Critiche e
recensioni 3
Massimo
Recalcati, Il mistero delle cose. Nove
ritratti di artisti, Feltrinelli 2016
Quando si ha
la sensazione di non essere ascoltati si usa l’espressione: «Sto parlando ai
muri». Anche Lacan aveva la stessa sensazione. Il sei gennaio del 1972, durante il ciclo di conferenze intitolato Il sapere dello psicoanalista, indicando
le pareti della cappella dell’ospedale di Sainte-Anne che lo ospita e in cui è
entrato trent’anni prima come giovane pschiatra, dichiara davanti a un uditorio sorpreso e infastidito
di aver parlato sempre e soltanto ai muri. Non parla, come nota
Jacques-Alain Miller, né al pubblico presente né al grande Altro, parla ai
muri, cioè da solo.
Di muri per
Lacan se ne contano parecchi: c’è il muro del linguaggio, c’è quello dell’amore.
Contro il primo si infrange il nostro
desiderio di andare alle cose stesse, di raggiungerle al di là della parola,
contro il secondo quello del rapporto sessuale, della comune misura del
godimento. Ma come separa, così un muro anche protegge: soprattutto se non di un
solo muro si tratta ma di quattro; rinchiudersi fra quattro mura vuol dire proteggersi da tutto ciò che ci può
colpire all’improvviso cogliendoci indifesi e impreparati. Innalzare i muri
significa dividere lo spazio in un dentro e in un fuori, costruire un dentro protettivo separato da un fuori
pericoloso e imprevedibile.
Ma quello
che di strano ha un muro è che a pensarci bene il dentro non è altro che il fuori recintato:
compito dei muri, precisa Lacan, è di circondare il vuoto. Così la protezione
dal fuori è ottenuta trasformandone una porzione in dentro: quest’ultimo non è
altro che vuoto reso vivibile, abitabile. Si ottiene protezione non espellendo
ciò che fa paura ma internandolo, offrendogli uno spazio in cui potersi
iscrivere.
Ma la logica
dei muri non si esaurisce qui: resta da chiedersi perché un muro, fosse pure
soltanto la parete di una grotta (un muro per così dire naturale), spinga
irresistibilmente gli uomini a ricoprirlo di immagini. Riprendendo un mese dopo
il discorso sui muri (ma questa volta all’interno del seminario …ou pire) Lacan invita i suoi uditori a seguire il
consiglio (o piuttosto l’ingiunzione?) di Leonardo da Vinci: «Guardate i muri!».
Se i muri sono fonte d’ispirazione per il pittore è perché su di essi si
formano le macchie, macchie d’umidità o di muffa. E, come scrive Leonardo nel Trattato della pittura, nelle
macchie sono preformate le figure: «Egli è ben vero che in tale macchia si vedono varie invenzioni di ciò che
l'uomo vuole cercare in quella, cioè teste d'uomini, diversi animali,
battaglie, scogli, mari, nuvoli e boschi ed altre simili cose». E ribadisce:
bisogna fermarsi a guardare i muri e vedere nelle macchie quelle «invenzioni mirabilissime, che destano
l'ingegno del pittore a nuove invenzioni di componimenti di battaglie, d’animali e d’uomini, come di vari componimenti
di paesi e di cose mostruose, come di diavoli e di simili cose».
Ma non ci sono soltanto le macchie naturali. La macchia è così essenziale alla pittura che, laddove non
ci sia, la si inventa: come diceva Botticelli il pittore che non ama i paesi e non
ha voglia di studiare come si disegnano basta che getti una spugna piena di diversi colori su di un muro e nella macchia che essa produce vedrà prendere forma un bel paese.
Ci sarebbe da chiedersi se certa arte pittorica moderna come ad esempio
quella di Jackson Pollock non sia semplicemente una pittura che abbia scelto di
fermarsi allo stadio della macchia senza andare oltre verso la figura,
lasciando al fruitore la scelta di limitarsi all’esperienza del colore o di
completare l’opera immaginando paesi e battaglie, animali e uomini, angeli e
demoni.
Fra il dentro e il fuori l’uomo ha messo le immagini e la macchia è
nella parete o nella tela quel che resta del fuori, la sua traccia. Giacché è
pur sempre vero che guardare i muri significa, che lo si sappia o no, anche
sempre guardare al di là dei muri. E al di là dei muri c’è, dice Lacan, il
reale, vale a dire l’impossibile. Un impossibile da raggiungere che, tuttavia,
è là, al di là del muro. Un fuori di cui la macchia è l’impronta visibile da
dentro, il vuoto che si interna.
Forse la differenza fra la pittura classica e quella moderna è solo
questa: la prima copre la macchia con la figura, la seconda tratta la macchia come una figura. Così
l’arte pittorica sarebbe sempre figurativa e si tratterebbe soltanto di
stabilire di volta in volta il posto occupato dalla macchia.
Sebbene non si faccia mai riferimento a questi passi lacaniani (in compenso
si usa in abbondanza il modello sempre lacaniano dell’arte del vasaio che come
quella dell’architetto consiste nel dare forma al vuoto) la logica e/o
l’estetica del muro ci sembra fare da premessa necessaria alla comprensione di
questo libro bellissimo di Massimo Recalcati dedicato alla pittura. Che però ha
incrociato il muro in un libro precedente rivolto a definire il campo di
un’estetica psicoanalitica declinata a
partire dall’insegnamento di Lacan (Il
miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Bruno Mondadori,
Milano 2007, pp.115ss). A proposito infatti della pittura di Antoni Tàpies,
Recalcati parla di una poetica del muro: l’itinerario dell’artista spagnolo
sarebbe caratterizzato dal passaggio da un trattamento della tela come specchio
o, secondo il dettato della pittura dal rinascimento in poi, come finestra,
alla sua resa come muro e quindi dalla rappresentazione narcisistica dell’io,
dalla specularità del ritratto, alla riduzione del soggetto all’opacità del
muro, alla sua monocromaticità. Commentando un
autoritratto in cui l’artista mostra coll’indice, guidando in tal modo
lo sguardo e l’attenzione del fruitore, un foglietto su cui è scritto il suo
nome la cui iniziale ha esplicitamente la forma di una croce, Recalcati può concluderne
che qui il nome non è più la cifra del soggetto come insieme delle
identificazioni immaginarie e quindi come sede e origine del senso, ma come
destino, croce cui si è inchiodati, muro
inaggirabile.
Anche Lacan si era occupato delle scritte sui muri: sempre nella lezione
del seminario …ou pire già citata
dice che tutto ciò che si scrive rinforza il muro. Ricoperto di scritte, che
siano la formula rivoluzionaria Liberté, égalité, fraternité o il comando Vietato fumare, un muro si fa ancora più parlante, si erge ancora
di più come il muro del linguaggio. Allo stesso modo le lettere d’amore
rinforzano l’amur, il muro
dell’amore.
Resta vero però sia per Lacan che per Recalcati che, in conformità
all’etica analitica che ordina all’io di addivenire là dov’era es, la direzione
della pittura sia di guardare al di là del muro, verso il reale e
l’impossibile, in modo da rendere
visibile attraverso la macchia-figura sia l’invisibile sia ciò che non
si riesce a vedere per eccesso di visibilità.
Non deve ingannare il fatto che l’indagine di Recalcati riguardi solo
nove pittori, per di più tutti italiani, operanti fra novecento e nuovo secolo;
la sua tesi principale, in realtà, è valida per la pittura moderna (e forse
nemmeno solo per questa) in generale. Per quanto la poetica di cui si fa portatrice
sia quella «del reale come alterità
inesprimibile», essa continua a
domandarsi, tuttavia, se si possa «raffigurare l’irrafigurabile».
Così le nature morte di Giorgio Morandi, queste cose-macchie che sono raffigurate
sulla tela, si rivelano «indici dell’assoluto, di una Cosa che non si può
ridurre alla sua semplice presenza perché invoca necessariamente l’esistenza di
un’Altra Cosa». Contro una psicoanalisi dell’arte «stoltamente» patografica,
che pretende interpretare cioè le bottiglie di Morandi come simboli di un fallo
assente nella sua funzione nella vita privata dell’artista, Recalcati insiste
sul fatto che invece esse sono «immagini che bucano la semplice presenza
dell’oggetto evocando il reale irrapresentabile che essa sembra custodire».
Con lo stesso movimento con cui prende distanza da una
psicoanalisi dell’arte che pretende interpretare l’inconscio dell’artista e dimentica quello ben più rilevante dell’opera
che non consiste tanto in una
proliferazione simbolica di
junghiana memoria, ma nel modo con cui nella strutturazione simbolica
dell’opera emerge un reale di per sé irrapresentabile, Recalcati si discosta
anche da quella ideologia dell’informe sostenuta da Rosalind Krauss per la
quale l’arte moderna dovrebbe abolire il
predominio della forma per dare libero
sfogo al reale della pulsione e della materia.
In realtà le bottiglie di Morandi, ma anche le mele di Cézanne, i sacchi di
juta, le combustioni e i cretti di Burri, i carboni, le pietre e i ferri di
Kounellis, le sciabolate di nero, bianco e rosso di Vedova, le colate di colore
di Pollock, i tagli sulla tela di Fontana, le impronte di fumo di Parmiggiani,
i muri di Celiberti, gli interni di Papetti, come non sono simboli che
imbrigliano o coprono il movimento
libero e eversivo della
pulsione, neppure sono riducibili a scarabocchi
privi di forma: fossero anche macchie, sarebbero comunque forme che tentano
l’impossibile, ossia raffigurare l’impossibile.
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