lunedì 13 luglio 2015

  


Ripubblico un testo edito nella rivista «Zeta Filosofia. Territori delle idee», N. 5, pp. 12-15, supplemento al n. 86/87 di «Zeta News rivista internazionale di poesia e ricerca», anno XXXI.
 


Il male e l’estetizzazione

 Più o meno alla metà degli anni trenta Walter Benjamin aveva già tratto tutte le conseguenze implicite nel passaggio epocale rappresentato dall’avvento dei nuovi media – fotografia, radio, cinematografo, telegrafo e telefono e forse addirittura televisione (i primi esperimenti televisivi avven­gono in concomitanza con le olimpiadi berlinesi del 1936) – e in particolare dalla loro caratteristica principale: la riproducibilità tecnica dei suoni e delle immagini. La tesi tuttora rilevante era la seguente: se  i nuovi media, quelli cioè che a partire da Marshall McLuhan  sono universalmente definiti come ‘elettrici’, producono effetti devastanti nella sfera della produzione culturale da un lato e dell’organizzazione politica dall’altro, è perché in primo luogo modificano le coordinate stesse della percezione, vale a dire del livello in cui si costituisce, per così dire allo stato nascente, l’esperienza in generale, e sul quale poggiano tutte le forme di vita, anche  quelle considerate più nobili e elevate.
In  Benjamin questa trasformazione della percezione trova la propria ci­fra nel concetto dell’aura:  contro il frastuono provocato dalle lamentazioni   per la perdita dell’aura, bisognerebbe ricordare che per Benjamin essa non è altro che un’allucinazione di natura psicotica che come un fantasma tende a invadere il campo della percezione cosiddetta normale. Il termine, impa­rentato con il perturbante freudiano,  denota l’esperienza in cui le cose, cioè gli oggetti d’uso, quelli cosiddetti inanimati, si animano all’improvviso, mo­strano di avere vita propria, in particolare ci restituiscono lo sguardo. Gli oggetti dotati di aura sono quelli che, pur essendoci vicini, a portata di sguardo e di mano, tuttavia restano inafferrabili, slontanano in una regione inaccessibile,  sono del tutto imprevedibili come se fossero governati da una potenza estranea se non alle volte esplicitamente ostile e soprattutto tale da sovrastarci completamente. Da qui la ragione per cui di fronte all’aura non ci si può che inchinare e sottomettere.
   Per Benjamin l’aura  svolge una funzione positiva  solo nel caso in cui possa costituire il medium attraverso il quale una tradizione culturale  e la comunità che in  essa  trova il proprio fondamento si trasmettono da una generazione all’altra.  Il paradosso della posizione di Benjamin, raramente notato dalla critica, consiste nel fatto che l’unicità dell’opera d’arte, la sua autenticità, in una parola la sua aura, acquista un valore solo se si pone al servizio della ripetizione, cioè della trasmissione dell’esperienza accumu­lata.  Nella misura in cui l’aura, secondo la definizione di Benjamin, non è altro che l’esperienza depositata in un oggetto d’uso, la possibilità che quest’ultima non si disperda ma  si conservi come patrimonio di una comu­nità storica richiede che l’opera venga inserita in un rituale. È il carattere ri­petitivo di questo ultimo che assicura la prestazione specifica dell’aura: tra­smettere  il contenuto d’esperienza. L’opera quindi è ‘autentica’ non perché sia l’espressione della creatività o della genialità soggettiva, ma perché par­tecipa di un rituale in cui si trasmette qualcosa di fondamentale per la vita di una comunità: è la tradizione che autentica l’opera, non l’autore.
 Dal  momento in cui la modernità dissolve alla radice il principio co­munitario e la trasmissione del patrimonio culturale fondata sul rituale, l’aura decade irreversibilmente a potenza demonica, effetto perturbante, ap­parenza ingannevole e di conseguenza a mero strumento di dominio.  È di fronte a questo esito della modernità che va colta la specificità dei nuovi media: essi liquidano definitivamente, attraverso una modifica integrale del campo percettivo, il residuo allucinatorio cui l’aura   era stata ridotta   una volta emancipata dal rituale. In primo luogo i nuovi media, attraverso il di­spositivo della riproducibilità tecnica, liberano la fruizione delle opere dalla tirannia del luogo, dalla forza obbligante del ‘qui e ora’: l’opera è fruibile dovunque e quindi l’esperienza circola, non può più essere confiscata da nessuno, si democratizza. In secondo luogo, se prima le opere, pur essendo vicine, manifestavano una lontananza inaccessibile, ora anche le più ogget­tivamente lontane sono avvicinabili,  vengono a portata di mano. Per un pa­radosso di cui ancora oggi si nega l’importanza rivoluzionaria, più le cose divengono manipolabili, più ci si emancipa dal loro dominio.
La conseguenza più massiccia dell’avvento dei nuovi media è quindi la riappropriazione da parte delle masse, finora escluse dalla fruizione delle opere se non nei limiti indicati dal rituale, di tutta la cultura finora prodotta dall’umanità e il suo uso rivoluzionario: se finora il patrimonio culturale era servito a legittimare le classi dominanti, ora esso può diventare il viatico per le lotte di emancipazione delle classi dominate. Scompare la vecchia aristo­cratica figura dell’intenditore d’arte e al suo posto subentra quella delle masse prodotte  dalla moderna società industriale, delle masse che nel sag­gio su Baudelaire Benjamin definirà civilizzate e  denaturate, risultato dell’organizzazione capitalistica del lavoro e delle forme di vita basate sul valore di scambio. La cultura si fa di massa, cioè è prodotta per le masse ed è prodotta dalle masse.  
Come sempre quando l’umanità è sottoposta ad una rivoluzione me­diatica, il primo effetto registrato è quello di una perdita: facoltà fino ad al­lora considerate non solo indispensabili ma anche nobili, si atrofizzano fino a scomparire, sostituite da dispositivi che, facilitandone oltre ogni misura l’esercizio, sembrano anche  impoverire l’esperienza di cui erano garanti.  Ma, dice Benjamin, non bisogna lasciarsi ingannare dal fatto che  le nuove forme di fruizione legate ai nuovi media si manifestino all’inizio in forme screditate:  se, ad esempio,  l’effetto specifico che i nuovi media hanno pro­dotto sulla percezione è stato quello di renderla ‘distratta’, e se ciò sembra contrastare con il fatto che l’arte invece chiede all’osservatore uno speciale raccoglimento laddove le masse vogliono soltanto distrazione, ad una ana­lisi più attenta questa tesi si rivela essere solo un luogo comune. Invece di sprofondare nell’opera per riuscire a gustarla, la massa distratta, dice Benjamin, fa sprofondare nel proprio grembo l’opera d’arte, e in tal modo se ne impadronisce. Nella percezione distratta che si consuma soprattutto a ci­nema e oggi nella televisione o in internet, le masse imparano a valutare e decidere autonomamente.
Ora, è proprio  a causa del fatto che la saldatura fra le masse e la ripro­ducibilità tecnica innesca processi complessivi di emancipazione connessi alla perdita dell’aura, alla dissoluzione di tradizioni oppressive, all’abolizione finanche dei rapporti capitalistici di produzione – la critica dell’aura si confonde in Benjamin con quella marxiana dell’arcano della forma di merce essendo quest’ultima l’unica cosa che nella modernità sia ancora dotata di aura –, che la risposta del capitale consisterà secondo Benjamin nella radicale estetizzazione della politica. Piuttosto che tentare ancora una volta di spoliticizzare l’arte, occorrerà far diventare arte la poli­tica, declinare la politica  nei termini  della produzione del dominio delle immagini. Se la politica una volta presa in carico dai nuovi dispositivi della riproducibilità tecnica è divenuta essa stessa immagine – Benjamin accenna già all’esposizione pubblica, alla messa in vetrina, delle classi dirigenti, di­venute da questo punto simili alle merci, e sottoposte di conseguenza    allo sguardo distratto, cioè disincantato, delle masse -,  allora essa dovrà essere trattata come se fosse un’arte, ossia l’arte della produzione delle immagini, ma di immagini  che, pur essendo situate in un contesto totalmente nuovo,  fungano però da immagini cultuali, producano un effetto d’aura, siano soli­dali col dominio.
È questo per Benjamin il tratto peculiare del fascismo: «esso tenta di or­ganizzare le recenti masse proletarizzate senza però intaccare i rapporti di proprietà di cui esse perseguono l’eliminazione». Il fascismo pertanto vede la propria salvezza,  non nella mera repressione della masse, ma nel consen­tire ad esse di esprimersi, fermo restando che questo  paradossale diritto all’espressione è cosa ben diversa dal riconoscimento dei propri diritti: «Le masse, prosegue Benjamin,  hanno diritto ad un cambiamento dei rapporti di proprietà; il fascismo cerca di fornire loro un’espressione nella conserva­zione delle stesse; il fascismo tende conseguentemente a una estetizzazione della vita politica».
Le masse diventano a loro volta immagini infinitamente riproducibili, occupano la scena come delle merci, si espongono nella scena cine-televi­siva, sono trasformate in immagini cultuali, asservite a riprodurre quei rap­porti di proprietà da cui vorrebbero emanciparsi,  avvolte d’aura  in un mondo senz’aura.
  Tuttavia, l’estetizzazione da sola non è in grado di tenere a freno  i processi di emancipazione: questi ultimi e le forze che scatenano vanno in­canalati affinché non si rivolgano contro i rapporti di proprietà. Allora lo sbocco è uno solo: la guerra. «Tutti gli sforzi della politica , scrive Benjamin, convergono verso un punto. Questo punto è la guerra. La guerra, e soltanto la guerra, permette di fornire uno scopo ai movimenti di massa di grandi proporzioni, previa conservazione dei tradizionali rapporti di proprietà». Se questo è il modo con cui la situazione si configura dal punto di vista della politica, da quello della tecnica invece la formulazione è la seguente: «sol­tanto la guerra permette di mobilitare tutti i mezzi tecnici attuali, previa conservazione dei rapporti di proprietà».
Dopo un riferimento a Marinetti e al futurismo e all’esaltazione della guerra come guerra bella, quindi alla guerra come opera d’arte, Benjamin scrive: «se l’utilizzazione naturale delle forze produttive viene frenata dall’ordinamento attuale dei rapporti di proprietà, l’espansione dei mezzi tecnici, dei ritmi di lavoro, delle fonti di energia spinge verso un’utilizzazione innaturale. Questa utilizzazione avviene nella guerra la quale con le sue distruzioni è la dimostrazione che la società non era suffi­cientemente matura per fare della tecnica un proprio organo, e che la tecnica non era sufficientemente elaborata per dominare le energie elementari della società».
La discrepanza fra lo sviluppo delle forze produttive e la loro utilizza­zione  nel processo di produzione genera la guerra ‘imperialistica’ che altro non è che «una ribellione della tecnica, la quale ricupera dal materiale umano le esigenze alle quali la società ha sottratto il loro materiale naturale. Invece che incanalare fiumi, essa devia la fiumana  umana nel letto delle trincee, invece che utilizzare gli aeroplani per spargere le sementi, essa li usa per seminare le bombe incendiarie sopra le città; nell’uso bellico del gas ha tro­vato un modo per distruggere l’aura in modo nuovo».
‘Sia l’arte e perisca il mondo’: questa è la parola d’ordine del fascismo e insieme il compimento dell’arte per l’arte. «L’umanità che in Omero era uno spettacolo per gli dei dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa». L’autoestraneazione dell’umanità è giunta a un tale grado da permetterle di «vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine».
Ciò che più colpisce nelle tesi benjaminiane è la loro strabiliante attua­lità: pur essendo state pensate in riferimento alle politiche dei regimi cosid­detti totalitari, esse sembrano adattarsi senza bisogno di eccessivi cambia­menti alle nostre società democratiche e flessibili, sembra anzi che il dispo­sitivo dell’estetizzazione della politica sia stato elaborato propria per esse e che solo per uno strano accidente abbia compiuto i suoi primi passi in un ambiente storico-politico diverso. In particolare quello che si presenta come un dato ormai quasi strutturale è il nesso estetizzazione-guerra.
D’altra parte era stato proprio al nuovo statuto della guerra, manife­statosi con la prima guerra mondiale, che Benjamin nel saggio sulle vicissi­tudini dell’arte della narrazione aveva attribuito la nascita del moderno con­cetto di informazione. La guerra aveva testimoniato in primo luogo del col­lasso delle forme tradizionali  della comunicazione: per la prima volta, a memoria d’uomo, «la gente tornava dalla guerra ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile». La guerra moderna è un trauma che non si fa  esperienza, che resta muto e semmai s’iscrive nell’inconscio manifestandosi in modo sintomale. Al suo posto subentra la realtà dell’informazione il cui tratto peculiare, conforme d’altronde  alla scomposi­zione soggettiva prodotta dalla modernità, consiste nello slegare definitiva­mente la coscienza attuale dell’evento su cui è chiamata a riferire dalla me­moria collettiva attraverso la quale si trasmette  l’esperienza accumulata della comunità: in altri termini l’informazione brucia ogni volta il contesto da cui proviene e dal quale soltanto potrebbe derivare il senso di ciò che ac­cade o sta per accadere. La notizia – l’unità minima dell’informazione – è degna d’essere comunicata a condizione che sia assolutamente nuova, che non abbia nulla a che vedere col passato. Essa vive soltanto nell’attimo in cui è nuova,  coincide con l’attimo e si consuma in esso.
La decadenza della narrazione e la sua progressiva sostituzione con il modello dell’informazione derivano, secondo Benjamin, da un altro tratto specifico della modernità: l’espulsione dell’esperienza della morte dalla per­cezione dei viventi. La credibilità del narrato, la sua potenza veridica ed il suo ruolo di guida pratica, discendono direttamente dall’esperienza della morte; solo le parole pronunciate in punto di morte e con la consapevolezza  della morte imminente diventano parole autorevoli. Si potrebbe anzi dire d’accordo con Derrida che le sole parole autorevoli e credibili sono quelle che si sanno postume mentre chi le pronuncia è ancora in vita.
La morte è la storia naturale di ogni storia: non nel senso che ne sia lo sfondo, ma in quello per cui ne  costituisce l’orizzonte di senso. Scandendo con la sua ripetizione la sequenza della narrazione,  costituendone il ritmo, la morte fonda la memoria e rende possibile la sopravvivenza;  disfacendo il continuum storico assicura all’effimero barlumi d’eternità. Senza la morte solo estasi istantanee, vissuti contingenti senza  durata e senza storia.
Se c’è un paradosso nelle forme moderne e contemporanee delle comu­nicazioni di massa governate dal dispositivo dell’estetizzazione della poli­tica esso consiste nel fatto che il nesso strutturale fra informazione e guerra non si accompagna per nulla ad una accresciuta esperienza della morte, bensì al contrario convive tranquillamente con la sua assoluta inesperibi­lità. È diventato un luogo comune notare come a fronte dell’esposizione sempre più massiccia dello spettatore televisivo alla violenza e alla morte prodotte dalla forme di vita contemporanee (guerre e conflitti sociali d’ogni sorta), si registri sul versante della ricezione psicologica un aumento inver­samente proporzionale delle capacità di assuefazione e di adattamento spinte in molti casi fino all’insensibilità più completa. Come se in mancanza di strumenti  psicologici e culturali atti a sostenere il peso della morte, l’unica reazione fosse la cancellazione dell’esperienza in quanto tale.
    Se la morte, sia essa naturale o violenta, è  la quintessenza di tutto ciò che chiamiamo il male – fisico, morale e metafisico -, allora il dispositivo dell’estetizzazione sembra coincidere con un programma di sradicamento del male dal terreno dell’esperienza umana. Sotto i nomi di Realtà Integrale o Virtuale – declinazioni contemporanee della benjaminiana estetizzazione della politica – Jean Baudrillard ha tematizzato la modalità terminale cui giunge un mondo interamente prodotto e performato dai moderni mezzi di comunicazione di massa. Da questo mondo vengono sistematicamente espulsi tutti gli elementi di conflitto, di eccedenza e di  squilibrio che po­trebbero produrre dolore e sofferenza; in esso  il desiderio è  ridotto  alla condizione del  bisogno  in modo che vi sia sempre un oggetto disponibile per poterlo soddisfare. La conseguenza è che il mondo dominato dalla Re­altà Integrale si impegnerà in una mastodontica liquidazione del male, cer­cando di braccarlo da un lato  nella sua radice genetica (la prevenzione in tutte le sue forme), ma anche e soprattutto nella sua incarnazione storico-politica (guerra – ancora la guerra! – all’’Asse del Male’). Va da sé che il male che si cerca di espellere o di eliminare non potrà che tornare proprio al centro di quella Realtà Integrale che se ne voleva completamente immune. Ritornerà come attacco terrorista, suicidio omicida, dono di morte non re­stituibile.
   Non intendo seguire Baudrillard su questo terreno che mi sembra ol­tremodo scivoloso e ambiguo. Più importante mi sembra tener conto di  una notazione a mio parere decisiva che il sociologo francese fa a proposito della natura del male in quanto tale. Se la Realtà Integrale può impegnarsi nella sua eliminazione ciò accade perchè per essa il male è una realtà oggettiva, una realtà appunto nel senso tradizionale di questo termine come di qual­cosa che non dipende da noi ma  che noi subiamo e che la Realtà Integrale o Virtuale cerca di soppiantare definitivamente. Tuttavia è solo perché è una realtà oggettiva che il male è identificabile, circoscrivibile e di conseguenza liquidabile.
Ora è proprio questa tesi ad essere falsa: per Baudrillard il male al con­trario non «ha realtà oggettiva», esso anzi consiste «nello sviamento delle cose dalla loro esistenza ‘oggettiva’, nel loro ‘rovesciamento’, nel loro ‘ri­torno’». Il male è piuttosto una forma, esattamente la forma del ‘duale’ dell’agon, il cui prototipo è ritrovato da Baudrillard nella pratica del dono   individuata a livello antropologico da Marcel Mauss e generalizzata da Georges Bataille. Se il dono sta sul lato del male è perché esso implica sem­pre la dissimetria e lo squilibrio: per quanto si cerchi con un controdono di pareggiare  il dono ricevuto, vi sarà sempre un altro dono che riaprirà la sfida, fino all’elargizione di un dono non restituibile. Riattivare in qualche modo la pratica del dono – anche in quello dell’attacco suicida alle Torri gemelle – è l’unica forma di opposizione alla Realtà Integrale.
 Se la tesi dell’inconsistenza del male produce in Baudrillard queste conseguenze, essa può essere tuttavia sviluppata anche in un altro modo ed è su questo punto che vorrei soffermarmi in conclusione  ricorrendo ancora una volta a Benjamin. Nel grande saggio sulla lingua del 1916 Benjamin af­fronta il tema del peccato e di conseguenza quello della natura del male. In primo luogo il peccato, per Benjamin, è essenzialmente un peccato nei con­fronti della lingua, consiste in un uso distorto della finalità originaria della lingua che è quella di nominare le cose in quanto create dalla e nella lingua divina. Al di là della cornice mitico-teologica in cui si esprime, la tesi benja­miniana significa che la prestazione propria della lingua è quella di portare all’espressione  il contenuto positivo delle cose, la loro consistenza d’essere, caratteristica che il Genesi indica attraverso  la frase ‘è bene’ con cui Dio suggella ogni singolo atto di creazione.  Nella misura invece in cui il peccato è compiuto dai nostri disgraziati progenitori in vista della conquista della conoscenza del bene e del male, la lingua – solo umana questa volta e non più adamitica, cioè imparentata strettamente con quella divina – si volge – vera e propria perversione dello spirito linguistico – non solo a dire il bene, vale a dire ciò che è, ma anche il male, ossia il non essere. Anzi l’effetto più devastante del peccato consiste nel far credere che per poter dire ciò che è, e quindi affermare il bene, sia necessario preliminarmente isolare ciò che non è,  dire il male e in tal modo combatterlo fino all’eliminazione.  Il risultato è uno solo: l’uomo trascorrerà tutto il suo tempo ad inseguire il male e in tal modo diserterà l’esercizio del bene. D’altronde il compito di eliminare il male è di per sé impossibile dal momento che il male non è niente in sé, nulla di oggettivo, di consistente, è un puro miraggio.
Ma cos’era l’aura quando il rituale cessava di sorreggerla e darle un senso? Pura apparenza. Ma l’apparenza, come Benjamin chiarisce in un la­voro preparatorio al saggio sulle Affinità elettive di Goethe, non è solo quella della moderna filosofia idealistica in cui il fenomeno ha un significato posi­tivo non essendo altro che la manifestazione dell’essenza; è anche l’apparenza ingannevole, lo specchio deformante, l’anamorfosi demonica. L’apparenza, da Platone in poi, è anche il dispositivo che dona la veste dell’essere al non essere, che dà un corpo al nulla, che mostra pornografica­mente l’invisibile.
Anche Benjamin dunque come Baudrillard ritiene che il male non abbia alcuna realtà oggettiva. A differenza del sociologo francese, però, non ne trae la conclusione che l’obiettivo della Realtà Integrale sia quello di liqui­dare il male come se quest’ultimo fosse ciò che oppone resistenza al suo dominio iperpervasivo. Per Benjamin è la Realtà Integrale – posto gli si possa attribuire una simile espressione – ad essere il risultato del diffondersi del male. È il male ad essere all’origine della possibilità dell’estetizzazione e non è la Realtà Integrale a derealizzare il male, bensì il male a derealizzare il mondo.
 Se tutto questo è vero, non sembra plausibile affidare al terrorismo sui­cida il compito di sfidare la Realtà Integrale. Più sobriamente l’emancipazione delle masse continua a richiedere un  lavoro di politicizza­zione delle immagini[1].





[1] I testi citati sono: di Walter Benjamin Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; di Jean Baudrillard Il patto di lucidità o l’intelligenza del male.