Pubblico qui di seguito due
contributi critici a opere prime di giovani poeti.
L'opera della revisione
E ogni volta che inizi una poesia
Convochi i morti
Essi ti guardano scrivere
Ti aiutano
José Emilio Pacheco
Per raggiungere lo scopo dell'arte poetica, ossia riuscire
ad avvicinarsi a quel luogo in cui il dire schiude l'essere e il suono
instaura, dopo averlo sospeso, il senso, il poeta efebo, per usare un'immagine
di Harold Bloom, è costretto a lottare con coloro che lo hanno preceduto in
questa impresa, con i suoi precursori sulla via della poesia, la cui grandezza
sembra aver suturato tutto il campo delle possibilità poetiche, non lasciando
alcuno spazio, neppure un interstizio, al nuovo arrivato che cerca
faticosamente la propria strada e la propria voce. A compensare, tuttavia, il
sentimento dell'angoscia che attanaglia il poeta efebo di fronte all'influenza
che subisce da parte del poeta precursore, sta la consapevolezza che anche
quest'ultimo ha in gran parte fallito: forse per l'impossibilità del compito
stesso che si affida alla poesia, quello, se non di rifare il mondo
dall'inizio, almeno di rovesciarlo come un guanto, anche il poeta precursore,
nonostante la sua inarrivabilità, non è andato fino in fondo, si è fermato, suo
malgrado, a un passo dalla rivelazione. Il dire è ricaduto su se stesso, il
suono ha mancato il senso, l'apocalisse è stata rinviata.
Ogni grande poesia è revisione di una poesia precedente: è
un rifacimento e una riscrittura. A questo proposito Harold Bloom elenca sei
rapporti revisionistici, sei modalità cioè con cui si attua la revisione del
poeta precursore da parte del poeta efebo. Il clinamen, vale a dire il
fraintendimento o travisamento vero e proprio, lo scarto rispetto al poeta
precursore che viene corretto in un punto del proprio itinerario e spinto in
un'altra direzione. La tessera, ossia il segno di riconoscimento, il frammento
che aggiunto agli altri pezzi ricostituisce l'oggetto originario: il poeta
efebo usa gli stessi termini del poeta precursore ma impiegandoli in un altro
senso. La kenosis, ossia l'abbassamento e l'umiliazione: il poeta efebo sembra
eclissarsi di fronte alla superiorità del poeta precursore, ma in questo modo
lo trascina con sé, lo svuota e riequilibra il rapporto. La demonizzazione:
aiutato da un essere inferiore, né divino né umano, il poeta efebo risale a una
potenza anteriore alla poesia del precursore, la quale così perde l'aura
dell'unicità. L'askesis, ossia una forma di purificazione raggiunta attraverso
la solitudine: il poeta efebo rinuncia a una parte delle sue doti umane e
immaginative e in tal modo si isola non solo dagli altri, ma anche dal poeta
precursore che viene a propria volta costretto a un'autolimitazione. E infine
I'Apophrades, il giorno nefasto in cui tornano i morti: il poeta precursore
ritorna nel poeta efebo ma come se a scrivere la sua poesia fosse quest'ultimo.
Con il ritorno dei morti siamo pervenuti al punto massimo dell'opera di
revisione poetica: la poesia del precursore è stata scritta dal poeta efebo.
La spia che mi fa credere che Michele Fogliazza appartenga
alla schiera dei poeti è il fatto che egli non nasconda ma anzi esibisca
spudoratamente il corpo a corpo - un corpo a corpo che dandosi nell'elemento della poesia non può che
manifestarsi nella corporeità della scrittura: la sonora corposità delle
parole - che ingaggia con i
poeti precursori. Che la sua poesia sia per la gran parte un rifacimento e un
approfondimento di quella dei poeti precursori - che per un poeta italiano rispondono ai nomi di Dante
e di Leopardi, precursori lontani, ma soprattutto di Montale e Campana,
precursori questi vicinissimi e la cui influenza innerva d'angoscia le più
belle poesie di questa raccolta - non depone a suo sfavore come se essa fosse mera imitazione, ma è la
prova al contrario di quanto essa prenda sul serio il compito poetico e sia
disposta a pagare il prezzo necessario per essere vera e giusta poesia.
Nella revisione ad esempio dell'Ugolino dantesco decisivo è
lo spostamento, cubista come lo stesso Fogliazza suggerisce, dalla
rappresentazione oggettiva e in fin dei conti solamente accennata dell'orrore,
alla sua resa soggettiva, unica capace di mostrarci a quale grado di
frantumazione l'io debba pervenire per arrivare a quella soglia fra l'umano e
l'inumano, a quel punto di non ritorno nella degradazione, rappresentato dal
«poscia, più che il dolor, potè il digiuno»: l'io si è parcellizzato in una
miriade di piccoli io, di piccoli oggetti che, perduto l'ultimo affiato della
coscienza, si rivelano essere nient'altro che incarnazioni dell'abiezione. Allo
stesso modo nella revisione del passero solitario leopardiano, l'uccello che
cantava solo durante il giorno per tacersi al calare della notte, si trasforma
in un «imbizzarrito animale notturno», in un «dolce urlatore notturno», che
fugge dalla luce solare, si nasconde alla chiarezza del giorno, e attende
silenzioso il tramonto.
Il rifacimento del passero solitario leopardiano ci
introduce al tratto più precipuo del revisionismo poetico di Michele Fogliazza:
l'indeterminazione del rapporto fra il giorno e la notte, fra la luce e il
buio. Il compito della poesia è di schiudere l'essere attraverso il dire, il
senso attraverso il suono: secondo il dettato di Heidegger ciò significa
attribuire al dire poetico la capacità di condurre ciò che è nascosto alla
manifestazione, alla visibilità. Il dire poetico conduce al giorno, offre alla
luce, ciò che fino allora albergava nella notte e nell'invisibilità. Ma è
sufficiente questa opposizione fra la notte e il giorno, fra la luce e il buio?
Dove si raccoglie la notte una volta che si è fatto giorno? Dove il buio? Forse
al centro stesso della luce del giorno. «L'uomo del sole diurno / Scruta
sottile l'orizzonte / Come a studiarne l'avvenire // Ma qualcosa non coglie nel
fluire del vento / Nel continuo luccicare del sole»: non si accorge dell'aria
che diventa sempre «più estranea» e «che s'infossa come nemico nel profondo».
«Diurno», scrive Fogliazza, è termine ambiguo, è «il nome notturno del giorno»:
è la notte quindi ad abitare il culmine del giorno, a installarsi al centro
della luce. Nel cuore del giorno c'è la notte, e se si riesce a guardare fissi
in questa notte ci si accorgerà che essa riluce. Il Dioniso notturno cede il
passo a Fanes, al dio che porta alla luce, che rende visibile il nascosto.
Affisare lo sguardo nella luce è guardare la notte e
viceversa. Blanchot ha sperimentato per primo forse questa doppiezza
indecidibile del giorno: ciò che dovrebbe assicurare l'ordine, la coerenza, il
senso, fa sprofondare nella follia, è la follia. Esiste una follia del giorno
che non è quella della notte, in fondo conosciuta, esplorata, resa innocua.
Esiste una follia che è propria del giorno e che appunto per questo ci
sorprende, è la follia che ci afferra al culmine della sensatezza. «A lungo
andare,» scrive Blanchot, «mi convinsi di vedere a faccia a faccia la follia
del giorno; tale era la verità: la luce impazziva, la chiarezza aveva perduto
ogni buon senso; mi assaliva sragionevolmente, senza regola, senza scopo». Come
il personaggio della Follia del giorno, cui qualcuno aveva schiacciato dei
vetri sugli occhi, vedeva e non vedeva, vedeva, se così si può dire, il buio,
così il poeta deve esprimere gratitudine alla luce troppo forte che lo acceca
perché è solo nel nero dell'accecamento che riesce a vedere il «minuscolo rigo
di fulminosa luce». È in questa luce, simile più a un bagliore della notte che
ai raggi dispiegati del sole diurno, che si offrono i sentieri inesplorati su
cui il poeta deve incamminarsi.
In versi come «Nelle ombre dischiuse la luce si nasconde /
Ed il prematuro buio sviene» e «Volgono al ginepro le ore più viola del sole
basso / nell'ortaglia di fianco al fosso / Giù per la breve collina / La luce
fioca prima si smarrisce / E titillano i contorni / Travolti dal colore / Ecco
pare finalmente / Brulicar di quadratini scoppiettanti / Impazziti! Si diradano
/ ed io con loro perdo luce», sembra di ascoltare l'eco revisionista del Celan
dell'elogio dell'ombra: «Parla anche tu, / parla per ultimo, / dì la tua
sentenza. / Parla / Ma non
dividere il sì dal no: / Dà alla tua sentenza anche il senso: / dalle l'ombra.
/ Dalle ombra sufficiente, / dagliene tanta/ quanto sai ripartita attorno a te
tra / mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte». L'ombra qui non è il riparo dalla
luce eccessiva ma il rilucere proprio della notte a partire dal quale si
origina il senso.
Se si vuole spingere più oltre il lavoro poetico bisogna
modificare profondamente il dettato montaliano: per portare «alla chiarità le
cose oscure» non bisogna favorire la loro tendenza naturale, il loro spontaneo
volgersi alla luce. Bisogna al contrario farle flettere verso l'ombra o verso
l'oscurità. Bisogna contrastare l'eliotropismo del girasole, questo fiore
«impazzito di luce» e rinunciare alla regione delle «bionde trasparenze» dove
«vapora la vita quale essenza». Questo movimento a ritroso, dalla luce
all'oscurità, coincide con un avanzamento verso il peggio: il linguaggio già
stremato dovrà diventare più soffocante, la realtà evocata dovrà essere sempre
più terribile, rovente. Come per i valentiniani l'unico modo per eliminare il
male dal mondo consisteva nel commetterne sempre di più e nello sprofondare in
esso, così bisogna incrementare il male di vivere fino a farlo diventare
irrimediabile. Il male di vivere non si è fermato, esso diviene ancora: prima
era «il rivo strozzato che gorgoglia, / era l'incartocciarsi della foglia /
riarsa, era il cavallo stramazzato» e contro di esso, di là dal muro, si
presentiva il bene «che schiude la Divina Indifferenza», ossia «la statua nella
sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato»; adesso invece
esso è diventato «Il sonaglio attorcigliato all'orecchio / Il morso del prurito
doloroso / L'affanno del respiro». Al male è riuscito «di trovarci anche di qua
dal muro / Nel protetto della stalla vuota / Forte come le fiere nella selva /
Contro il nostro corpo nudo».
Per rifare il mondo forse è necessario che il poeta
sovrapponga al giorno eccessivamente luminoso di Montale la «lunga notte piena
di inganni delle varie immagini» di Dino Campana. Suoni quel
"notturno" che è forse il nome diurno della notte.
L’opera della revisione, riflessione critica in M. Fogliaza, Diurno, Opera prima, Cierre grafica, Verona 2006, pp. 43-47.
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