Un dialogo fra Alberto Abruzzese e me sullo stato del mondo e il destino dei saperi umanistici
ecco caro
bruno una scaletta di ragionamenti che vado inseguendo, tanto per spiegari
meglio le intonazioni che ho avuto nel mio affrettato intervento all'istituto
di studi filosofici e darti modo di giudicarli
un
abbraccio
alberto
Sintetizzo il ragionamento per punti e
schematicamente:
1.
il dispositivo occidentale della crisi come
innovazione e dunque come catena di crisi periodiche necessarie al soggetto
moderno, alla sua rigenerazione, si è concluso nella condizione di una
catastrofe permanente;
2.
questa condizione terminale consiste nel rapido
salto dal capitalismo storico a ciò che viene detto capitalismo finanziario per
dire l’avvento di specifiche forme di potere che non si riesce a nominare
altrimenti che con parole vuote;
3.
le piattaforme digitali, l'abitare in rete, sono
al tempo stesso strumento e rivelazione di tale passaggio d'epoca;
4.
a noi che in maggioranza docenti universitari,
viene dato il ruolo di formare professionisti in grado di "lavorare"
in una dimensione tecno-scientifica che si è tanto auto-rigenerata all’interno
dei propri mezzi strumentali da raggiungere un progresso più che mai
esponenziale;
5.
poco o male o inutilmente è servito l'umanesimo
che alcuni di noi – interessati a un pensiero critico delle forme sociali (dunque
politico) – hanno messo in gioco nella formazione di ceti professionali da
destinare al campo delle istituzioni civili, così come della riproduzione di
nuovi formatori;
6.
credo sia ormai chiaro quanto proprio dal
fallimento della tradizione umanista, in quanto insieme di valori e di
pratiche, sia dipesa e dipenda la profonda crisi dei ceti dirigenti, la loro
incapacità di agire sulla complessità sociale del mondo presente; l'umanesimo
(comprese le sue stesse componenti anti-umaniste) non ha funzionato, ha cessato
di funzionare, perché ha rivelato la propria natura reale;
7.
la catastrofe del mondo umano e della natura
umanizzata (sempre più velocizzata dal progresso tecno-scientifico) mi pare
riscontrabile nelle pratiche del nostro lavoro intellettuale, caratterizzato da
una spirale autoreferenziale, da una sorta di evasione nel compiacimento del
nostro stesso pensiero, nella continua ricerca di una verità
"inesauribile" e che tuttavia diamo di continuo “esauribile”;
8.
una prassi, la nostra, tragicamente lenta e
ellittica che contrasta con la rapidissima trasformazione di ogni oggetto,
forma e contenuto dell'esistenza umana;
9.
e invece non c'è più tempo: dato che in gioco
c'è più che mai la morte e la sofferenza della carne umana (unica “verità” inemendabile
è invece il dolore psicofisico della persona ... il vivente tra carne, oggetto,
e soggetto);
10.
non possiamo tuttavia esimerci – come stiamo
ancora continuando a fare, sempre in nome della nostra stessa qualità di
pensiero – dal tentare qualcosa di concreto che riguardi, ora e subito, ciò che
più ci avvicina all'altro da noi e cioè il nostro stesso dolore;
11. nessun altruismo, ma semmai un egoismo
estremo: docente e discente accomunati da una medesima necessità di
sopravvivenza; insieme per fondare una auto-formazione finalmente in grado di
praticare uno scarto di posizione rispetto al nostro ruolo storico. Senza
alcuna nostalgia di inquadramento istituzionale
12.
credo che innanzi tutto vada affrontato il nodo
più cruciale e rivelatore sempre più emerso con massima chiarezza nel
gigantesco scarto tra le tradizioni dell'Umanesimo e le innovazioni
tecno-scientifiche: gli attuali regimi di formazione, così evoluti sul piano
delle tecnicalità professionali, continuano a "servirsi" delle vecchie
vocazioni del soggetto moderno (quella congiunzione tra vocazione e professione
che Weber ha individuato nella nascita del capitalismo occidentale;
13.
dovremmo trovare modi di auto-formazione in cui
rielaborare una idea di vocazione adeguata al mondo presente delle professioni:
prendersi a carico le "persone" gettate in una complessità
insostenibile;
14.
le reti digitali sono l’unico territorio in cui
potere sperimentare forme di resistenza allo stato di necessità e alla volontà
di potenza della natura umana dentro un orizzonte post-umano e dunque
post-antropocentrico.
post scriptum ad evitare ogni fraintendimento
sulla natura del digitale: il mondo in rete non è assolutamente
"nuovo" ma funziona da potenza rivelatrice del mondo come è sempre
stato.
Caro Alberto, ecco un abbozzo di risposta
1) Da quando la storia ha cessato di essere inchiesta e
curiosità – nei confronti dei diversi, barbari e stranieri, e nei confronti
di se stessi, come eravamo e non siamo
più, come avremmo potuto essere se…, come non essere più quello che siamo stati
e siamo ancora (se ne fa ancora di questo genere, ma nelle periferie e ai
margini – è il caso del miglior Foucault) – ed è diventata tempo orientato,
teleologia, essa è catastrofica. Per datare la cosa lo è dal momento in cui una
religione orientale – il cristianesimo ebraico – ha colonizzato l’occidente. A
partire dal cristianesimo la storia ha un fine e inevitabilmente una fine, il
tempo è ridotto, viviamo sempre nei tempi penultimi, ossia in tempi
catastrofici, siamo perennemente in transito. Dopo la caduta di ogni ipotesi
provvidenzialistica, che Benjamin datava nel barocco, o si è tentato di
laicizzare, umanizzare, il telos, o, dimostratasi falsa anche questa
alternativa, lo si è abolito dando spazio al nichilismo. L’ultimo tentativo di
risposta che si muovesse ancora nella prospettiva aperta dal messianesimo
ebraico-cristiano è stata quella di Benjamin: la catastrofe permanente è anche
la rivoluzione permanente. Non esiste il bersaglio verso le quali le forze
progressiste si dirigono inevitabilmente e che altrettanto inevitabilmente
colpiranno, esiste lo scopo – la redenzione della vita creaturale, ciò che tu
chiami corpo sofferente – che coincide col tragitto, che fa tutt’uno con la transizione.
I tempi penultimi si infinitizzano e in ogni momento di questo tempo
interminabile fa capolino il Messia che di volta in volta salva ammassi
di macerie umane.
Che cosa si apre alla fine del tempo storico, del tempo
orientato? La spazialità, oggi nella
forma delle reti.
2) Qui bisogna fare
un salto teorico: il capitalismo è dall’inizio, ossia da sempre, una macchina
astratta schizofrenica (Tausk e Deleuze). Che vuol dire: a) macchina non nel
senso dell’utensile o strumento inerte che per mettersi in movimento presuppone
la mano ed il cervello, ma in quello della cibernetica, ossia dell’autogoverno
e dell’autoregolazione. La macchina come innesto di due o più macchine: quella
che produce i flussi e quella che li consuma, quella che li libera e quella che li blocca, quella che li spezzetta e quella che li ricompone
secondo logiche diverse da quelle di
partenza, la macchina del desiderio e la macchina del godimento, la macchina che accumula e
quella che dilapida. In quanto ai flussi non c’è numero chiuso: dalle merci ai liquidi seminali, dai capitali alla forza
lavoro, passa di tutto. b) astratta nel senso di non essere vincolata a nessuna
configurazione empirica: forme statuali, assetti societari, identità
sociologiche, strutture psichiche. Astratta nel senso del concetto marxiano del
lavoro astratto, del lavoro tout court,
in cui si dissolvono le differenze empiriche
dei lavori concreti, scompaiono le incidenze degli strumenti sulla
qualificazione del lavoro, si aboliscono i
tempi vissuti per la sua esecuzione a regola d’arte. Il capitalismo ha
dissolto la classe borghese su cui pure si è fondato all’inizio della sua
storia, può fare a meno dello stato nazionale che è stata la sua incubatrice, ha
scompaginato la classe operaia perlomeno nelle sue manifestazioni
storico-sociologiche più note. c) schizofrenica nel senso di spaccare l’intero
che di volta in volta costruisce e in cui sembra rinchiudersi. Il capitalismo è
trasfrontaliero, un invasore clandestino di terrritori altrui, nomade e
migrante. Con la forza di un terremoto disegna una linea di frattura nei territori
che conquista, li divide e li separa. È deterritorializzante.
Il che non esclude, come è dimostrato dal momento storico
che stiamo vivendo, che possa, di fronte al rischio dell’autodistruzione
innescato dalla stessa liberazione turbolenta del flussi che lo caratterizza,
chiudersi momentaneamente su se stesso, riterritorializzarsi, ripristinando la
forma originaria dello stato, lo Ur-staat, ossia la forma dispotica dello
stato. Ma solo per il tempo necessario a permettere la nuova accumulazione. Poi
riparte.
3) Da questo punto di vista il capitale è in primo luogo
spazio, territori sempre in via di deterritorializzazione, spazi che si
dividono da porzioni più vaste e si aggiungano ad altre per formare insiemi
nuovi, articolazione e disarticolazione. Qui c’è il secondo salto teorico:
bisogna valorizzare in pieno la tesi freudiana secondo la quale lo spazio è la
proiezione esterna dell’estensione della psiche. D’altronde la prima rete è
stata quella neuronale con i suoi neuroni passaggi e i suoi neuroni barriere:
esattamente una macchina desiderante nel senso di Deleuze. La psiche è estesa,
ossia si dà in esteriorità, è esteriore a sé: inconscia. Non sa di sé e non sa
quel che fa, ma proietta questa esteriorità nello spazio che da questo punto di
vista è integralmente psichico senza diventare psicologico, ossia senza aver
bisogno di ripiegarsi su se stesso nella forma della coscienza di sè. Sia le
reti, sia il capitale, che non è altro che l’insieme complesso delle reti
(Deleuze le ha chiamate rizoma) su cui viaggiano i flussi informativi e no (o
tutti i flussi sono di per sé informativi?) sono allora la proiezione esterna,
spaziale, della psiche. Ciò dovrebbe dare adito a ricerche finalmente fondate
di psicopolitica.
4) Se l’umanesimo coincide con la libertà assicurata dal
primato della coscienza, allora esso è spirato senza un gemito con la spazialità di psiche. A meno
che un ‘più reale umanesimo’ (Benjamin) non sia possibile a partire proprio
dallo spazio psichico e dalle reti inconscie, catene neuronali o catene
significanti. Un umanesimo che presupponga la critica radicale dell’uomo
(Foucault) e di ogni antropologia
generale, di ogni sapere preventivo e di
ogni schema anticipatore. Un umanesimo reale, che faccia cioè i conti
col reale, con l’inemendabile, il non idealizzabile, il vincolo, il patico
irriducibile, il godimento allo stato brado, il dolore irrimediabile, la
‘sofferenza inutile’ (Levinas).
5) Da tempo penso – e non solo perché sono in pensione: lo
pensavo anche prima – che i saperi di cui siamo i soggetti (lo siamo sempre, in pensione o no) siano obbligati ormai ad uscire dall’università o a restarvi ma in una posizione di estimità, in
esteriorità interna. E ciò per due ragioni: sia perché quel che di umanistico
nel senso tradizionale questi saperi ancora pensavano di custodire e tramandare,
è, come si è visto prima, morto, e di conseguenza viene espulso dall’università
come cosa inutile e improduttiva, sia perché il ‘più reale umanesimo’ di cui
dovremmo essere i promotori è irricevibile dallo stato odierno dell’archvio dei
saperi trasmissibili, ossia accademici.
La verità è che l’intero settore della scienze umane – antropologia,
sociologia, psicologia ed economia più la storia e per alcuni aspetti anche la
filosofia – è entrato al servizio della biopolitica. L’umanesimo,
nell’università, non ha più nulla di umano.
5) Il modello del Beruf
non esiste più: lo si vede dalla politica che non è più una professione né una
confessione di fede.
6) Da oggi si lavora nelle reti cercando di praticare una
connessione disconnessa: un pensiero-flusso.
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