martedì 29 luglio 2014




Pubblico qui di seguito due contributi critici a opere prime di giovani poeti.




L'opera della revisione



E ogni volta che inizi una poesia
Convochi i morti
Essi ti guardano scrivere
Ti aiutano
                                                    José Emilio Pacheco                                                                              
                                                                                                                            

Per raggiungere lo scopo dell'arte poetica, ossia riuscire ad avvicinarsi a quel luogo in cui il dire schiude l'essere e il suono instaura, dopo averlo sospeso, il senso, il poeta efebo, per usare un'immagine di Harold Bloom, è costretto a lottare con coloro che lo hanno preceduto in questa impresa, con i suoi precursori sulla via della poesia, la cui grandezza sembra aver suturato tutto il campo delle possibilità poetiche, non lasciando alcuno spazio, neppure un interstizio, al nuovo arrivato che cerca faticosamente la propria strada e la propria voce. A compensare, tuttavia, il sentimento dell'angoscia che attanaglia il poeta efebo di fronte all'influenza che subisce da parte del poeta precursore, sta la consapevolezza che anche quest'ultimo ha in gran parte fallito: forse per l'impossibilità del compito stesso che si affida alla poesia, quello, se non di rifare il mondo dall'inizio, almeno di rovesciarlo come un guanto, anche il poeta precursore, nonostante la sua inarrivabilità, non è andato fino in fondo, si è fermato, suo malgrado, a un passo dalla rivelazione. Il dire è ricaduto su se stesso, il suono ha mancato il senso, l'apocalisse è stata rinviata.
Ogni grande poesia è revisione di una poesia precedente: è un rifacimento e una riscrittura. A questo proposito Harold Bloom elenca sei rapporti revisionistici, sei modalità cioè con cui si attua la revisione del poeta precursore da parte del poeta efebo. Il clinamen, vale a dire il fraintendimento o travisamento vero e proprio, lo scarto rispetto al poeta precursore che viene corretto in un punto del proprio itinerario e spinto in un'altra direzione. La tessera, ossia il segno di riconoscimento, il frammento che aggiunto agli altri pezzi ricostituisce l'oggetto originario: il poeta efebo usa gli stessi termini del poeta precursore ma impiegandoli in un altro senso. La kenosis, ossia l'abbassamento e l'umiliazione: il poeta efebo sembra eclissarsi di fronte alla superiorità del poeta precursore, ma in questo modo lo trascina con sé, lo svuota e riequilibra il rapporto. La demonizzazione: aiutato da un essere inferiore, né divino né umano, il poeta efebo risale a una potenza anteriore alla poesia del precursore, la quale così perde l'aura dell'unicità. L'askesis, ossia una forma di purificazione raggiunta attraverso la solitudine: il poeta efebo rinuncia a una parte delle sue doti umane e immaginative e in tal modo si isola non solo dagli altri, ma anche dal poeta precursore che viene a propria volta costretto a un'autolimitazione. E infine I'Apophrades, il giorno nefasto in cui tornano i morti: il poeta precursore ritorna nel poeta efebo ma come se a scrivere la sua poesia fosse quest'ultimo. Con il ritorno dei morti siamo pervenuti al punto massimo dell'opera di revisione poetica: la poesia del precursore è stata scritta dal poeta efebo.
La spia che mi fa credere che Michele Fogliazza appartenga alla schiera dei poeti è il fatto che egli non nasconda ma anzi esibisca spudoratamente il corpo a corpo - un corpo a corpo che dandosi nell'elemento della poesia non può che manifestarsi nella corporeità della scrittura: la sonora corposità delle parole  - che ingaggia con i poeti precursori. Che la sua poesia sia per la gran parte un rifacimento e un approfondimento di quella dei poeti precursori  - che per un poeta italiano rispondono ai nomi di Dante e di Leopardi, precursori lontani, ma soprattutto di Montale e Campana, precursori questi vicinissimi e la cui influenza innerva d'angoscia le più belle poesie di questa raccolta -  non depone a suo sfavore come se essa fosse mera imitazione, ma è la prova al contrario di quanto essa prenda sul serio il compito poetico e sia disposta a pagare il prezzo necessario per essere vera e giusta poesia.
Nella revisione ad esempio dell'Ugolino dantesco decisivo è lo spostamento, cubista come lo stesso Fogliazza suggerisce, dalla rappresentazione oggettiva e in fin dei conti solamente accennata dell'orrore, alla sua resa soggettiva, unica capace di mostrarci a quale grado di frantumazione l'io debba pervenire per arrivare a quella soglia fra l'umano e l'inumano, a quel punto di non ritorno nella degradazione, rappresentato dal «poscia, più che il dolor, potè il digiuno»: l'io si è parcellizzato in una miriade di piccoli io, di piccoli oggetti che, perduto l'ultimo affiato della coscienza, si rivelano essere nient'altro che incarnazioni dell'abiezione. Allo stesso modo nella revisione del passero solitario leopardiano, l'uccello che cantava solo durante il giorno per tacersi al calare della notte, si trasforma in un «imbizzarrito animale notturno», in un «dolce urlatore notturno», che fugge dalla luce solare, si nasconde alla chiarezza del giorno, e attende silenzioso il tramonto.
Il rifacimento del passero solitario leopardiano ci introduce al tratto più precipuo del revisionismo poetico di Michele Fogliazza: l'indeterminazione del rapporto fra il giorno e la notte, fra la luce e il buio. Il compito della poesia è di schiudere l'essere attraverso il dire, il senso attraverso il suono: secondo il dettato di Heidegger ciò significa attribuire al dire poetico la capacità di condurre ciò che è nascosto alla manifestazione, alla visibilità. Il dire poetico conduce al giorno, offre alla luce, ciò che fino allora albergava nella notte e nell'invisibilità. Ma è sufficiente questa opposizione fra la notte e il giorno, fra la luce e il buio? Dove si raccoglie la notte una volta che si è fatto giorno? Dove il buio? Forse al centro stesso della luce del giorno. «L'uomo del sole diurno / Scruta sottile l'orizzonte / Come a studiarne l'avvenire // Ma qualcosa non coglie nel fluire del vento / Nel continuo luccicare del sole»: non si accorge dell'aria che diventa sempre «più estranea» e «che s'infossa come nemico nel profondo». «Diurno», scrive Fogliazza, è termine ambiguo, è «il nome notturno del giorno»: è la notte quindi ad abitare il culmine del giorno, a installarsi al centro della luce. Nel cuore del giorno c'è la notte, e se si riesce a guardare fissi in questa notte ci si accorgerà che essa riluce. Il Dioniso notturno cede il passo a Fanes, al dio che porta alla luce, che rende visibile il nascosto.
Affisare lo sguardo nella luce è guardare la notte e viceversa. Blanchot ha sperimentato per primo forse questa doppiezza indecidibile del giorno: ciò che dovrebbe assicurare l'ordine, la coerenza, il senso, fa sprofondare nella follia, è la follia. Esiste una follia del giorno che non è quella della notte, in fondo conosciuta, esplorata, resa innocua. Esiste una follia che è propria del giorno e che appunto per questo ci sorprende, è la follia che ci afferra al culmine della sensatezza. «A lungo andare,» scrive Blanchot, «mi convinsi di vedere a faccia a faccia la follia del giorno; tale era la verità: la luce impazziva, la chiarezza aveva perduto ogni buon senso; mi assaliva sragionevolmente, senza regola, senza scopo». Come il personaggio della Follia del giorno, cui qualcuno aveva schiacciato dei vetri sugli occhi, vedeva e non vedeva, vedeva, se così si può dire, il buio, così il poeta deve esprimere gratitudine alla luce troppo forte che lo acceca perché è solo nel nero dell'accecamento che riesce a vedere il «minuscolo rigo di fulminosa luce». È in questa luce, simile più a un bagliore della notte che ai raggi dispiegati del sole diurno, che si offrono i sentieri inesplorati su cui il poeta deve incamminarsi.
In versi come «Nelle ombre dischiuse la luce si nasconde / Ed il prematuro buio sviene» e «Volgono al ginepro le ore più viola del sole basso / nell'ortaglia di fianco al fosso / Giù per la breve collina / La luce fioca prima si smarrisce / E titillano i contorni / Travolti dal colore / Ecco pare finalmente / Brulicar di quadratini scoppiettanti / Impazziti! Si diradano / ed io con loro perdo luce», sembra di ascoltare l'eco revisionista del Celan dell'elogio dell'ombra: «Parla anche tu, / parla per ultimo, / dì la tua sentenza. / Parla   / Ma non dividere il sì dal no: / Dà alla tua sentenza anche il senso: / dalle l'ombra. / Dalle ombra sufficiente, / dagliene tanta/ quanto sai ripartita attorno a te tra / mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte». L'ombra qui non è il riparo dalla luce eccessiva ma il rilucere proprio della notte a partire dal quale si origina il senso.
Se si vuole spingere più oltre il lavoro poetico bisogna modificare profondamente il dettato montaliano: per portare «alla chiarità le cose oscure» non bisogna favorire la loro tendenza naturale, il loro spontaneo volgersi alla luce. Bisogna al contrario farle flettere verso l'ombra o verso l'oscurità. Bisogna contrastare l'eliotropismo del girasole, questo fiore «impazzito di luce» e rinunciare alla regione delle «bionde trasparenze» dove «vapora la vita quale essenza». Questo movimento a ritroso, dalla luce all'oscurità, coincide con un avanzamento verso il peggio: il linguaggio già stremato dovrà diventare più soffocante, la realtà evocata dovrà essere sempre più terribile, rovente. Come per i valentiniani l'unico modo per eliminare il male dal mondo consisteva nel commetterne sempre di più e nello sprofondare in esso, così bisogna incrementare il male di vivere fino a farlo diventare irrimediabile. Il male di vivere non si è fermato, esso diviene ancora: prima era «il rivo strozzato che gorgoglia, / era l'incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato» e contro di esso, di là dal muro, si presentiva il bene «che schiude la Divina Indifferenza», ossia «la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato»; adesso invece esso è diventato «Il sonaglio attorcigliato all'orecchio / Il morso del prurito doloroso / L'affanno del respiro». Al male è riuscito «di trovarci anche di qua dal muro / Nel protetto della stalla vuota / Forte come le fiere nella selva / Contro il nostro corpo nudo».

Per rifare il mondo forse è necessario che il poeta sovrapponga al giorno eccessivamente luminoso di Montale la «lunga notte piena di inganni delle varie immagini» di Dino Campana. Suoni quel "notturno" che è forse il nome diurno della notte.


L’opera della revisione, riflessione critica in M. Fogliaza, Diurno, Opera prima, Cierre grafica, Verona 2006, pp. 43-47.

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