mercoledì 28 luglio 2010

Dialogando con Alberto Abruzzese su Avatar. Vedi A. Abruzzese, Un mondo senza racconti e senza miti, in Filosofie di Avatar, Mimesis, Milano 2010

Caro Alberto,
Ho finalmente visto Avatar anche se non in 3d. Più che benjaminiano questo film a me sembra deleuziano (almeno per come alcuni leggono attualmente Deleuze, vale a dire come un vitalista) cioè rizomatico: la rete dove si realizza la vita virtuale, la vita dell’avatar, è senza mediazioni la rete della vita che scorre lungo le radici degli alberi della foresta di Pandora.

domenica 25 luglio 2010

Un discussione sul liberalismo secondo Foucault

Caro Maurizio, come promesso provo a scriverti una replica alla discussione che abbiamo avuto in occasione della presentazione di Ventre sulla questione del rapporto fra il liberalismo e il paradigma della paura nella formazione della sovranità politica.

Un contributo alla discussione sul lavoro immateriale

Citando Deleuze, durante l’ultimo nostro incontro, ho generato confusione, facendo credere in una mia adesione alle sue tesi generali sulla immediata e spontanea creatività della vita che non potevano che apparire contraddittorie con tutto quello che avevo sostenuto fino a quel momento contro la nozione di reddito di esistenza e/o di cittadinanza. Chiedo venia e provo a chiarire. In realtà non intendevo convocare il pensiero di Deleuze ma, attraverso Deleuze, la logica stoica. A differenza di quella aristotelica che è una logica delle proposizioni e quindi degli stati di fatto che le proposizioni enunciano (do per scontato che le proposizioni che contano per Aristotele siano quelle dichiarative, affermative e/o negative, universali e/o particolari), quella stoica è una logica dell’evento, dunque non di ciò che è, ma di ciò che avviene.

Una discussione sulla plebe e sul marxismo-leninismo

Come hanno dimostrato, almeno per me, le nostre ultime discussioni, la posta in gioco non è la plebe in quanto tale, ma da un lato il rapporto che per ognuno di noi la tradizione marxista-comunista cui in modo diverso ci sentiamo di appartenere intrattiene con quel che Peppe chiama giustamente “i francesi”, Foucault soprattutto, ma anche Deleuze, Derrida, Lacan, Blanchot e da ultimo Badiou, e dall’altro, problema più rilevante ancora e forse, se non governato, potenzialmente disgregante, la questione dell’esistenza di più marxismi, di più modi di interpretare e praticare il marxismo (come insegna la decostruzione, di interpretazioni, di letture, di tagli di qualunque cosa, ce n’è sempre uno in più, uno in più che rimette tutto in gioco, che costringe a ricominciare sempre da capo, a fare i conti con il ritorno di ciò che credevamo definitivamente morto, superato).

Lettera a un'amica sul film di Marco Bellocchio 'Vincere'

Cara Antonella,
ho letto la tua recensione al film di Bellocchio. Lo dico subito: mi è piaciuta la parte centrale, meno l’inizio e la fine. D’accordo sulla fascinazione che lega Ida a Mussolini, d’accordo sulla rilevanza del corpo del duce (sarebbe il caso di ricordare che la potenza del corpo del duce si ripete, si rispecchia nell’imitazione da parte del figlio e diventa alla fine una caricatura grottesca come se quell’immagine che si è impadronita del corpo del figlio alla fine non possa che distruggere la mente di quest’ultimo: tieni conto però che la storiografia su Mussolini oscilla sulla morte di Benito Alvino che attribuisce alla guerra), molto d’accordo sul rapporto fra media e potere.

A commento di un articolo di Silvia Baratella del 4 luglio 2009

Sostiene Baratella: in questione non è l’alienazione del corpo, simile per uomini e donne in tante situazioni, il problema vero è il desiderio sessuale femminile che in queste storie di prostituzione è messo fuori causa dal momento che l’unica cosa in gioco sembra l’appagamento del maschio. E aggiunge: se il problema è quello del desiderio sessuale femminile, la premessa è che si deve essere in primo luogo dei soggetti perché solo un soggetto può avere desideri, un oggetto no: la voglia maschile di pagare una donna, cito, per ridurre un rapporto sessuale a prestazione racconta la voglia di ridurre l’altra a oggetto, quindi senza desideri. Io contesto la posizione di partenza: non si è prima soggetti e poi desideranti, ma prima si desidera e poi si diviene soggetti di questo essere desideranti.

venerdì 23 luglio 2010

Sulla teoria del valore e sul feticismo delle merci. Contro la tesi del valore del lavoro

A  commento di un'affermazione di Loris Campetti comparsa sul Manifesto a proposito delle lotte alla Fiat di Pomigliano  secondo la quale il lavoro è un valore, ma un lavoro senza diritti non è  un valore.

In riferimento all’unicità dell’opera d’arte prima dell’epoca della sua riproduciblità tecnica Benjamin sostiene che il valore d’uso di un oggetto era dato dall’esperienza in esso accumulata . Ciò vuol dire che il valore non sta nell’utilità immediata dell’oggetto, identificata normalmente nella sua capacità di soddisfare un bisogno primario o naturale, ma in un elemento in più che diversifica quell’oggetto da un altro simile. È probabile che più l’oggetto sia fatto a regola d’arte più sia oggettivamente destinato a funzionare da ricettacolo o involucro dell’esperienza soggettiva, individuale e comunitaria. 
L’esperienza accumulata nell’oggetto che costituisce il suo valore d’uso si può anche chiamare memoria, anche qui una memoria individuale e collettiva, anzi individuale perché collettiva. La memoria si trasmette nel culto ed è per questo che l’opera d’arte, quella che più di qualunque oggetto simile contiene esperienza accumulata, acquista senso soltanto all’interno del culto religioso e/o civile.
Due osservazioni sono da fare a questo punto: 1) nel concetto di uso si dovrebbe distinguere l’uti dal frui. L’uti è l’utilità immediata di un oggetto, il frui è la fruizione del senso in esso contenuto: ora il senso stando a Benjamin non è altro che l’esperienza cioè la memoria in esso accumulata e da esso trasmessa. Di fronte ad un quadro di una madonna col bambino non c’è nessuna utilità da trarre (cioè non risponde a nessun bisogno immediato da soddisfare, ma semmai serve per dare senso umano ad un bisogno, posto che la maternità e non la riproduzione della specie sia un bisogno), ma c’è solo da fruire dell’esperienza presente in esso: ad esempio la potenza trasfigurante della maternità che innalza simbolicamente se non nella realtà il rango cioè il valore della donna in società fondate sulla loro posizione secondaria rispetto all’uomo. E ancora nella fruizione c’è la possibilità di assumere l’immagine sacra come una presenza della divinità a cui chiedere una grazia: la maternità stessa o la sua buona riuscita.
2) il concetto di valore indipendentemente dal fatto che esso sia usato in riferimento ad epoche premoderne o all’epoca moderna, capitalista, è sempre fondato sul principio di differenza. Qualcosa ha valore rispetto a qualcos’altra che ne ha di più o di meno, che non ne ha affatto o che ne ha in maniera tale da non essere più paragonabile a nessuna altra cosa. Il valore anche quando è assoluto è sempre relativo!
Il passaggio dal valore d’uso così inteso al valore di scambio capitalistico allarga e incrementa a dismisura il carattere differenziale del valore: nel senso che identificando il valore con la scambiabilità integrale e generalizzata di ogni cosa con ogni altra secondo una misura comune esso implica che non esistano più valori o disvalori assoluti e cioè che tutto sia relativo. Può - è questa la domanda comunista - essere ripristinato un valore d’uso, e quindo almeno come possibilità l’esistenza di un valore assoluto, sottratto alla scambiabilità generale, senza ricadere all’indietro e cioè senza ritornare a sistemi economici stazionari se non regressivi e quindi incapaci di assicurare attraverso l’incremento della ricchezza l’emancipazione degli uomini dalla necessità del lavoro servile?
Se ogni ritorno indietro, con buona pace dei sostenitori della decrescita, è impossibile, la soluzione andrà trovata kierkegaardianamente guardando in avanti: un ritorno del valore d’uso avverrà, se avverrà, dal futuro e non dal passato. In un altro contesto e parlando dell’esperienza del flaneur Benjamin parla di un valore d’uso del valore di scambio: esiste cioè un modo di fruire del valore di scambio che per questo solo fatto eccede l’orizzonte della scambiabilità generale? Mi sembra chiaro che questa fruizione è possibile solo se ci si pone dal punto di vista dei produttori del valore che nel capitalismo sono incarnati dalla forza-lavoro. La merce forza-lavoro infatti che viene comprata e venduta al suo valore di scambio e quindi scambiata almeno apparentemente alla pari con il denaro e viene fruita sia formalmente sia realmente dal capitale come mera capacità di erogazione di forza-lavoro, rompe l’equivalenza: essa produce un di più di valore, un valore che non ha equivalente, un valore di conseguenza assoluto, cioè sciolto dallo scambio, non più scambiabile con niente (tema della non traformabilità del valore in prezzo) e quindi puramente consumabile, cioè fruibile in pura perdita. Il valore d’uso, cioè la fruizione antieconomica o aeconomica, ossia non votata al risparmio e all’accumulazione, è il risultato inevitabile del capitalismo stesso e non del ritorno indietro a epoche non capitalistiche.
Sulla teoria del valore e sul tema del feticismo delle merci pesa un’ipoteca piccolo-borghese che con l’avanzare del neo capitalismo o capitalismo postfordista, cognitivo e globalizzato, non fa che intensificarsi costituendo l’ideologia specifica di questo modo di produzione. Da sempre esiste una lettura del primo libro del Capitale che interpreta il fetiscismo e l’esistenza del valore di scambio come un mero calcolo economico, un’operazione intellettualistica che va tutta a carico degli economisti e/o dei capitalisti e che non intaccherebbe in nessun modo la realtà dei processi economici. In altri termini la commisurabilità dei lavori attraverso la misura comune del tempo di lavoro necessario alla riproduzione sociale della forza-lavoro, ossia il lavoro astratto, non sarebbe una struttura reale del modo di produzione capitalistico, ma solo un’operazione mentale di calcolo che verrebbe imposta con la violenza, criminale ovviamente. Le tesi in campo sono due: o nonostante tutto si continuerebbero a produrre oggetti concreti, vale a dire necessari alla soddisfazione dei bisogni immediati e naturali oppure la cattiveria dei capitalisti sarebbe tale che per ottenere il loro profitto obbligherebbero il sistema produttivo a produrre oggetti inutili e non rispondenti a bisogni a scapito di quelli che invece sarebbero in grado di soddisfarli non solo ma di soddisfare anche il più gran numero di individui e in prospettiva la totalità del genere umano.
In tutte e due i casi la categoria fondamentale resta quella di bisogno, immediato e naturale (secondo i due sensi di ‘naturale’: dato in natura come mangiare, bere e procreare, bisogni che la natura avrebbe posto in noi a costituire la natura umana; oppure naturali nel senso di appartenenti alla natura umana, cioè alla sua essenza, e quindi distinti dai bisogni inessenziali. Resta da sapere sempre chi decide l’essenza, se l’uomo o di nuovo la natura) e il valore d’uso continua a significare la rispondenza dell’oggetto al bisogno. Da qui la strana tesi della riappropriazione: gli operai dovrebbero riapproppriarsi del frutto del loro lavoro - metafora procrativa applicata al lavoro; e non si capisce se si tratta della riappropriazione del valore in più prodotto che significherebbe fruizione e cioè consumo improduttivo, o degli oggetti del lavoro nel qual caso gli operai dovrebbero semplicemente portarsi a casa quello che hanno prodotto senza andarlo a comprare da qualche parte. Ma se io produco pezzi di un ingranaggio che di per sé non rispondono a nessun bisogno che cosa mi porto a casa, di cosa mi riapproprio? Vado a prendremi senza pagarlo un equivalente? Ma in questo caso sono di nuovo dentro il valore di scambio e poi delle cose che saccheggio cosa me ne faccio? Le rivendo in cambio di denaro? Faccio commercio anzi faccio borsa nera. Non c’è via d’uscita.
Se si sceglie la tesi secondo la quale la teoria del valore di scambio e quella del feticismo delle merci sono un fatto reale, la loro inversione del lavoro concreto in lavoro astratto, dei rapporti sociali fra gli individui in rapporti fra cose, una struttura reale del modo di produzione, ciò ha una conseguenza decisiva: non c’è nessun lavoro concreto che sopravvive dietro la sua equiparazione con altri lavori nel valore di scambio. Occorre per capire bene questo passaggio prendere sul serio la metafora dello specchio che Marx usa a proposito della merce. La merce è come uno specchio che restituisce i rapporti sociali così come appaiono, cioè come rapporti sociali fra cose. La frase si può leggere i due modi: o nel senso che la merce-specchio deforma i rapporti reali facendoli apparire come rapporti sociali fra cose mentre essi non lo sono, quindi è la merce che li deforma nel senso che ne deforma l’aspetto ma non la realtà e poi in forza della sua potenza illusionistica fa in modo che gli uomini credano a quello che vedono nello specchio anche se contrasta con quello che essi sono in realtà; oppure che il modo di produzione capitalistico, cioè i rapporti sociali reali, sono in realtà prodotti dallo specchio, che la società reale è in realtà fatta a specchio, è uno specchio e che dunque la merce riflette i rapporti sociali non come appaiono ma come sono.
L’unico modo di intendere l’immagine marxiana altrimenti priva di senso è in chiave lacaniana; bisogna far riferimento alla cosiddetta fase o stadio dello specchio. Come là non esiste un corpo unitario del bambino prima e indipendentemente della sua immagine riflessa nello specchio e riconosciuta come tale dal bambino stesso, ma il corpo proprio, la sua padronanza, sono il risultato, la prestazione specifica dello specchio riflettente, così non esiste nessun lavoro concreto, nessun bisogno immediato e naturale prima della prestazione della merce. Infatti prima della merce non esistevano i bisogni, ma esisteva soltanto il valore d’uso degli oggetti, ossia la fruizione del senso incorporato in essi. Dopo la merce esiste il valore di scambio che produce come sua prestazione specifica l’illusione del corpo come fascio di bisogni e della natura come insieme degli oggetti atti a soddisfarlo.
Il valore d’uso interpretato come ciò che dell’oggetto risponde ad un bisogno immediato e naturale è il feticcio della merce, è la prestazione specifica della fantasmagoria prodotta dalla merce: il valore d’uso come uti è feticistico, ossia sta al posto di un’assenza, al posto cioè di un valore non scambiabile, senza equivalenza, al posto di ciò che sfugge alla scambiabilità generale, al posto del plus-valore. Infatti l’oggetto si scambia per definizione con il bisogno: è la regola sencondo al quale ad ogni bisogno corrisponde un oggetto dato, per ogni bisogno c’è un oggetto e il risultato è sempre zero.
Se c’è un valore d’uso anche nel capitalismo esso è il valore d’uso del valore di scambio, è la fruizione irriducibile alla scambiabilità del valore di scambio. È la fruizione del valore in quanto tale e il valore in quanto tale è sempre un valore in più, ossia insieme e indecidibilmente qualcosa che vale di più e che è più del valore stesso.
C’è di più e di più grave nell’interpretazione del teoria del valore d’uso comne utilità dell’oggetto: c’è infatti la tesi del valore del lavoro in quanto tale. Se il valore d’uso coincide con l’utilità dell’oggetto nel suo rispondere ad un bisogno immediato e naturale, questo valore gli verrà dal lavoro, dall’abilità, servito a produrlo. Il lavoro dunque ha un valore in sé dal momento che esso produce oggetti utili alla riproduzione della specie. Ora questo è esattamente il concetto del lavoro servile: il lavoro serve alla riproduzione della specie. Così come le donne partoriranno con dolore, gli uomini si guadagneranno la vita col sudore della fronte. Il lavoro ci fa servi della riproduzione e delle esigenze naturali: anche se si eliminassero i padroni e/o i capitalisti - i padroni moderni - si resterebbe sempre schiavi del lavoro - lo stalinismo è stato questo, la servitù generalizzata nei riguardi del lavoro.
Ora Marx non ha mai creduto a questa stupidaggine piccolo-borghese del valore del lavoro, espressione da intendersi in doppio senso: sia in quello che il lavoro ha valore perché produce oggetti d’uso, sia perché valorizza l’uomo che lo fa: appunto il lavoro nobilità o il lavoro rende liberi! Il lavoro non ha mai valorizzato nessuno: essendo per natura servile il lavoro per gli antichi era qualcosa di assolutamente negativo e il valore d’uso stava infatti tutto dalla parte dell’ozio. Era l’ozio che permetteva agli uomini che se lo potevano permettere di fruire del senso degli oggetti, cioè dell’esperienza in essi accumulata e conservata, protetta. Gli antichi non hanno mai pensato che il valore d’uso di un cibo stesse nel soddisfare la fame: questo era proprio dei servi, dei barbari, dei folli. Stava nella fruizione di sapori particolari, nel gusto per strani accostamenti: nel soddisfare la fame si godeva contemporaneamente di tantissime altre cose. Così la sessualità non serve né a riprodurre la specie né a cercare un soddisfacimento immediato. Ma a cercare il godimento nelle perversioni più strane e negli oggetti più improbabili oltre che nello struggersi piacevole nelle pene d’amore. Tutto questo richiede ozio non lavoro. Il lavoro non ha valore.
La teoria del valore-lavoro come la si chiama adesso non ha mai significato che il lavoro avesse un valore in sé e producesse valore, anzi che avesse valore perché era in grado di produrlo sotto forma di valore d’uso; significa che il lavoro sottoposto al valore di scambio e trasformato oggettivamente in forza-lavoro misurata dal tempo di lavoro necessario, producendo valore di scambio produce anche e necessariamente plus-valore, ossia valore in più. Insomma ad essere produttore di valore e plus-valore non è il lavoro in quanto tale, ma la merce forza-lavoro, ossia il lavoro trasformato in merce, quindi diventato valore di scambio. Quello che produce valore è insomma una merce - la merce forza-lavoro - vale a dire il lavoro passato al vaglio del valore di scambio.
La merce produce valore producendo altre merci: come diceva Sraffa la produzione capitalistica è produzione di merci a mezzo di merci. E di conseguenza la realtà è che i rapporti sociali fra gli uomini sono rapporti sociali fra cose. E che l’unico lavoro in gioco sia il lavoro astratto: al di là del lavoro sta oggi come ieri solo il consumo improduttivo, ossia il valore d’uso.
In che consiste allora la decostruzione storico-materialista del feticismo della merce? Non a riappropriarsi del valore del lavoro nè del suo risultato. Ma nello smontaggio del dispositivo del feticismo: nel mostrare cioè quello che la merce vela e nello stesso tempo mostra anche se in negativo: lo scambio ineguale e quindi l’estrazione di plus-valore che nella normalità dei rapporti di produzione resta invisibile. L’operaio non ha da riappropriarsi di niente, solo di governare questo processo in modo che i suoi effetti, ossia il plus-valore, possa di nuovo essere fruito come valore d’uso, ossia consumato in perdita.

L’attuale configurazione del capitale è tuttora sotto il dominio del feticismo delle merci:: se la prestazione specifica del feticismo è quella di produrre la credenza nell’esistenza del valore d’uso, non nel senso del valore d’uso del valore di scambio, ma del valore d’uso degli oggetti prodotti e quindi del valore d’uso come soddisfazione di bisogni, allora mai come adesso il capitalismo realizza la sua verità profonda. Il comando del capitalismo è ‘Godi!’, ossia soddisfa bisogni. Se il tuo obiettivo è la soddisfazione dei bisogni allora il capitalismo è salvo perché viene giustificata la produzione di oggetti come ciò che risponde al bisogno ed è salvaguardata l’equivalenza, la scambiabilità generale. La critica fatta al capitalismo perchè in nome del profitto non darebbe soddisfazione ai bisogni non lo preoccupa affatto, anzi è la sua linfa vitale. Il capitale ha bisogno che da qualche parte sia fondata l’equivalenza: poiché sa di non poterla fondare al livello del valore di scambio perché esso è fondato in realtà su uno scambio ineguale, deve ricorrere attraverso il feticismo della merce all’oggetto che si scambia con un bisogno. La crescita esponenziale dei bisogni - di fatto l’intera sfaccettatura della vita stando al concetto di biopolitica foucaultiana -, dal bisogno della salute a quello del benessere generale, è parte integrante del capitale. Anche il welfare come aveva sempre saputo una corrente del marxismo oggi del tutto scomparsa ad opera di coloro che si dichiarano comunisti, era parte integrante del trionfo del capitalismo, il welfare come risposta del capitale alla grande crisi degli anni venti del secolo scorso in cui rientravano anche hitlerismo e stalinismo oltre che il new deal americano.
Tutte le descrizioni del capitalismo attuale fondate sulla spettacolarizzazione, sul primato dell’immagine, dell’apparire sull’essere, dell’invadenza della televisione e degli effetti di virtualizzazione dei media, sono false perché misinterpretano il feticismo prendendo la metafora dello specchio in modo semplice, banalizzandola come semplice deformazione: si confonde il capitale con la stanza degli specchi deformanti che una volta faceva parte delle attrazioni del luna park e si rideva perché ci si vedeva schiacciati o altissimi, grassi a dismisura o terribilmente magri mentre si era sempre gli stessi. Ma è il proprio corpo così com’è, nella sua normalità, ad essere un effetto dello specchio. È il corpo ad essere un effetto di specchio, ad essere un immagine!

L’imperativo categorico di un’etica comunista è al contrario di quello del capitale: ‘Desidera!’ Desidera e poi godi in modo parziale perché non esiste un oggetto che possa come oggetto del desiderio essere esaustivo. O perché il desiderio non è un bisogno e non lo sarà mai. L’oggetto del godimento è sempre parziale, indiretto, perverso, simbolico, mai reale, mai naturale. Sarà un godimento del valore di scambio. Siamo in grado di godere del valore di scambio, cioè di godere del valore? Siamo in grado di fruire del valore d’uso degli oggetti, cioè della memoria inconscia depositata in essi? O ancora: siamo in grado di godere delle merci di ciò che in esse sfugge alla scambiabilità generale?

Un’etica comunista è un’etica del desiderio. E risponde alla domanda: cosa fare di ciò che sfugge alla legge dello scambio pur essendo prodotto attraverso di essa?