Ripubblico un testo edito nella rivista «Zeta Filosofia. Territori delle idee», N. 5, pp.
12-15, supplemento al n. 86/87 di «Zeta News rivista internazionale di poesia e
ricerca», anno XXXI.
Il male e l’estetizzazione
Più o meno alla metà degli anni trenta Walter
Benjamin aveva già tratto tutte le conseguenze implicite nel passaggio epocale
rappresentato dall’avvento dei nuovi media – fotografia, radio, cinematografo,
telegrafo e telefono e forse addirittura televisione (i primi esperimenti
televisivi avvengono in concomitanza con le olimpiadi berlinesi del 1936) – e
in particolare dalla loro caratteristica principale: la riproducibilità tecnica
dei suoni e delle immagini. La tesi tuttora rilevante era la seguente: se i nuovi media, quelli cioè che a partire da
Marshall McLuhan sono universalmente
definiti come ‘elettrici’, producono effetti devastanti nella sfera della
produzione culturale da un lato e dell’organizzazione politica dall’altro, è
perché in primo luogo modificano le coordinate stesse della percezione, vale a
dire del livello in cui si costituisce, per così dire allo stato nascente,
l’esperienza in generale, e sul quale poggiano tutte le forme di vita, anche quelle considerate più nobili e elevate.
In Benjamin questa trasformazione della
percezione trova la propria cifra nel concetto dell’aura: contro il frastuono provocato dalle
lamentazioni per la perdita dell’aura,
bisognerebbe ricordare che per Benjamin essa non è altro che un’allucinazione
di natura psicotica che come un fantasma tende a invadere il campo della
percezione cosiddetta normale. Il termine, imparentato con il perturbante
freudiano, denota l’esperienza in cui le
cose, cioè gli oggetti d’uso, quelli cosiddetti inanimati, si animano
all’improvviso, mostrano di avere vita propria, in particolare ci
restituiscono lo sguardo. Gli oggetti dotati di aura sono quelli che, pur
essendoci vicini, a portata di sguardo e di mano, tuttavia restano inafferrabili,
slontanano in una regione inaccessibile,
sono del tutto imprevedibili come se fossero governati da una potenza
estranea se non alle volte esplicitamente ostile e soprattutto tale da
sovrastarci completamente. Da qui la ragione per cui di fronte all’aura non ci
si può che inchinare e sottomettere.
Per Benjamin l’aura svolge una funzione positiva solo nel caso in cui possa costituire il
medium attraverso il quale una tradizione culturale e la comunità che in essa
trova il proprio fondamento si trasmettono da una generazione
all’altra. Il paradosso della posizione
di Benjamin, raramente notato dalla critica, consiste nel fatto che l’unicità
dell’opera d’arte, la sua autenticità, in una parola la sua aura, acquista un
valore solo se si pone al servizio della ripetizione, cioè della trasmissione
dell’esperienza accumulata. Nella
misura in cui l’aura, secondo la definizione di Benjamin, non è altro che
l’esperienza depositata in un oggetto d’uso, la possibilità che quest’ultima
non si disperda ma si conservi come
patrimonio di una comunità storica richiede che l’opera venga inserita in un
rituale. È il carattere ripetitivo di questo ultimo che assicura la
prestazione specifica dell’aura: trasmettere
il contenuto d’esperienza. L’opera quindi è ‘autentica’ non perché sia
l’espressione della creatività o della genialità soggettiva, ma perché partecipa
di un rituale in cui si trasmette qualcosa di fondamentale per la vita di una
comunità: è la tradizione che autentica l’opera, non l’autore.
Dal
momento in cui la modernità dissolve alla radice il principio comunitario
e la trasmissione del patrimonio culturale fondata sul rituale, l’aura decade
irreversibilmente a potenza demonica, effetto perturbante, apparenza
ingannevole e di conseguenza a mero strumento di dominio. È di fronte a questo esito della modernità
che va colta la specificità dei nuovi media: essi liquidano definitivamente,
attraverso una modifica integrale del campo percettivo, il residuo
allucinatorio cui l’aura era stata
ridotta una volta emancipata dal
rituale. In primo luogo i nuovi media, attraverso il dispositivo della
riproducibilità tecnica, liberano la fruizione delle opere dalla tirannia del
luogo, dalla forza obbligante del ‘qui e ora’: l’opera è fruibile dovunque e
quindi l’esperienza circola, non può più essere confiscata da nessuno, si
democratizza. In secondo luogo, se prima le opere, pur essendo vicine,
manifestavano una lontananza inaccessibile, ora anche le più oggettivamente
lontane sono avvicinabili, vengono a
portata di mano. Per un paradosso di cui ancora oggi si nega l’importanza
rivoluzionaria, più le cose divengono manipolabili, più ci si emancipa dal loro
dominio.
La conseguenza più massiccia
dell’avvento dei nuovi media è quindi la riappropriazione da parte delle masse,
finora escluse dalla fruizione delle opere se non nei limiti indicati dal
rituale, di tutta la cultura finora prodotta dall’umanità e il suo uso
rivoluzionario: se finora il patrimonio culturale era servito a legittimare le classi
dominanti, ora esso può diventare il viatico per le lotte di emancipazione
delle classi dominate. Scompare la vecchia aristocratica figura
dell’intenditore d’arte e al suo posto subentra quella delle masse
prodotte dalla moderna società
industriale, delle masse che nel saggio su Baudelaire Benjamin definirà
civilizzate e denaturate, risultato
dell’organizzazione capitalistica del lavoro e delle forme di vita basate sul
valore di scambio. La cultura si fa di massa, cioè è prodotta per le masse ed è
prodotta dalle masse.
Come sempre quando l’umanità
è sottoposta ad una rivoluzione mediatica, il primo effetto registrato è
quello di una perdita: facoltà fino ad allora considerate non solo
indispensabili ma anche nobili, si atrofizzano fino a scomparire, sostituite da
dispositivi che, facilitandone oltre ogni misura l’esercizio, sembrano
anche impoverire l’esperienza di cui
erano garanti. Ma, dice Benjamin, non
bisogna lasciarsi ingannare dal fatto che
le nuove forme di fruizione legate ai nuovi media si manifestino
all’inizio in forme screditate: se, ad
esempio, l’effetto specifico che i nuovi
media hanno prodotto sulla percezione è stato quello di renderla ‘distratta’,
e se ciò sembra contrastare con il fatto che l’arte invece chiede all’osservatore
uno speciale raccoglimento laddove le masse vogliono soltanto distrazione, ad
una analisi più attenta questa tesi si rivela essere solo un luogo comune.
Invece di sprofondare nell’opera per riuscire a gustarla, la massa distratta,
dice Benjamin, fa sprofondare nel proprio grembo l’opera d’arte, e in tal modo
se ne impadronisce. Nella percezione distratta che si consuma soprattutto a cinema
e oggi nella televisione o in internet, le masse imparano a valutare e decidere
autonomamente.
Ora, è proprio a causa del fatto che la saldatura fra le
masse e la riproducibilità tecnica innesca processi complessivi di
emancipazione connessi alla perdita dell’aura, alla dissoluzione di tradizioni
oppressive, all’abolizione finanche dei rapporti capitalistici di produzione –
la critica dell’aura si confonde in Benjamin con quella marxiana dell’arcano
della forma di merce essendo quest’ultima l’unica cosa che nella modernità sia
ancora dotata di aura –, che la risposta del capitale consisterà secondo
Benjamin nella radicale estetizzazione della politica. Piuttosto che tentare
ancora una volta di spoliticizzare l’arte, occorrerà far diventare arte la politica,
declinare la politica nei termini della produzione del dominio delle immagini.
Se la politica una volta presa in carico dai nuovi dispositivi della
riproducibilità tecnica è divenuta essa stessa immagine – Benjamin accenna già
all’esposizione pubblica, alla messa in vetrina, delle classi dirigenti, divenute
da questo punto simili alle merci, e sottoposte di conseguenza allo sguardo distratto, cioè disincantato,
delle masse -, allora essa dovrà essere
trattata come se fosse un’arte, ossia l’arte della produzione delle immagini,
ma di immagini che, pur essendo situate
in un contesto totalmente nuovo, fungano
però da immagini cultuali, producano un effetto d’aura, siano solidali col
dominio.
È questo per Benjamin il
tratto peculiare del fascismo: «esso tenta di organizzare le recenti masse
proletarizzate senza però intaccare i rapporti di proprietà di cui esse
perseguono l’eliminazione». Il fascismo pertanto vede la propria salvezza, non nella mera repressione della masse, ma
nel consentire ad esse di esprimersi, fermo restando che questo paradossale diritto all’espressione è cosa
ben diversa dal riconoscimento dei propri diritti: «Le masse, prosegue
Benjamin, hanno diritto ad un
cambiamento dei rapporti di proprietà; il fascismo cerca di fornire loro
un’espressione nella conservazione delle stesse; il fascismo tende
conseguentemente a una estetizzazione della vita politica».
Le masse diventano a loro
volta immagini infinitamente riproducibili, occupano la scena come delle merci,
si espongono nella scena cine-televisiva, sono trasformate in immagini
cultuali, asservite a riprodurre quei rapporti di proprietà da cui vorrebbero
emanciparsi, avvolte d’aura in un mondo senz’aura.
Tuttavia, l’estetizzazione da sola non è in
grado di tenere a freno i processi di
emancipazione: questi ultimi e le forze che scatenano vanno incanalati
affinché non si rivolgano contro i rapporti di proprietà. Allora lo sbocco è
uno solo: la guerra. «Tutti gli sforzi della politica , scrive Benjamin,
convergono verso un punto. Questo punto è la guerra. La guerra, e soltanto la
guerra, permette di fornire uno scopo ai movimenti di massa di grandi
proporzioni, previa conservazione dei tradizionali rapporti di proprietà». Se
questo è il modo con cui la situazione si configura dal punto di vista della
politica, da quello della tecnica invece la formulazione è la seguente: «soltanto
la guerra permette di mobilitare tutti i mezzi tecnici attuali, previa
conservazione dei rapporti di proprietà».
Dopo un riferimento a
Marinetti e al futurismo e all’esaltazione della guerra come guerra bella,
quindi alla guerra come opera d’arte, Benjamin scrive: «se l’utilizzazione
naturale delle forze produttive viene frenata dall’ordinamento attuale dei
rapporti di proprietà, l’espansione dei mezzi tecnici, dei ritmi di lavoro,
delle fonti di energia spinge verso un’utilizzazione innaturale. Questa utilizzazione
avviene nella guerra la quale con le sue distruzioni è la dimostrazione che la
società non era sufficientemente matura per fare della tecnica un proprio
organo, e che la tecnica non era sufficientemente elaborata per dominare le
energie elementari della società».
La discrepanza fra lo
sviluppo delle forze produttive e la loro utilizzazione nel processo di produzione genera la guerra
‘imperialistica’ che altro non è che «una ribellione della tecnica, la quale
ricupera dal materiale umano le esigenze
alle quali la società ha sottratto il loro materiale naturale. Invece che
incanalare fiumi, essa devia la fiumana
umana nel letto delle trincee, invece che utilizzare gli aeroplani per
spargere le sementi, essa li usa per seminare le bombe incendiarie sopra le
città; nell’uso bellico del gas ha trovato un modo per distruggere l’aura in
modo nuovo».
‘Sia l’arte e perisca il
mondo’: questa è la parola d’ordine del fascismo e insieme il compimento
dell’arte per l’arte. «L’umanità che in Omero era uno spettacolo per gli dei
dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa». L’autoestraneazione
dell’umanità è giunta a un tale grado da permetterle di «vivere il proprio
annientamento come un godimento estetico di prim’ordine».
Ciò che più colpisce nelle
tesi benjaminiane è la loro strabiliante attualità: pur essendo state pensate
in riferimento alle politiche dei regimi cosiddetti totalitari, esse sembrano
adattarsi senza bisogno di eccessivi cambiamenti alle nostre società
democratiche e flessibili, sembra anzi che il dispositivo dell’estetizzazione
della politica sia stato elaborato propria per esse e che solo per uno strano
accidente abbia compiuto i suoi primi passi in un ambiente storico-politico
diverso. In particolare quello che si presenta come un dato ormai quasi
strutturale è il nesso estetizzazione-guerra.
D’altra parte era stato
proprio al nuovo statuto della guerra, manifestatosi con la prima guerra
mondiale, che Benjamin nel saggio sulle vicissitudini dell’arte della
narrazione aveva attribuito la nascita del moderno concetto di informazione.
La guerra aveva testimoniato in primo luogo del collasso delle forme
tradizionali della comunicazione: per la
prima volta, a memoria d’uomo, «la gente tornava dalla guerra ammutolita, non
più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile». La guerra moderna è un
trauma che non si fa esperienza, che
resta muto e semmai s’iscrive nell’inconscio manifestandosi in modo sintomale.
Al suo posto subentra la realtà dell’informazione il cui tratto peculiare,
conforme d’altronde alla scomposizione
soggettiva prodotta dalla modernità, consiste nello slegare definitivamente la
coscienza attuale dell’evento su cui è chiamata a riferire dalla memoria
collettiva attraverso la quale si trasmette
l’esperienza accumulata della comunità: in altri termini l’informazione
brucia ogni volta il contesto da cui proviene e dal quale soltanto potrebbe
derivare il senso di ciò che accade o sta per accadere. La notizia – l’unità
minima dell’informazione – è degna d’essere comunicata a condizione che sia
assolutamente nuova, che non abbia nulla a che vedere col passato. Essa vive
soltanto nell’attimo in cui è nuova,
coincide con l’attimo e si consuma in esso.
La decadenza della
narrazione e la sua progressiva sostituzione con il modello dell’informazione
derivano, secondo Benjamin, da un altro tratto specifico della modernità:
l’espulsione dell’esperienza della morte dalla percezione dei viventi. La
credibilità del narrato, la sua potenza veridica ed il suo ruolo di guida
pratica, discendono direttamente dall’esperienza della morte; solo le parole
pronunciate in punto di morte e con la consapevolezza della morte imminente diventano parole
autorevoli. Si potrebbe anzi dire d’accordo con Derrida che le sole parole
autorevoli e credibili sono quelle che si sanno postume mentre chi le pronuncia
è ancora in vita.
La morte è la storia
naturale di ogni storia: non nel senso che ne sia lo sfondo, ma in quello per
cui ne costituisce l’orizzonte di senso.
Scandendo con la sua ripetizione la sequenza della narrazione, costituendone il ritmo, la morte fonda la
memoria e rende possibile la sopravvivenza;
disfacendo il continuum storico assicura all’effimero barlumi
d’eternità. Senza la morte solo estasi istantanee, vissuti contingenti
senza durata e senza storia.
Se c’è un paradosso nelle
forme moderne e contemporanee delle comunicazioni di massa governate dal
dispositivo dell’estetizzazione della politica esso consiste nel fatto che il
nesso strutturale fra informazione e guerra non si accompagna per nulla ad una
accresciuta esperienza della morte, bensì al contrario convive tranquillamente
con la sua assoluta inesperibilità. È diventato un luogo comune notare come a
fronte dell’esposizione sempre più massiccia dello spettatore televisivo alla
violenza e alla morte prodotte dalla forme di vita contemporanee (guerre e
conflitti sociali d’ogni sorta), si registri sul versante della ricezione
psicologica un aumento inversamente proporzionale delle capacità di
assuefazione e di adattamento spinte in molti casi fino all’insensibilità più
completa. Come se in mancanza di strumenti
psicologici e culturali atti a sostenere il peso della morte, l’unica
reazione fosse la cancellazione dell’esperienza in quanto tale.
Se la morte, sia essa naturale o violenta,
è la quintessenza di tutto ciò che
chiamiamo il male – fisico, morale e metafisico -, allora il dispositivo
dell’estetizzazione sembra coincidere con un programma di sradicamento del male
dal terreno dell’esperienza umana. Sotto i nomi di Realtà Integrale o Virtuale
– declinazioni contemporanee della benjaminiana estetizzazione della politica –
Jean Baudrillard ha tematizzato la modalità terminale cui giunge un mondo
interamente prodotto e performato dai moderni mezzi di comunicazione di massa.
Da questo mondo vengono sistematicamente espulsi tutti gli elementi di
conflitto, di eccedenza e di squilibrio
che potrebbero produrre dolore e sofferenza; in esso il desiderio è ridotto
alla condizione del bisogno in modo che vi sia sempre un oggetto
disponibile per poterlo soddisfare. La conseguenza è che il mondo dominato
dalla Realtà Integrale si impegnerà in una mastodontica liquidazione del male,
cercando di braccarlo da un lato nella
sua radice genetica (la prevenzione in tutte le sue forme), ma anche e
soprattutto nella sua incarnazione storico-politica (guerra – ancora la guerra!
– all’’Asse del Male’). Va da sé che il male che si cerca di espellere o di
eliminare non potrà che tornare proprio al centro di quella Realtà Integrale
che se ne voleva completamente immune. Ritornerà come attacco terrorista,
suicidio omicida, dono di morte non restituibile.
Non intendo seguire Baudrillard su questo
terreno che mi sembra oltremodo scivoloso e ambiguo. Più importante mi sembra
tener conto di una notazione a mio
parere decisiva che il sociologo francese fa a proposito della natura del male
in quanto tale. Se la Realtà Integrale può impegnarsi nella sua eliminazione
ciò accade perchè per essa il male è una realtà oggettiva, una realtà appunto
nel senso tradizionale di questo termine come di qualcosa che non dipende da
noi ma che noi subiamo e che la Realtà
Integrale o Virtuale cerca di soppiantare definitivamente. Tuttavia è solo
perché è una realtà oggettiva che il male è identificabile, circoscrivibile e
di conseguenza liquidabile.
Ora è proprio questa tesi ad
essere falsa: per Baudrillard il male al contrario non «ha realtà oggettiva»,
esso anzi consiste «nello sviamento delle cose dalla loro esistenza
‘oggettiva’, nel loro ‘rovesciamento’, nel loro ‘ritorno’». Il male è
piuttosto una forma, esattamente la forma del ‘duale’ dell’agon, il cui prototipo è ritrovato da Baudrillard nella pratica del
dono individuata a livello
antropologico da Marcel Mauss e generalizzata da Georges Bataille. Se il dono
sta sul lato del male è perché esso implica sempre la dissimetria e lo
squilibrio: per quanto si cerchi con un controdono di pareggiare il dono ricevuto, vi sarà sempre un altro
dono che riaprirà la sfida, fino all’elargizione di un dono non restituibile.
Riattivare in qualche modo la pratica del dono – anche in quello dell’attacco
suicida alle Torri gemelle – è l’unica forma di opposizione alla Realtà
Integrale.
Se la tesi dell’inconsistenza del male produce
in Baudrillard queste conseguenze, essa può essere tuttavia sviluppata anche in
un altro modo ed è su questo punto che vorrei soffermarmi in conclusione ricorrendo ancora una volta a Benjamin. Nel
grande saggio sulla lingua del 1916 Benjamin affronta il tema del peccato e di
conseguenza quello della natura del male. In primo luogo il peccato, per
Benjamin, è essenzialmente un peccato nei confronti della lingua, consiste in
un uso distorto della finalità originaria della lingua che è quella di nominare
le cose in quanto create dalla e nella lingua divina. Al di là della cornice
mitico-teologica in cui si esprime, la tesi benjaminiana significa che la
prestazione propria della lingua è quella di portare all’espressione il contenuto positivo delle cose, la loro
consistenza d’essere, caratteristica che il Genesi
indica attraverso la frase ‘è bene’ con cui Dio suggella ogni
singolo atto di creazione. Nella misura
invece in cui il peccato è compiuto dai nostri disgraziati progenitori in vista
della conquista della conoscenza del bene e del male, la lingua – solo umana
questa volta e non più adamitica, cioè imparentata strettamente con quella
divina – si volge – vera e propria perversione dello spirito linguistico – non
solo a dire il bene, vale a dire ciò che è, ma anche il male, ossia il non
essere. Anzi l’effetto più devastante del peccato consiste nel far credere che
per poter dire ciò che è, e quindi affermare il bene, sia necessario
preliminarmente isolare ciò che non è,
dire il male e in tal modo combatterlo fino all’eliminazione. Il risultato è uno solo: l’uomo trascorrerà
tutto il suo tempo ad inseguire il male e in tal modo diserterà l’esercizio del
bene. D’altronde il compito di eliminare il male è di per sé impossibile dal
momento che il male non è niente in sé, nulla di oggettivo, di consistente, è
un puro miraggio.
Ma cos’era l’aura quando il
rituale cessava di sorreggerla e darle un senso? Pura apparenza. Ma
l’apparenza, come Benjamin chiarisce in un lavoro preparatorio al saggio sulle
Affinità elettive di Goethe, non è
solo quella della moderna filosofia idealistica in cui il fenomeno ha un
significato positivo non essendo altro che la manifestazione dell’essenza; è
anche l’apparenza ingannevole, lo specchio deformante, l’anamorfosi demonica.
L’apparenza, da Platone in poi, è anche il dispositivo che dona la veste
dell’essere al non essere, che dà un corpo al nulla, che mostra pornograficamente
l’invisibile.
Anche Benjamin dunque come
Baudrillard ritiene che il male non abbia alcuna realtà oggettiva. A differenza
del sociologo francese, però, non ne trae la conclusione che l’obiettivo della
Realtà Integrale sia quello di liquidare il male come se quest’ultimo fosse
ciò che oppone resistenza al suo dominio iperpervasivo. Per Benjamin è la
Realtà Integrale – posto gli si possa attribuire una simile espressione – ad
essere il risultato del diffondersi del male. È il male ad essere all’origine
della possibilità dell’estetizzazione e non è la Realtà Integrale a
derealizzare il male, bensì il male a derealizzare il mondo.
Se tutto questo è vero, non sembra plausibile
affidare al terrorismo suicida il compito di sfidare la Realtà Integrale. Più
sobriamente l’emancipazione delle masse continua a richiedere un lavoro di politicizzazione delle immagini[1].
[1]
I testi citati sono: di Walter Benjamin Sulla
lingua in generale e sulla lingua degli uomini, Il narratore. Considerazioni
sull’opera di Nikolaj Leskov e L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica; di Jean Baudrillard Il patto di lucidità o l’intelligenza del male.