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venerdì 8 maggio 2020

  Paura e pericolo

Ma chi l’ha detto che la paura deve essere di destra? Fosse vero, tanto per scimmiottare Giorgio Gaber, dovremmo sostenere allora che l’angoscia è di sinistra?  Come il compito, in genere affidato ai capiclasse nelle scuole elementari, di, in assenza del maestro, segnare alla lavagna gli elenchi dei buoni e dei cattivi, non ha mai accresciuto il tasso di moralità dei giovani italiani (semmai ha sempre prodotto un irresistibile simpatia per i cattivi, Franti incluso), così la differenza fra la destra e la sinistra, di per sé confusa, ribaltabile e  dai confini incerti, se presa eccessivamente sul serio, rischia di confondere le idee invece di chiarirle.
Meglio chiedersi allora perché la paura, questa fondamentale passione umana, abbia oggi da noi una così cattiva reputazione. In questi tempi oscuri, in questi tempi di coronavirus, mi è capitato di leggere su Facebook, da parte di alcuni dei miei ‘amici’ (ahimè) vere e proprie invettive nei confronti dei ‘paurosi’, ossia verso coloro che   se ne stanno buoni buoni a casa, che, se escono, indossano la mascherina e i guanti, e una volta per strada cercano di mantenersi alla distanza di un metro o due dagli altri. Facendo parte della categoria più a rischio, gli anziani con, come si dice con un termine orribile, comorbilità, mi sono subito riconosciuto nel ritratto del ‘pauroso’ e mi sono chiesto: ‘ma perché tanto odio’? Cosa gli hanno fatto i ‘paurosi’ per meritarsi un disprezzo simile? Il più delle volte la risposta, implicita o esplicita, è che la paura rende alleati, se non servi, del potere, il che, come è noto, è una convinzione di sinistra. Come è di sinistra anche la tesi che il potere, di qualunque forma sia e da chiunque venga esercitato, è cosa riprovevole, immorale e oppressiva. Cosicché la paura del contagio, intenzionalmente alimentata da chi detiene le leve del comando, ci spingerebbe ad accettare supinamente le restrizioni o l’abolizione vera e propria delle nostre libertà fondamentali, rendendoci servi volontari di un potere arbitrario che giustifica se stesso in nome dello stato d’eccezione rappresentato dall’epidemia virale.      
Che l’incutere timore faccia parte delle tecniche necessarie per esercitare il comando politico è cosa nota da tempo immemorabile.   Che la paura invece costituisca il fondamento dell’autorità sovrana è probabilmente tesi più recente e che ha un nome e un cognome. È infatti a Thomas Hobbes che va forse addebitata la principale responsabilità per la formulazione della tesi secondo la quale la paura è all’origine della formazione dello stato. La paura non è più per lui soltanto il deterrente usato dallo stato per distogliere i suoi sudditi dalla tentazione di attentare al suo potere, ma il nuovo fondamento dell’autorità sovrana, dopo il collasso di quello divino delegittimato dalla violenza delle guerre di religione.   
Sembra d’altronde che la paura non sia stata soltanto il tassello principale della nuova teoria della statualità, ma abbia avuto un ruolo decisivo anche nella vita privata del filosofo inglese. Narra infatti nell’autobiografia che la madre, spaventata per l’annuncio dell’arrivo dell’Invincibile Armata spagnola sulle coste inglesi, ebbe un parto prematuro e mise al mondo insieme a lui sua sorella gemella la paura (Atque metum tantum concepit tunc mea mater, Ut pareret geminos, meque metumque simul). Anche a voler evitare interpretazioni psicologiche selvagge di questo ricordo giovanile, resta il fatto che la paura, ed in modo speciale la paura della morte, sia la molla che spinge gli individui umani ad uscire dallo stato di natura. Per dare un fondamento naturale e non divino alla sovranità statale, Hobbes ricorre ad uno stratagemma teorico: costruisce, utilizzando i principi dell’antropologia moderna da lui stessi elaborati nel De Homine, un modello fittizio di come si comporterebbero gli individui umani in un presunto stato di natura. Poiché essi sono mossi dal desiderio di mantenersi in vita e di impadronirsi di tutto ciò che risponda a questo scopo e dal momento che per natura essi hanno il diritto e la libertà di farlo, essendo fra di loro tutti uguali, facendo cioè ciascuno quel che fanno gli altri, il risultato non può essere altro che una guerra di tutti contro tutti che produce una ‘continua paura e   un continuo pericolo di morte violenta’. È quindi la paura della morte unita al desiderio delle ‘cose necessarie per vivere comodamente’ ad inclinare gli individui umani verso la ricerca della pace e della sicurezza. Per ottenere le quali non c’è, secondo Hobbes, altra via che spogliarsi del diritto di natura delegando in via esclusiva l’esercizio della forza al potere sovrano. Rinuncia alla libertà in cambio della sicurezza e della pace: questo è il contenuto del contratto che non è stipulato fra i sudditi e il sovrano ma dagli individui fra di loro che liberamente decidono di rinunciare alla propria libertà. Cosicché il patto, a differenza delle concezioni ‘liberali’ del contratto, è nello stesso tempo di associazione e soggezione: il legame sociale coincide con la costituzione dello stato.
Non si può certo  attribuire a Hobbes, ma alla ‘storia degli effetti’ e alle modalità della ‘ricezione’ che molto spesso stravolgono l’assunto originario, la tesi (quasi un rovesciamento della posizione hobbesiana) secondo la quale sarebbe una sovranità statale già costituita a produrre intenzionalmente nei suoi cittadini-sudditi la paura della morte per ottenerne una delega in bianco per un più arbitrario esercizio del potere e per proclamare lo stato d’eccezione. E ciò avverrebbe attraverso l’uso spregiudicato delle calamità naturali come terremoti, inondazioni e simili, o addirittura attraverso la produzione ad hoc di eventi tali da giustificare le leggi eccezionali (tipo: Busch invia lui stesso gli aerei per colpire le Twin Towers o la produzione in laboratorio, colposa o dolosa, del coronavirus).
Al di là della possibilità di attribuire o meno a Hobbes (che resta tuttavia colui che ha fatto della paura il pilastro della politica sovrana) quest’ultima teoria, la domanda verte in realtà sul fatto   se la nostra attualità sia ancora leggibile attraverso questa griglia concettuale e se insomma la paura sia anche adesso la passione fondamentale per capire la politica. Stando a Foucault sembrerebbe di no. Anzi proprio il dispositivo della biopolitica come nuova modalità dell’arte del governo liquiderebbe definitivamente ogni concezione del potere come di una sostanza eterna ed immutabile. Il potere non è più assoluto e identitario, ma è piuttosto una relazione mobile fra governati e governanti, costantemente in bilico, mutevole (per questo stato d’eccezione e biopolitica sono due concetti che fanno letteralmente a pugni). Essendo una relazione, il potere implica sempre una resistenza, oscilla fra il conflitto e la negoziazione.  
 L’arte del governo biopolitica e neoliberale insomma non proibisce, non reprime, ma si fa al contrario lei stessa promotrice attiva della libertà, produce libertà in modo esponenziale. E non solo delle libertà proprie del liberalismo classico come quella di pensiero, di espressone, di movimento, di intrapresa, quelle libertà civili che vanno ad aggiungersi alla libertà politica, ma di tutta una serie di nuove libertà che sono la libertà dalla malattia, dalla vecchiaia, dalla determinazione sessuale, dalle preferenze erotiche, dalle nevrosi e dalla follia, vale a dire da tutto ciò che, come  meccanica complessa degli interessi e degli istinti, la meccanica  studiata dalle moderne scienze umane,  può però limitare la nostra libertà.
Libertà che diventano diritti, come quello alla salute per esempio, ma che nel contempo richiedono forme anche pesanti di auto-controllo e auto-sorveglianza: se ho diritto ad essere curato ho anche il dovere di non adottare quei comportamenti che statisticamente potrebbero provocare una malattia (sono ad esempio libero di fumare ma se voglio anche essere libero dalla malattia e esercitare il diritto ad essere curato se mi ammalo, dovrò necessariamente non fumare più).
La libertà neoliberale e biopolitica richiede, non punizione, ma attiva sorveglianza, una sorveglianza che non viene dall’altro, dal potere repressivo e autoritario, ma da se stessi, una sorveglianza scelta e praticata in piena libertà. Sono forme di questa auto-sorveglianza lo screening annuale per il cancro alla prostata negli uomini e di quello al seno o all’utero nel caso delle donne; ma anche il ricorso alle psicoterapie, meglio se brevi, nel caso di disturbi del comportamento; ed ancora: l’ossessione del cibo genuino e a chilometro zero, la lotta contro le sofisticazioni, quella contro il fumo attivo e passivo, la preoccupazione per l’ambiente, la raccolta differenziata dei rifiuti.
In che modo per Foucault (tengo conto per questo ragionamento di un suo saggio del 1979 intitolato La questione del liberalismo) l’arte neoliberale del governo spinge ognuno di noi a preoccuparsi della propria libertà? A diventare, come si dice, l’imprenditore di se stesso, mettendo a frutto le facoltà avute in dotazione all’atto della nascita più tutto ciò che si è appreso successivamente con l’esperienza e con lo studio? Ponendoci tutti in uno stato di pericolo. Il motto del liberalismo di conseguenza è, per Foucault, ‘vivere pericolosamente’, ossia per essere liberi bisogna mettersi o essere messi in un continuo stato di pericolo, o sperimentare la propria situazione, la propria vita, il proprio presente e il proprio avvenire come fattori di pericolo: la minaccia appunto è interna e diffusa, non è più esterna e puntuale.  Siamo sempre in pericolo di poterci ammalare, di assumere comportamenti sessuali controproducenti, di abbandonarci, senza alcuna intenzione cosciente ma per l’operare spontaneo della nostra meccanica istintuale, ad azioni o gesti che ci possono rendere meno liberi, che vengono a limitare la nostra libertà.
Essere in pericolo però non vuol dire aver paura: se, secondo il modello hobbesiano comunque venga inteso, la paura della morte paralizza e ci spinge a delegare tutto il nostro potere e la nostra libertà alla figura del sovrano, al contrario il pericolo mobilita, ci obbliga ad agire, a far qualcosa, ad ampliare il raggio della nostra libertà e ad accrescere il nostro potere su noi stessi. Sempre più liberi di potenziare la vita e allontanare la morte, abbandonando ad essa quelli che non riescono ad essere liberi. Biopolitica infatti non è reprimere la vita ma aumentarla, incrementarla, soddisfare tutte le nuances del desiderio.
Certo questa libertà è coatta, è quella libertà per la quale ciò che è permesso diventa obbligatorio: puoi non ammalarti? Allora, devi, è un obbligo, un comando. Ciò non toglie però che non sia più questione di paura. Forse di angoscia. Secondo la teoria del tardo Freud, l’angoscia è un segnale di pericolo, ci avverte che qualcosa di mortifero sta montando alla periferia del nostro essere, qualcosa di sconosciuto e innominato. E ci costringe a costruire un sintomo, ossia una formazione psichica capace di legare quella forza pulsionale che altrimenti ci distruggerebbe.
Prima però di vedere di che sintomo si tratti, vorrei evocare un’altra scena che potrebbe aiutarci a comprendere meglio questa messa in stato di pericolo che caratterizza l’arte neoliberale del governo. Penso alla sindrome psicopatologica che uno psicanalista italiano, Sergio Finzi, uno psicoanalista parte lacaniano e parte no, ha chiamato la nevrosi di guerra in tempo di pace. Non starò qui a spiegare cosa sia la nevrosi di guerra: basti rinviare al Freud dell’Al di là del principio del piacere e al reduce che continua a sognare la granata che gli ha distrutto il braccio. Quel che ci interessa è invece il fatto che ci sono pazienti che continuano a manifestare i sintomi specifici della nevrosi di guerra anche quando la guerra non c’è più e, cosa ancor più sorprendente, senza averla mai vissuta, ma conoscendola solo dai racconti dei loro nonni e genitori.   Essi vivono in costante allarme, come se fossero sempre in attesa di un bombardamento, con il tempo in scadenza e la vita in sospeso. Se il vivere pericolosamente ha qualcosa a che fare con la nevrosi di guerra in tempo di pace, ciò spiegherebbe la facilità del ricorso alla metafora bellica in un gran numero di casi compreso questo del coronavirus. Ciò non dipenderebbe dalla vocazione alla guerra da parte del potere, ma dal fatto che la guerra usata metaforicamente è lo strumento con il quale, costruendo trincee e elevando barriere, si argina l’avanzata del nemico, lo si costringe all’inattività e se ne riduce in tal modo la pericolosità. Da trincea a trincea ci si può forse anche riconoscere come esseri fatti della stessa pasta.
Parlavamo del sintomo come legamento dell’angoscia: e se, come ci autorizza a pensare sempre Freud, non fosse proprio la paura il sintomo che ci permette di controllare l’angoscia, di sospendere il pericolo ed abbassare la soglia dell’allarme? Se non fosse proprio la paura, o più precisamente il luogo della fobia, che sempre per Finzi è strutturato come una trincea, a costituire la strategia di riduzione dell’angoscia? La paura che, come una distensione spaziale, offre un posto determinato alla fonte indeterminata dell’angoscia e ne permette il contenimento?
Senza d’altronde, dover passare per la libertà neoliberale. Liberandoci, anzi, di questa libertà coatta, di questa libertà sotto condizione. La paura allora sarebbe, forse di nuovo, una cosa di sinistra.   
  











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