CRITICHE E RECENSIONI 2
a) Maurizio Ferraris, L’imbecillità
è una cosa seria, Il Mulino 2016.
Alcuni degli ultimi seminari di Lacan hanno come titolo dei
veri e propri calembours o dei giochi di parole fondati quasi sempre
sull’omofonia. Le non-dupes errent,
ad esempio, che è del 1973-74 e che tradotto suona più o meno I non-fessi errano, è omofono di Le noms du pères, ossia I nomi del padre. Per Ferraris l’’ardua
sentenza’ di Lacan vale quasi come indice di un ravvedimento. Se si tiene conto
del ruolo fondamentale che lo psicoanalista francese attribuisce al
significante Nome-del-padre, ossia di render possibile il buon andamento della
vita soggettiva, la correzione è
significativa: ‘i nomi del padre’, scrive Ferraris, «i portatori dell’autorità,
quelli che si credono più furbi degli altri, sono degli imbecilli». Io, che ho
meno diffidenza verso Lacan e il suo pensiero, leggo l’omofonia un po’
diversamente se non all’incontrario: proprio quelli per i quali il nome del
padre ha funzionato sanno più di tutti di essere degli imbecilli, ossia sanno
che è del tutto inutile provare a sfuggire all’inconscio e che anzi saranno
sempre trattati da quest’ultimo come dei minchioni. Il fatto che si autorizzino
a parlare solo in nome del padre – un padre prima ucciso, poi cotto e mangiato (vedi Totem e tabù) e solo dopo reintegrato
attraverso la memoria ma sempre come un padre morto -, vuol dire infatti che nessuno di loro è padre – al massimo un
padre putativo -, nessuno ha autorità, nessuno conta niente: fra gli
uomini regna l’incertezza, ci sentiamo tutti malfermi sulle gambe, privi di sostegno, senza un bastone cui
appoggiarci, vale a dire imbecilli (in-baculum = senza bastone).
D’altronde nel seminario sulla Lettera rubata, quindi quasi vent’anni prima, parlando delle figure
dell’autorità presenti nel racconto di Poe – il Re e la Polizia - , Lacan
notava che quando un uomo è chiamato ad
incarnare il più alto dei significanti, quello indicato dalle parole Rex e
Augur, per poco che ci creda, finisce sempre per diventare «il simbolo della
più enorme imbecillità (imbécillité)».
Dal momento che il soggetto è di per sé imbecille, ossia sempre giocato
dall’inconscio, quando si crede Re contamina
la figura dell’autorità suprema, ma anche il garante del buon andamento
delle cose umane e della felicità individuale e collettiva, dello stesso virus.
O il Rex e l’Augur non hanno rapporti con l’uomo e vivono impassibili
nell’oltremondo come gli dei di Epicuro oppure sono imbecilli come tutti.
L’imbecillità a ben guardare è un paradosso: per un verso è
una cosa seria, terribilmente seria, e vedremo perché; dall’altro gli imbecilli
non sono persone serie, combinano sfracelli e procurano un sacco di guai. In
particolare l’imbecillità delle élites e degli intellettuali, soprattutto
quando si colora politicamente, è la più pericolosa: il caso esemplare è quello
dell’imbecille delle prealpi come lo chiamava Thomas Bernhard, cioè di
Heidegger, che ha identificato il pensiero rammemorante, il pensiero
dell’essere, con la dottrina nazista, definendo lui stesso, ma dopo, a cose
fatte, questa commistione una fesseria, un colpo d’imbecillità da cui
neppure i giganti del pensiero vanno esenti a conferma del fatto che i
non-dupes errent.
C’è però il rovescio della medaglia: come già annunciato
l’imbecillità è una cosa seria. E lo è perché l’essere imbecilli coincide per
Ferraris con la condizione umana, è un dato antropologico. Dietro
l’affermazione paradossale e scherzosa fa capolino in realtà la tesi principale
dell’antropologia filosofica di primo novecento che si basa, come è noto, sulle
coeve ricerche anatomiche e biologiche. Secondo Arnold Gehlen l’uomo, essendo
privo di una struttura istintuale precostituita, nasce carente, esposto senza
protezioni naturali all’effluvio pulsionale che proviene dal suo interno e ai pericoli presenti nel mondo circostante; per Louis
Bolk l’uomo nasce prematuro, quando è ancora un feto, e conserva anche da
adulto questa sua eterna fanciullezza. Tutto ciò implica una condizione
bisognosa e instabile che solo faticosamente e con l’aiuto fondamentale della
tecnica l’uomo è in grado di modificare. Ferraris rifiuta ogni prospettiva
‘pentecostale’, ossia la tesi per la
quale l’ordine del senso invece di essere lentamente costruito a partire dalla
condizione di imbecillità sia sempre «precedente e indipendente rispetto alle
forme in cui si esprime e ai modi in cui
si imprime» e cali «dal cielo come lo Spirito Santo nel giorno della
Pentecoste» (cfr. M. Ferraris, Emergenza,
Einaudi 2016, p. 32).
Da qui la presa di posizione anti-heideggeriana di Ferraris
a favore della tecnica che sopperisce
artificialmente a quel bastone naturale di cui l’imbecille è privo facendo in
modo che la sua vita sia meno precaria
e faticosa. La tecnica insomma non aliena e non rende gli uomini più stupidi di
quanto già non siano per dotazione
naturale. Quel che si può dire è
invece che la tecnica, soprattutto nella
veste della comunicazione veloce e senza limiti resa oggi possibile dai media
elettrici, tende soltanto a potenziare
«le occasioni in cui possiamo farci conoscere per quelli che siamo» e che, di
conseguenza, a fronte di uno sviluppo e di una diffusione della tecnica sempre
più estesi e capillari, aumenti in
proporzione il tasso di imbecillità percepita.
Ma non quello reale che resta invece stabile. E se è vero che
l’imbecillità è il «proprio della modernità perché con le potenzialità
espressive offerte dal moderno lo stupido si rivela meglio che in qualunque
altra epoca più raccolta e silenziosa», lo è altrettanto il fatto che questa
sempre più grande visibilità della
imbecillità costitutiva dell’uomo è la condizione per un avanzamento senza
precedenti della conoscenza e dell’emancipazione politica e morale. Non si
trasforma il mondo senza la spinta proveniente dall’attrito dell’imbecillità
e dalla resistenza del reale.
Questo libro sull’imbecillità come quello precedente
sull’emergenza e come ancora la lunga e argomentata discussione sulla scienza con
Paolo Flores D’arcais (cfr., Micromega, ‘Almanacco di filosofia’, Ritorno alla realtà o fughe metafisiche?,7/2016) sembrano
– questa almeno la mia impressione – delle
glosse sempre più chiarificatrici alla tesi sul ‘nuovo realismo’ propugnata
qualche tempo fa da Maurizio Ferraris. Nella foga della polemica l’equivoco era
quasi inevitabile. È importante allora che Ferraris abbia sentito la necessità
di chiarire il senso della sua proposta sciogliendo i fraintendimenti. Che sono
a mio avviso essenzialmente due: lo scientismo e il realismo metafisico.
Ciò che caratterizza e identifica il reale è per Ferraris
l’inemendabilità: non c’è schema concettuale,
non c’è anarchia epistemologica e neppure costruzione culturale che
possano emendare il reale, ossia
modificarlo, farlo essere altro da quel che è e allo stesso tempo migliorarlo,
abbellirlo, addomesticarlo. All’inemendabilità fanno eco attrito e resistenza.
Ma ciò non vuol dire né che sia reale solo ciò che la scienza certifica ed
attesta come tale, né che lo sia, come vuole l’ontologia metafisica, tutto ciò che, per il solo fatto di apparire
perfetto al pensiero razionale, vale a dire dotato di tutti gli attributi, sia
ritenuto possedere necessariamente anche quello dell’esistenza, e poco importa che sia l’anima sostanziale,
Dio, o per usare un immagine cara a Maurizio Ferraris quando deve spiegare cosa
sono gli oggetti naturali, una ciabatta.
Per quanto Kant sia responsabile agli occhi di Ferraris di aver
preferito gli schemi concettuali e le forme aprioriche alla percezione
sensibile, gli si dovrebbe riconoscere almeno il merito di aver liquidato la
metafisica sostanzialistica il cui sottoprodotto erano i deliri del visionario
Swedenborg che pretendeva di parlare coi morti.
Il realismo di Ferraris si potrebbe definire fenomenologico
e ciò nella misura in cui il tardo Husserl, tematizzando il mondo della vita,
aveva riconosciuto alla percezione da un
lato un ruolo costitutivo nella determinazione del senso degli oggetti,
ma dall’altro anche quello passivo e
precategoriale di un impatto con le cose in
carne e ossa, con le loro oggettive
modalità di offrirsi e presentarsi, con la loro legalità non dipendente da un
sapere scientifico fondato su schemi concettuali.
Tutto ciò, come è ovvio,
non ha evitato a Husserl la sua
botta d’imbecillità: in una lettera a
Edith Stein scritta poco prima di morire, Husserl
fa un’amara scoperta: «Non sapevo che fosse così duro morire. Eppure mi sono
talmente sforzato, lungo tutta la mia vita, di eliminare ogni futilità! (…)
Proprio ora che arrivo al termine e che
tutto è finito per me, so che devo riprendere tutto dall’inizio». Si è passata una vita ad imparare a vivere, ad
avere una vita quasi perfetta, priva di orpelli e di futilità, una vita da
filosofi. E si scopre, quando non c’è più tempo per farlo, che
bisognava invece passare la vita a imparare a morire. Che imbecilli!
b) Alessandro D’Avenia, L’arte
di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori 2016.
Se il ritratto offerto da Alessandro D’Avenia del più grande
poeta nonché intellettuale italiano del secolo XIX corrispondesse al vero,
allora avrebbe ragione Patrizia Valduga
a sostenere che Leopardi è il poeta degli adolescenti segaioli. Solo i suoi versi
sprezzanti e feroci potrebbero fungere da antidoto alla figurina svenevole, sdilinquita
e sdolcinata che fuoriesce dalle pagine del libro di Alessandro D’Avenia. Quasi
a mo’ di un ‘perdete ogni speranza o voi che entrate’, ogni speranza di
incontrare una versione attendibile di cosa sia stato Giacomo Leopardi per la
cultura italiana nella lettura di questo libro, pongo qui i versi di Patrizia
Valduga che forse gettano luce più che sul poeta sui suoi lettori adolescenti
fra i quali va annoverato Alessandro D’Avenia che fra l’altro non è mai
cresciuto: «Si sì! tenetevi la vostra luna!/ Il gobbo l’ha talmente sputtanata/
che non vederla più è una fortuna./ Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi che fai?/
Tu senti che domanda scriteriata…/ Povera luna, che ha da fare mai?/ Tutti gli
adolescenti segaioli,/ con l’acne che gli dà le depressioni,/ adorano Leopardi,
lune e duoli, /adorano se stessi, pelandroni…/ Io preferisco Pascoli e Manzoni»
(Corsia degli incurabili).
In una intervista che si può vedere e ascoltare su youtube Patrizia Valduga ha rincarato la
dose: pur riconoscendo a Leopardi lo statuto del grande filosofo e le doti del
grande prosatore, ha tuttavia definito i suoi versi, i suoi endecasillabi,
meccanici, privi del pathos che deve caratterizzare la poesia. Anche quando fa
poesia Leopardi è in realtà un prosatore che semplicemente si limita ad andare
a capo troppo presto, che interrompe la frase prima di arrivare al limite del
foglio e produce così l’illusione del
verso.
Non mi proverò in nessun modo a contestare e contrastare
l’opinione di Patrizia Valduga, il suo preferire versi come «C’è qualcosa di
nuovo oggi nel sole,/ anzi d’antico: io vivo altrove, e sento/ che sono intorno
nate le viole», a quelli dell’Infinito,
di nuovo giudicati meccanici e intellettualistici. Pur non condividendo la sua
tesi, penso che sia preferibile la sua impietosa stroncatura della poesia leopardiana alla trasformazione di Leopardi nell’immagine votiva del santo protettore
degli adolescenti fragili e insicuri.
Su Leopardi persistono tuttora fraintendimenti antichi,
equivoci longevi, errori d’interpretazione duri a morire: primo fra tutti quello che fa derivare la vocazione poetica dal
dolore per il mancato amore provocato dalle deformità corporee. Un corpo
rachitico e gibboso, un corpo malato e difettoso, emarginando Leopardi dal
mercato del sesso, lo spingono a sublimare nella poesia il dolore derivante dalla
solitudine amorosa. In questa lettura c’è il trionfo dell’adolescente segaiolo:
essendo questa l’età delle trasformazioni corporee, il momento in cui il corpo
si fa corpo sessuato, non c’è adolescente
(maschio o femmina che sia) che non si senta inadeguato, che non avverta lo
scollamento fra l’immagine di sé, l’io ideale, e il reale del corpo, che non si veda allo
specchio brutto, deforme, brufoloso, grasso (l’anoressica docet) e non pensi al
suicidio come estremo rimedio per por fine a un tale abbrutimento giudicato
oltretutto irreversibile.
Tutt’al contrario la vocazione poetica non è l’effetto
accidentale di una ‘vita strozzata’, ma
una destinazione cui Leopardi era inviato ancor prima di nascere. Non c’è
nessun nesso causale fra il diventar poeta ed un corpo malato, anzi a ben
vedere anche la deformità corporea era già inscritta nel destino di Leopardi,
era come avrebbe detto Benjamin ‘già sul posto’.
Che Leopardi debba essere poeta è il desiderio del padre,
che debba essere deforme quello della madre. È Monaldo che installa Leopardi
nella biblioteca di famiglia, che lo obbliga a leggere tutti i libri che vi
sono contenuti (compresi quelli licenziosi e libertini sia antichi che
moderni), che lo sprona ad imitare i classici, a scrivere trattati e
dissertazioni, a diventar poeta, e tutto ciò per riscattare la sua vita
degradata dal momento in cui è stato estromesso dal governo degli affari di
famiglia. Ed è la madre, come attesta un passo famoso dello Zibaldone, a
desiderare, per eccessiva devozione religiosa, o che i figli muoiano da giovani
o che almeno siano deformi e malaticci.
A questo punto ciò che dovrebbe interessare una critica
intesa come arte dell’interpretazione dovrebbe essere in realtà il modo con cui
Leopardi si appropria di questo desiderio dell’altro
che lo costituisce, come lo stravolga, invertendone la direzione e il senso,
come si scavi nel terreno del destino uno spazio tutto suo che non può essere
però che uno spazio di scrittura. Ad esempio il mandato paterno di diventare un
poeta laureato e un erudito è mantenuto
ma allo stesso tempo trasformato dall’augurio
di Pietro Giordani di affermarsi come ‘il più grande scrittore
italiano’. Ma quel che conta in questo
deragliare del e dal desiderio paterno, è che lo spazio ‘vitale’ di Leopardi
sia e resti uno spazio di scrittura. Anche in un film come quello di Mario
Martone, per altri versi pregevole nel mettere l’accento sul carattere
protestatario di Leopardi e su una certa materialità corporea presente
soprattutto nel soggiorno napoletano, si incorre nell’equivoco di sempre: la
poesia sgorgherebbe come un getto unico direttamente dalla vita. Così l’Infinito è recitato da una voce fuori campo, mentre la
cinepresa riprende il poeta seduto davanti ad una siepe come se la poesia nascesse per ispirazione diretta
tutta intera in quel momento.
Ma nessuna poesia è stata scritta davanti ad una siepe,
tantomeno quella di Leopardi: la poesia si scrive seduti al tavolino, provando
e riprovando, sostituendo le
parole, variandone la disposizione,
leggendo ad alta voce (l’ispirazione è questo: il prender fiato per declamare i
versi), per sentire il ritmo, la cadenza, il suono e se fra suono e senso c’è,
non armonia, ma, finanche nella separazione, rimando e corrispondenza. Il
lavoro poetico è un lavoro sulla lingua e con la lingua, non sulla e con la vita.
Ciò è vero a maggior ragione perché la vita, che sia quella
di Leopardi o di chiunque altro, è per definizione andata, ossia perduta. Ed
ecco la seconda deformazione del desiderio operata da Leopardi: se augurare ai
propri figli una morte precoce o un corpo deforme e malato, era per la madre un
modo per negargli esistenza e autonomia
– dove vai, chi vuoi conquistare, così
brutto come sei non ti si può proprio guardare: resta a casa, nasconditi! -, Leopardi
farà esattamente il contrario. Questo corpo lo esibirà, lo porterà in giro, con
esso corteggerà le donne e si farà degli amici,
e quanto più il corpo lo farà soffrire, fisicamente e psicologicamente,
tanto più lo sottopporrà a ogni genere di stravizi, ad un regime fatto di cattiva alimentazione, di mancanza d’igiene, di strapazzi
metereologici e di abusi sessuali; di questo corpo insomma Leopardi farà un
emblema, un insegna, il suo emblema, la sua insegna. Come ho scritto in
un’altra occasione (Patronimicografie,
In L’autobiografia della vita malata.
Benjamin, Blanchot, Dostoevskji, Leopardi, Nietzsche, Moretti e Vitali) il
corpo diventa in Leopardi un significante soggettivo, la maschera con cui, come Cartesio, fa la sua entrata nel mondo, con
cui facendo finta e facendo credere di
essere il poeta solo e disperato, l’adolescente maltrattato e respinto, può
lanciare il suo attacco contro tutti i nuovi credenti, tutti i cruscanti incartapecoriti, tutti gli
intellettuali organici, tutti i cantori delle ‘magnifiche sorti e progressive’.
Lo stesso pessimismo non è la trascrizione culturale degli scacchi della vita
ma la posizione etica e intellettuale da cui si guarda al mondo e a partire
dalla quale si può condannare ogni
compromesso, ogni falsa intesa.
Per tornare al libro di Alessandro D’Avenia, a parte
l’irritazione provocata dal fatto che si del tu a Leopardi quasi fosse un
compagno di banco o di merenda, quel che più colpisce è una descrizione
dell’adolescenza il cui livello è degno delle frasi ad alto tasso di sentimentalismo pseudoromantico contenute nei
Baci perugina. Così l’adolescenza è rapimento e meraviglia, speranza e sogno,
nostalgia e felicità. Mai quell’età amara e difficile che è e soprattutto mai
un’invenzione della modernità visto che ancora nel seicento a quindici anni si era uomini fatti, con tanto di spadino, e donne pronte alla riproduzione della
specie. L’adolescenza è solo un perverso prolungamento dell’infanzia prodotto
dalla formazione del mercato.
E se pure fosse vero che l’adolescenza è l’età della
meraviglia (che come ripetono tutti i bravi professori di filosofia e
storia dei licei classici e scientifici
italiani è all’origine della filosofia)
ciò vorrebbe dire soltanto che l’adolescenza è l’età della stupidità assoluta,
di quello ‘stupor’ con cui si guarda a bocca aperta il mondo, del tutto
inebetiti, di quell’imbellicità costitutiva dell’umano di cui parla Maurizio
Ferraris. Se c’è un’età imbecille, questa è senza dubbio l’età adolescenziale.
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