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sabato 2 maggio 2020


La scienza fra certezza e verità

È stato sorprendente, in primo luogo per i senatori e poi per i cronisti di politica, ascoltare il presidente del consiglio Conte evocare l'altroieri (30 aprile 2020) la distinzione filosofica classica fra la doxa e l’episteme. Molti si saranno chiesti se fossero cose da mangiare o avranno pensato alla tradizionale attitudine delle classi colte italiane di usare il latino (o come in questo caso il greco) per ingannare meglio il popolo, una pratica immortalata da Manzoni nella figura dell’Azzeccagarbugli. Al di là della facile ironia era dai tempi probabilmente di Togliatti (che Hegel doveva averlo letto di sicuro) che un politico italiano non faceva sfoggio di un sapere filosofico, superficiale o approfondito che potesse essere. Abbastanza chiara era la ragione di questa inattesa chiamata in causa della filosofia: di fronte agli attacchi dell’opposizione, esterna e interna al governo, di eccessiva cautela circa la ripresa di una vita normale, ossia di una ripartenza della produzione e del consumo, di scarsa attenzione quindi all’inevitabile disastro dell’economia italiana se non si fosse allentato significativamente il regime del lockdown, il presidente del consiglio ha replicato che per decidere il che fare nella cosiddetta ‘fase due’ dell’epidemia egli si era lasciato guidare dalle indicazioni dei componenti del comitato tecnico-scientifico, ossia  dai medici specialisti in  malattie infettive e dagli scienziati quali i virologi e gli epidemiologi, ritenendo che il decisore politico dovesse seguire il dettato della scienza (episteme) che di per sé è universale e necessaria e non delle opinioni (doxai) che sono invece individuali e contingenti.   
Questa scelta del presidente Conte di rifarsi a un caposaldo della cultura occidentale (per quanto la scienza moderna sia lontana mille miglia da quella antica, il concetto di episteme è rimasto invariato come d’altronde quello di opinione) è apparsa ancora più significativa se si tiene conto che persino un ministro del suo stesso governo, il titolare del ministero della salute Roberto Speranza (nota aggiunta: forse qui mi sono sbagliato: era il ministro degli affari regionali Francesco Boccia), aveva espresso qualche giorno prima dubbi sul comportamento complessivo della scienza lamentando il fatto che da quella parte non venissero ‘certezze’, ma soltanto una ridda di opinioni differenti e divergenti fino al litigio e ai reciproci improperi. Invece di parlare in modo univoco, gli scienziati, sia quelli facenti parte dei vari comitati tecnico-scientifici chiamati a coadiuvare l’attività del governo, sia quelli ospiti dei vari programmi televisivi o presenti sui social, battibeccavano fra di loro prendendosi qualche volta a pesci in faccia, sostenendo, soprattutto quelli rimasti fuori delle task force messe in piedi dal governo e quindi invidiosi e risentiti, teorie strampalate e rimedi immaginari.
Forse bisogna incominciare a pensare che una cosa è la scienza, l’episteme, di per sé universale e necessaria, un’altra gli scienziati che, soprattutto quando sono chiamati a intervenire nel dibattito pubblico, rischiano spesso di scadere al rango di banali ‘opinionisti’. Al di là, tuttavia, di questa differenza fra l’operare della scienza fondato su di un metodo stabile e univoco (che, nonostante tutte le trasformazioni della scienza, è sempre lo stesso, il metodo galileiano fatto di sensate esperienze e necessarie dimostrazioni), e quello degli scienziati in carne e ossa che, essendo influenzati ciascuno dalla sua formazione, dagli studi che ha fatto, dalle ideologie culturali e politiche che professa, dalla sua struttura psicologica e dagli idiotismi personali, mischiano inevitabilmente enunciati veri, cioè scientifici, con opinioni false o verosimili, la questione della ‘certezza’ della scienza in generale è un problema serio e imprenscindibile.
Anche perché l’accusa di mancanza di certezza nelle affermazioni della scienza va di pari passo, quasi come se ne fosse il rovescio o forse il dritto, con quella esattamente contraria di un eccesso di certezza da parte del discorso scientifico che non ammette dubbi o ripensamenti. Si è parlato addirittura di una dittatura scientifica o sanitaria, di un commissariamento della politica da parte della scienza, cui si accompagna una medicalizzazione della vita che è il modo con cui nell’epoca della biopolitica essa viene sottoposta a forme di controllo sempre più precise e pervasive.
Il discorso sulla scienza ha un andamento duplice o addirittura schizofrenico: da un lato se ne fa l’elogio mettendo in evidenza il fatto che il suo procedere è fondato sul dubbio e non sulla certezza cieca. A tal proposito i seguaci di Popper diffondono l’idea che gli scienziati passino il loro tempo, non a ricercare ciò che è vero, ma a tentare di confutare le verità già date dal momento che esse si possono considerare tali solo fino a quando non siano dimostrate false. Come a dire che della verità è meglio dubitare, tenendola sotto tutela e credendoci solo fino a un certo punto.
Dall’altro la si accusa di non avere dubbi ma solo certezze, di costituire un sistema chiuso e inattaccabile, di essere come una città proibita, un Cremlino impenetrabile. Anche quando una sua verità sia stata nel frattempo sottoposta a revisione e integrata in una teoria più vasta (è il caso delle leggi newtoniane della gravitazione universale rispetto a quelle della relatività einsteiniana), il ruolo fondante della certezza non è venuto meno, non ha subito nemmeno una scalfittura. La certezza è la posizione su cui si attesta il soggetto scientifico, il soggetto della conoscenza, costituendo di conseguenza il fondamento dell’edificio del sapere scientifico.
Il lettore avvezzo alla filosofia avrà riconosciuto la fonte di questo modo di affrontare la questione del sapere scientifico in base al rapporto fra il dubbio e la certezza: è il Cartesio delle Meditazioni metafisiche alla ricerca di un nuovo fondamento dei saperi dopo la rivoluzione copernicana-galileiana. Per non lasciare questa ricerca al caso, Cartesio applica il metodo della meditazione, imparato nel collegio gesuitico de La Flèche, e procede mettendo in dubbio in modo ordinato e ragionato tutte le fonti conoscitive cui si era dato credito fino a quel momento, dal sapere di scuola aristotelico-tomista ai saperi empirici acquisiti attraverso l’esperienza e più o meno sistematizzati. Ma il dubbio usato come metodo, ossia come via razionale alla conoscenza, non si ferma qui, esso si fa iperbolico e mette in discussione, non solo le fonti tradizionali del sapere, bensì la stessa credenza nell’esistenza del mondo in quanto tale. Ciò avviene in due tappe: la prima è la possibilità della follia, intesa qui come un sogno prolungato all’infinito, un sogno da cui non ci si sveglia mai, la seconda la formulazione di un’ipotesi estrema consistente nell’esistenza di un genio maligno (o un dio) che, provando piacere ad ingannarci, ci farebbe credere alla realtà di quello che vediamo quando esso non è altro che un fantasma, un’allucinazione.
Come si vede il dubbio non si ferma allo statuto dei saperi scientifici, ma si estende a quello che potremmo chiamare, con un’espressione non cartesiana ma egualmente efficace, il mondo della vita, il livello elementare della percezione, il nostro originario, preriflessivo e precategoriale, stare al mondo. Ma dal momento che è metodico, il dubbio va anche oltre l’ipotesi iperbolica del genio maligno e si autonega. Come il prestigiatore tira fuori il coniglio dal cilindro, così Cartesio estrae dal dubbio la certezza. È un colpo di mano: basta osservare che nello stesso momento in cui dubito di tutto, io resto, tuttavia, cosciente di me stesso come di colui che sta mettendo in dubbio tutto ciò che esiste. Questo residuo, il me stesso che dubita, non può essere a sua volta revocato in dubbio. È un processo all’infinito: anche se dubitassi del fatto che dubitando tuttavia so di dubitare, questo sarebbe ancora una   volta un pensiero di cui sono cosciente e del quale non posso dubitare.  E dal momento che dubitare è una forma del pensare, cioè di avere una rappresentazione non solo dell’atto del dubitare ma anche di me che dubito, allora io, anche se solo come pensiero, esisto, di me come atto del pensiero non posso dubitare, ho la certezza. Sono certo di me come di colui che pensa e di conseguenza di tutto ciò che da me è pensato.
Questa certezza di me come pensiero è una verità, ossia è un enunciato sottratto una volta per tutte al dubbio. Ma è la verità? Quel che va notato è che al momento in cui Cartesio enuncia la famosa frase ‘cogito, ergo sum’, l’ipotesi del genio maligno non è stata ancora confutata. Sono certo di me come pensiero in atto, qui e ora, ma del mondo lì fuori e degli altri uomini che vedo alla finestra chi mi convince che non siano dei fantasmi o degli automi, delle visioni o delle macchine? Perché possa raggiugere la verità sul mondo e gli altri bisogna che al posto del genio maligno sia ricollocata la figura di un dio non ingannatore, di un dio buono. Il risultato è questo: se la certezza appartiene al cogito, la verità, come relazione fra le mie rappresentazioni e le cose del mondo, compresi gli altri uomini, è affare di dio, è nel suo arbitro: dio infatti può fare, per Cartesio, anche che due più due non faccia quattro ma cinque.   
Più che al dualismo fra pensiero e corpo, in Cartesio si assiste alla divaricazione tutta moderna fra la certezza e la verità, una divaricazione che attraversa la scienza, e che, in un mondo come il nostro interamente governato dai saperi scientifici, riguarda anche le nostre forme di vita dimidiate fra la certezza del sapere e gli effetti devastanti della verità. Se c’è un paradosso nella scienza moderna esso consiste nel fatto che le verità scientifiche, rese possibili dalla certezza in se stesso del soggetto della scienza, distruggono una volta enunciate le certezze acquisite e, per la convertibilità fra certezza e sicurezza, rendono la vita insicura e preoccupata.
Si prenda ad esempio la verità dell’astronomia moderna, cioè che è la terra a girare intorno al sole e non l’inverso: era a tal punto destabilizzante rispetto alle certezze su cui si fondava il mondo all’epoca che non solo i suoi sostenitori subirono processi ma alcuni furono anche condannati e mandati al rogo. E ciò vale sempre, qualunque siano le verità scientifiche che di volta in volta vengono enunciate e qualunque sia il campo d’esperienza conquistato dalla scienza e sottratto all’opinione.
Ma perché, rispetto a quello antico, il pensiero moderno ha dovuto introdurre nel campo della verità (aletheia, ossia il non nascondimento, la manifestazione, il venire alla presenza, il dispiegarsi dei fenomeni), di cui l’episteme è soltanto una delle modalità possibili, il piano della certezza soggettiva, della certezza del soggetto della scienza? Non era sufficiente a soddisfare questo compito la realtà dell’anima e in particolare della sua componente razionale e discorsiva? Ma nel momento in cui il sapere galileiano, non solo fa a meno della percezione, ma dichiara anche che bisogna diffidarne (se continuo a fidarmi della percezione vedrò sempre il sole girare nella volta del cielo e mi sentirò ben piantato sulla terra che per me sarà immobile e piatta), l’anima che, accanto al suo lato razionale, presenta anche e sempre degli strati sensibili e vegetativi e altri desideranti e passionali e che quindi non può fare a meno della percezione sensibile oltre ad essere preda delle voglie proprie e altrui, deve essere messa in un cassetto e dimenticata. Se a ciò si aggiunge che il mondo da conoscere è tutto scritto con il linguaggio matematico, allora la venerabile ipotesi dell’anima va definitivamente espulsa dal campo della scienza.
Al suo posto deve emergere un nuovo soggetto della conoscenza razionale che non debba più nulla alla sfera del corpo, che sappia distinguere in sé la sostanza pensante da quella estesa, i poteri della mente da quelli del corpo. Un soggetto che sia solo rappresentazione, ossia pensiero, e lo sia anche quando percepisce, sente, vuole e desidera. Che lo sia sempre e senza interruzioni, senza essere mai disturbato dal corpo e dai suoi fantasmi. Se qui si fonda il cosiddetto dualismo cartesiano fra il pensiero e il corpo, è necessaria tuttavia, rispetto alla vulgata, una correzione di tiro. Non è infatti del corpo come Leib, del corpo vivente, che si tratta, del corpo passionale e emozionale (in qualche misura questo corpo Cartesio lo ricupera e il trattato sulle passioni dell’anima sta lì a dimostrarlo). Il corpo in questione per Cartesio, il corpo che il soggetto della scienza deve espungere da sé, è il corpo pulsionale, il corpo desiderante e desiderato, quel mio corpo che l’Altro può in ogni momento fare oggetto del suo desiderio non solo, ma anche e soprattutto del suo godimento.  
Se si vuole capire fino in fondo cosa sia la figura del genio maligno che ha piacere ad ingannarci, bisogna pensare, per quanto blasfemo e inammissibile possa apparire allo scienziato e alle persone per bene questo accostamento, al dio del presidente Schreber che aveva per lui un interesse non proprio commendevole: se lo voleva semplicemente inculare.
La certezza del soggetto moderno della scienza è in fondo solo questo: certezza di non sognare e di non essere folle. Ma d’altro canto la verità giace nel sogno e si manifesta proprio attraverso la follia. È per queste ragioni che la psicoanalisi è una delle pochissime discipline che può legittimamente farsi carico del problema della scienza e permettersi anche di sottoporla a critica. In primo luogo, c’è da considerare il fatto che da parte di Freud non è mai stata messa in dubbio l’appartenenza della psicoanalisi al campo della scienza moderna. Ma al di là anche del dettato freudiano c’è l’argomento messo in luce da Lacan secondo il quale la ragione vera per cui psicoanalisi e scienza stanno insieme, senza tuttavia confondersi, consiste nel fatto che il soggetto in questione nella prima, ciò di cui parla e ciò di cui si occupa anche nel senso di curarlo, è esattamente quello della scienza, vale a dire il cogito. Perché qual è la verità del soggetto che la psicoanalisi mette in evidenza se non la scissione da cui è costituito, la scissione fra la volontà di sapere e la passione dell’ignoranza?
Da un lato si vuole sapere perché si soffre e di che cosa: la domanda d’analisi è una domanda di sapere. Dall’altro della causa di questa sofferenza il soggetto non ne vuole saper nulla. Attraverso l’analisi il soggetto vuole divenire certo del sapere di cui soffre, ma allo stesso tempo respinge con tutte le sue forze la verità che da quella cura di parole tende a venir fuori. Il punto è che come soggetto del sapere egli è obbligato ad elidere la pulsione intorno alla quale si coagula il    desiderio che lo costituisce e prende forma il modo singolare del suo godimento. Ed è per questo che per Lacan ogni atto analitico, ossia ogni atto d’interpretazione, richiede, sia per l’analizzato che per l’analista, una destituzione del sapere, una rinuncia ad occupare la posizione del soggetto del sapere.  
Se un compito ha la psicoanalisi è quello di riancorare il cogito, non al corpo, ma al desiderio dell’Altro che diventa il mio solo a condizione di passare attraverso il mio corpo proprio che così mi sfugge e si trasforma in un corpo altro. Se desidero e soffro per questo desiderio è perché in quanto desiderio dell’altro esso infesta il mio corpo e lo parassita. La mia verità, la verità che mi concerne, non sta quindi nella certezza del sapere che ho di me, ma nel desiderio dell’altro che abita il mio corpo.
Freud e Cartesio, dice Lacan, sono vicini molto più di quanto non si pensi: per entrambi l’esercizio del dubbio li assicura sulla presenza del pensiero. Ma con una dissimmetria: mentre per Cartesio anche quando dubita è sempre lui a pensare e questo pensiero è per lui   cosciente, per Freud, che dubita allo stesso modo, chi pensa è qualcun’altro o qualche altra cosa e il pensiero è inconscio. Sembra poco, ma è quanto basta per indicare il limite, insieme alla grandezza, del sapere della scienza: perché a  differenza di quello cosciente, un pensiero inconscio porta con sé il desiderio e la pulsione e attraverso l’emergenza della verità pone un freno alla certezza.


  



  

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