domenica 15 dicembre 2013

Colonna continua 10

1) Ho passato tutta l’ultima estate a leggere i titoli - libri, saggi e articoli - presentati dai candidati all’abilitazione scientifica in Filosofia morale: un’attività ai limiti dell’abbrutimento. Unica distrazione e unica salvezza, in una città chiusa per ferie, è stato rivedere -  una puntata a sera come ai vecchi tempi - molti degli sceneggiati televisivi degli anni sessanta-settanta riversati su dvd e commercializzati dalla Rai. Non tutti: di alcuni come Mastro don Gesualdo, I Giacobini, I Camaleonti, La pisana, o non c’è più traccia o sono per il momento esauriti e in attesa di ristampa. Guardandoli ho pensato spesso a un passo benjaminiano dei Passages: quello in cui Benjamin sostiene che in ogni cosa - vita umana, opera o epoca storica - giace sul fondo, nascosto ma allo stesso tempo protetto dalle forze della distruzione, un nucleo redento, adempiuto e salvo, che  cerca costantemente il momento giusto, l’adesso adatto, per manifestarsi. Lo chiama: ‘l’indistruttibilità della vita più elevata in ogni cosa’. A tal fine questo nucleo non disdegna nulla,   sfrutta tutto,  anche  quello che dal punto di vista di una cultura ‘alta’ ‘nobile’ e ‘disinteressata’ oltre che ‘progressista’, viene considerato o spurio o del tutto negativo. Nelle figure dei Passages:  i passaggi stessi, poi l’architettura in ferro e vetro,  le esposizioni universali, la prostituzione, le vetrine, la moda e, dulcis in fundo, la merce. E quindi anche i nuovi media. Secondo l’ideologia borghese non può che essere un affronto nei riguardi di Goethe, scrive  Benjamin, ‘ridurre cinematograficamente il Faust’ e ‘un abisso separa il poema del Faust e il film su Faust’. Per Benjamin  al contrario il vero abisso sta fra ‘una buona riduzione cinematrografica del Faust e una cattiva’ e decisivi non sono mai ‘i “grandi contrasti” ma solo quelli dialettici che spesso sembrano estremamente simili a delle sfumature’: è da questi ultimi però che ‘la vita rinasce sempre di nuovo’.
Non è detto allora che la vita del Faust di Goethe, il suo nucleo indistruttibile e elevato, la sua verità colta sub specie aeternitatis, sia rispettata solo da una lettura in solitaria o da una messa in scena (già questa, come è noto, ai limiti dell’impossibilità). Lo può essere da un   opera musicale, da una riscrittura in prosa, da una traduzione (penso a quella italiana di Franco Fortini), da un film e infine da uno sceneggiato televisivo, oggi da un video. La differenza non si fa fra il medium della lingua e quello delle immagini in movimento riprodotte tecnicamente, ma  fra  una cattiva lettura e una buona, fra  una traduzione pessima e una ottima (nel senso di Benjamin: quella che più si avvicina alla pura lingua), fra un film sbagliato e uno riuscito (come quello di Sokurov), fra uno sceneggiato televisivo e una fiction.  Insomma fra  ‘La vita è bella’ di Benigni e il fumetto Maus di Art Spiegelmann è quest’ultimo che rende giustizia alle vittime dei forni e rilancia la verità di fumo dei campi di concentramento.

2) Allora lo si chiamava: lo specifico televisivo. L’espressione, coniata sul più vecchio e blasonato ‘specifico filmico’ di Guido Aristarco & company, indicava la ricerca della prestazione specifica sul piano dell’espressione artistica che le nuove tecnologie mediatiche potevano offrire. Come sempre accade un nuovo media, prima di scoprire la sua vocazione propria, ricapitola tutti  i precedenti e in particolare quelli che gli sembrano i più affini. Così la fotografia rifece  la pittura e la televisione il cinema e il teatro. Più tardi si capì che la televisione discendeva dal telefono e al massimo dal radar e le cose incominciarono a cambiare.  Sono tuttavia proprio i primordi,   i  tempi preistorici, i tempi cioè in cui le cose non sono ancora definite, ma fluttuano in un vortice, quelli più  adatti all’innovazione e alla sperimentazione: così fu tentata attraverso la  trasposizione di opere letterarie a vario titolo famose in sceneggiati ed il trasferimento di pièces teatrali dai palcoscenici agli studi televisivi,  l’invenzione di un nuovo linguaggio che non fosse né letterario e né teatrale ma nemmeno filmico, qualcosa appuno di televisivo e basta, nonostante  - o forse era proprio per questo? -  facesse propria la maggior parte delle innovazioni prodotte dai e nei precedenti media. Di tutti gli sceneggiati che ho rivisto l’unico che non rispetta il criterio che ho indicato è proprio I promessi sposi (la prima edizione quella di Sandro Bolchi con Paola Pitagora e Nino Castelnuovo nelle parti di Lucia e Renzo,  Tino Carraro come Don Abbondio, Lea Massari la monaca di Monza e Massimo Girotti fra Cristofaro): la monumentalità di cui in Italia il romanzo di Manzoni  è stato rivestito  tolse agli sceneggiatori e al regista qualunque libertà. Ne venne fuori un prodotto ingessato, eccessivamente didascalico con quelle pedanti   introduzioni alle puntate e i pedagogici riassunti di quelle precedenti  letti oltretutto da un funereo e triste Giulio Bosetti. Ma per tutti gli altri vale il principio sovra esposto: sono delle invenzioni pure, né letteratura, né teatro e neppure cinema. Sono un irripetibile, un blocco di opere che andrebbe studiato in quanto tale come un genere a sé e in cui spiccano almeno tre nomi di registi (alle volte anche sceneggiatori) che andrebbero trattati come dei veri e propri autori e che sono: Giacomo Vaccari, Sandro Bolchi e Edmo Fenoglio. Il primo diresse L’idiota con Giorgo Albertazzi e Anna Proclemer, Annamaria Guarnieri, Gianni Santuccio, Lina Volonghi e Sergio Tofano (oltre come già detto un Mastro don Gesualdo con Enrico Maria Salerno e Lidia Alfonsi); il secondo, certamente il più prolifico, le due parti del Mulino del Po di Riccardo Bacchelli, I fratelli Karamazov e  I demoni  di Dostoevskji, Anna Karenina di Tolstoi e i Miserabili di Hugo (cito ovviamente quelli che ho rivisto); Edmo Fenoglio i Buddenbrook di Thomas Mann.

3) La libertà di questi autori nei confronti sia del media precedenti sia verso la stessa televisione è totale. Essi sfruttano a pieno le differenze del mezzo televisivo  riguardo a ciò cui pure si ispirano: rispetto alla letteratura l’espressione attraverso la sequenza delle immagini in movimento, rispetto al teatro le tecniche della fotografia e del cinema: il fermo immagine e il rallenti, il primo piano e lo zoom, il campo medio e la ripresa multipla e soprattutto il piano-sequenza, rispetto al cinema la diretta e il qui e ora. Contemporaneamente Edmo Fenoglio gira i Buddenbrook come un film di Fassbinder o di Angelopoulus sottoponendo gli spettatori di allora ad uno stress percettivo e cognitivo  come quando  riprende in   campo lungo l’atrio della fastosa dimora dei Bundenbrook all’epoca del loro splendore  facendo ogni volta attraversare agli attori  lo studio in tutta la sua lunghezza  quasi ci si trovasse a teatro.  Usano a piene mani il dolly, riprendono la scena dall’alto, muovono di continuo le telecamere - e tutto questo in studio. Sandro Bolchi arriva ad inondarlo per girare la piena del Po. Ma ciò che più colpisce è la prestazione degli attori: e non solo perché sono i più bravi attori italiani di teatro - da Corrado Pani a Umberto Orsini, da Salvo Randone a Lea Massari, da Carla Gravina a Giancarlo Sbragia, da Sergio Fantoni a Valeria Moriconi, da Raul Grassilli a Ottavia Piccolo, da Nando Gazzolo a Glauco Mauri, da Ileana Ghione a Tino Carraro, da Giulia Lazzarini a Gastone Moschin, da Luigi Vannucchi a Lilla Brignone, da Gianni Santuccio a Lina Volonghi, da Giorgio Albertazzi a Anna Proclemer e da tanti altri altrettanto bravi anche se meno conosciuti -, ma perché sono stati capaci di unire due tecniche attoriali non solo diverse ma soprattutto opposte: quella teatrale e quella cinematografica. Le scene in cui erano suddivisi quegli sceneggiati duravano di media  dai venti minuti alla mezzora ed erano recitate in diretta e senza tagli: l’attore doveva usare una tecnica teatrale. Allo stesso tempo  recitavano non  per un pubblico in carne e ossa ma  per una apparecchiatura e in questo caso  la tecnica attoriale era quella cinematografica. Oggi che la fiction è girata  fuori dagli studi o in ex studi cinematografici, l’attore televisivo può al massimo trasferirsi al cinema ma non appena tenta il teatro frana inevitabilmente: gli manca il controllo della voce, la capacità di concentrarsi, la costruzione  in tempo reale del personaggio. Basterebbe questa strabiliante perfomance attoriale per riconoscere allo sceneggiato televisivo di quegli anni un posto di rilievo nella storia della cultura e nelle scuole per attori.
Poiché mi tocca la seconda tornata dell’abilitazione scientifica prego la Rai di pubblicare in tempo tutto il rimanente posto che ce l’abbia ancora e, visto che andava tutto in diretta e non sempre si registrava, non sia andato perduto.

sabato 14 dicembre 2013

Colonna continua 9

1) Saranno contenti tutti coloro che a vario titolo e con diverse argomentazioni si sono opposti all’approvazione di una legge che sancisse come reato penale la propagazione e il sostegno  delle tesi cosiddette ‘negazioniste’ in riferimento all’esistenza dei campi di concentramento nazisti, delle camere a gas e dei forni crematori, vale a dire rispetto all’effettualità storica della soluzione finale, dello sterminio degli ebrei. Secondo una notizia riportata dal Corriere della sera di  quasi un mese fa (13 novembre 2013) un professore di liceo che insegnava ai suoi alunni  nell’ordine che i fatti dell’Olocausto non sono veri, che i filmati sulle deportazioni sono dei falsi e che in fin dei conti gli ebrei  sono dei furbi dai quali bisogna guardarsi, è stato assolto da un tribunale italiano ‘perché il fatto non susiste’. Non è stata applicata  nemmeno la legge Mancino che sanziona la discriminazione e l’odio etnico   sia esso  di tipo nazionale, razziale o religioso. Semplicemente non esiste una norma con cui si possa perseguire penalmente coloro che diffondono e promuovono la negazione della Shoah impedendogli di continuare a esternare le loro opinioni. In nome di una perversa interpretazione dei principi della libertà di pensiero e di espressione e facendosi scudo di una citazione - questa sì del tutto falsa - di Voltaire secondo la quale  anche se disapprovo quel che dici mi batterò lo stesso perché tu abbia il diritto di continuare a dirlo, si accetta che si possa impunemente negare l’Olocausto senza comprendere che non si tratta semplicemente di  un enunciato  constativo che di per sé  potrebbe essere indolore, ma di  un performativo che nel momento in cui dichiara mai avvenuto lo sterminio per ciò stesso ne auspica la realizzazione, definitiva  questa volta.  Negare l’Olocausto significa soltanto che ci si è fermati a metà dell’opera ed è tempo  finalmente  di  portarla a compimento.

2) Tutto quello che c’era da dire sul ‘negazionismo’ l’ha detto e scritto egregiamente Donatella Di Cesare in Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo (il Melangolo, Genova 2012).  Citando fra l’altro un testo bellissimo ma poco noto di Jacques Derrida intitolato nella versione a stampa Feu la cendre (in italiano tradotto da Stefano Agosti: Ciò che resta del fuoco), ma quando era ancora una conferenza detta a voce [così   l’ascoltai tanti anni fa dalla viva (?) voce di Derrida] Il y à là cendre. Titoli comunque entrambi ambigui e doppi: il primo potendo significare sia Fu la cenere sia Fuoco la cenere e quindi Fu fuoco la cenere e  Fuoco fu la cenere, il secondo C’è la cenere e C’è là cenere. Inutile dire che la cenere in questione, questa cenere  che è sempre là, sempre  in via di dispersione, mai presente, di cui è impossibile di conseguenza il raccoglimento e quindi il logos,  che non sopporta nessun enunciato constativo, questa cenere è  la cenere di Aschwitz, la cenere  dei   forni crematori, ciò che resta, senza restare d’altronde, dell’Olocausto, del fuoco brucia-tutto. Questa cenere è l’unico testimone - un testimone evanescente, sempre in via di sparizione, un testimone incredulo di ciò di cui è chiamato a testimoniare - della verità di Auschwitz, cioè sia del  fatto che Auschwitz sia veramente accaduto sia della verità sull’uomo di cui Auschwitz è testimonianza per quanto sia una verità di fumo, una verità che se ne va in fumo. Questa cenere è l’unica cosa - una cosa misera e tenera - in grado di recare testimonianza del fuoco dei forni: per questo la cenere fu fuoco, il suo albero genealogico ha inizio nel fuoco. Ma è vero anche il contrario: fuoco fu la cenere, il fuoco sarà stato cenere. La cenere è da sempre, ma differita nel fuoco. Non la si potrà distruggere appiccando di nuovo il  fuoco, la cenere lo precede in un passato mai stato presente e lo incenerisce ritornando dal futuro anteriore in cui dimora. Impossibile sfuggire alla cenere, impossibile negarla: essa è già  negata e anticipa qualunque negazione futura. Sempre là, imprendibile.

3) La cenere fa fuoco dritto al cuore. Quando  ne Il discorso e la cenere (Quodlibet 2006, ma la prima edizione è del 1988) mi sono occupato  del testo di Derrida sulla cenere  il contesto era rappresentato da una domanda sul compito della filosofia dopo Auschwitz, in particolare da questa domanda: che ne è della verità dopo lo sterminio? È ancora possibile o dobbiamo rinunciarvi per sempre? Non è scomparsa dentro i forni crematori? Non è diventata cenere? Se in gioco è la verità come adeguazione fra la cosa e l’intelletto, la verità come deduzione sillogistica e correttezza proposizionale, non c’è alcun dubbio: questa verità è sprofondata per sempre. Ma per parafrasare un celebre detto di Pascal c’è una verità dei filosofi e una verità vivente, una  verità indifferente nella sua presunta universalità alla sofferenza  umana e una verità che marchia a fuoco, una verità  perforante la corazza dell’io, una verità che vincola e costringe. Per dirla con Lacan la verità che ci concerne è  quella che fa da causa materiale all’agire del soggetto. È questa la verità che fuma dai camini di Auschwitz, una verità traccia, una verità evento, una verità destino, una verità patica, una verità pena.
Ciò che più di tutto colpisce  nelle argomentazioni di coloro che si oppongono alla legge sul negazionismo è l’uso disinvolto che fanno della verità: essi   temono  che in tal modo la verità possa trasformarsi in una verità di stato,  una verità imposta dall’alto, una volta per tutte, sottratta di conseguenza alla libera ricerca, all’incessante revisione, al dibattito critico. La verità, aggiungono, non può essere imposta per legge. Ma così facendo denegano la verità, e cioè che  è la verità ad essere  la legge, che anche quando essa  assume la forma del   più tollerante e rispettoso degli enunciati constativi essa è in realtà un enunciato prescrittivo e performativo insieme, una parola che ordina e fa essere la cosa. La verità non si dice nel discorso dello storico e del filosofo, la verità accade  - cade e si disperde come cenere - e accadendo può gelare ed indurire i cuori o incendiarli fino a ridurli in cenere.

4) Chiara Conterno ha tradotto recentemente Gli epitaffi scritti sull’aria di Nelly Sachs (Progedit 2013), una serie di poesie scritte fra il 1943 e il 1946 in memoria di persone realmente esistite e deportate nei campi di concentramento. Premio Nobel nel 1966 insieme allo scrittore israeliano Josef Agnon, Nelly Sachs,  dopo aver   vissuto dieci anni, dal 1930 al 1940, a Berlino con la madre  in condizioni disperate per le persecuzioni dei nazisti, riesce, con l’aiuto di Selma Lagerlöf, di cui sarà la traduttrice in tedesco, a rifugiarsi in Svezia dove, essendosi rifiutata di tornare in Gemania a guerra finita,  morirà nel 1970. Anche in Svezia  continuerà  tuttavia a sentirsi perseguitata fino ad ammalarsene; in una lettera del 1960 a Paul Celan, amico insieme alla moglie, di Nelly Sachs, Inge Waern, una amica della poetessa, così ne descrive la condizione: «Li è malata.  A tratti - era terribile -  scriveva anche tutto su dei pezzi di carta,  in quanto la sia spia  dovunque, e così siamo là, con le tende  abbassate, e non posso nemmeno telefonare. Lei crede che i suoi persecutori vogliono che tutti i suoi amici la prendano per una malata mentale in modo  da farla diventare pazza». E in una lettera alla moglie Giséle, inviata da Stoccolma qualche giorno dopo, Paul Celan scrive a sua volta: «che dirti di Nelly? Soffre molto. Non vuole più sentir parlare delle sue poesie. “Non voglio serbare - e unisce il pollice e l’indice della mano destra a forma di anello - che questa piccola luce”. Disturbi che vengono da mille lati, da lontano e da vicino. A proposito di una lettera di Ingeborg - scritta dopo la mia telefonata - alla quale I. aveva aggiunto un paio di guanti bianchi, Nelly ha detto: “Dei guanti bianchi, vuol dire: “mi lavo le mani nell’innocenza - ich wasche meine Hände in Unschuld -, dunque prova di falsità”!!!». Qual è la verità per Nelly?