepara a nuovi stermini, li permette sui propri territori ‑ Bosnia, Kossovo. Un' Europa da belle epoque, che difende i privilegi recentemente conquistati, che ha dimenticato di aver fatto due guerre mondiali, di aver covato il colonialismo e l'imperialismo. Che li rimpiange accusando gli Stati Uniti di voglia smodata di impero.

sabato 21 aprile 2012

Colonna continua 6

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1) È possibile una democrazia senza partiti? Se i partiti sono quelli della tradizione europea otto-novecentesca, dei partiti-stato, dei partiti-istituzione, dei partiti che si sostituiscono alle istituzioni, la risposta è sì, ne può fare perfettamente a meno.

domenica 4 marzo 2012

Colonna continua 5

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1) Secondo il Corriere della sera di venerdì 2 marzo di quest’anno Mario Monti avrebbe esortato a più riprese i ministri del suo governo «ad astenersi da iniziative politiche che potrebbero destabilizzare la ‘strana maggioranza’ in parlamento» sostenendo la tesi secondo la quale «il governo ha compiti limitati, e ciò nonostante difficilissimi. Questo compito riusciremo a svolgerlo se osserveremo una certa distanza rispetto ai partiti».

venerdì 2 marzo 2012

Lévinas e la filosofia dell'hitlerismo



 Sul numero 30 (dicembre 1996) della rivista  «Informazione filosofica» edita dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici "Gerardo Marotta" pubblicai questo breve saggio su Lévinas che mi sembra ancora attuale. Per questa ragione lo riprendo qui avvertendo che la traduzione italiana del testo di Lévinas Sull'evasione è stata nel frattempo ristampata dall'editore Cronopio di Napoli nel 2008 e che l'altro testo di Lévinas citato Alcune riflessioni sulla  filosofia dell'hitlerismo è stato tradotto da Andrea Cavalletti e pubblicato dall'editore Quodlibet nel 1996.


Uno dei meriti più grandi di Emmanuel Lévinas consiste nell'averci offerto, già a  partire dalla metà degli anni   trenta, la chiave concettuale per comprendere l'epoca in cui siamo e circoscrivere il male di cui soffre il nostro secolo. È  intorno al concetto di limite e al suo spostamento che si gioca fra il '34 e il '36 la riflessione levinasiana. Nella filosofia tradizionale, scrive Lévinas nel saggio sull’ ‘evasione’ (De l'évasion, 1935; trad. it. Dell'evasione, Reggio Emilia 1984), ciò che per il soggetto rappresentava il limite della sua comprensione e del suo  agire era costituito dal mondo o dal non io: il conflitto si dava sempre fra l'uomo e   l'essere, mai fra l'uomo e se stesso. Anche nella lotta più cruenta, l'uomo non perdeva la propria autosufficienza, non vedeva messo a rischio l'ideale dell'identità di sé con sé.