L’infinito è l’infinita scelta di cose
Il dolore se non varia è confutabile
Certo la scempia è la
più vera delle rose
Edoardo Cacciatore
è
sempre difficile ricostruire di un poeta la trama delle filiazioni, la catena
dei poeti precursori di cui il poeta efebo è l’ultimo anello: ultimo certo solo
secondo la misera misura dell’adesso ché dal punto di vista dell’eterno o del
tempo smisurato la processione dei poeti è illimitata. Così è anche della
poesia di Stefania Negro: nonostante ciò proverò egualmente ad indicare una genealogia servendomi in una caso
di una esplicita dichiarazione di poetica e nell’altro di una suggestione
personale che spero non
eccesivamente traditrice dell’intenzione poetica di Stefania Negro.
Parto da quest’ultima: leggendo queste
poesie, cercando qualche aggancio che mi permettesse di entrare nel loro
mistero e cogliere la legge cui si sottomettevano, mi è venuto in mente uno
strano testo di Edgar Allan Poe, un testo che in anni passati avevo definito
‘tardo e vagamente testamentario’; mi riferisco a Eureka scritto nel 1848, quindi un anno prima della morte del
poeta, e definito da Poe stesso un poema in prosa. Ma il ricordo di Eureka non è separabile per me da quello
delle poche, ma intense pagine che Paul Valéry vi dedica in Variété. Li ho letti insieme e
d’allora viaggiano vicini nella
mia mente e nei miei ricordi.
Che cos’è Eureka? Come nota subito Valéry Eureka vuole essere un poema cosmogonico
e Poe un poeta della conoscenza: Eureka
non intende parlare dell’esperienza soggettiva, non vuole essere un esercizio
di poesia lirica. Riallaciandosi alla tradizione riposta nei nomi di Lucrezio e
di Dante, mescolando scandalosamente i generi, Poe per Valéry mira ad una
poesia capace di fare concorrenza alla filosofia e alla scienza e addirittura
ad una poesia che sia filosofia e scienza senza cessare per questo di essere
poesia. Forse qui il termine poesia vorrebbe tornare ad indicare quella specie
di dire originario, e indifferente da questo punto di vista alle
distinzioni successive fra poesia
e prosa, immaginazione e scienza, fantasia e calcolo, da cui prende vita il mondo, se non nella sua disposizione empirica, certamente nella
sua verità, in quella verità che Poe definisce attraverso l’attributo della Consistency, termine tradotto da
Baudelaire e dal traduttore italiano con Coerenza,
ma che Valéry rende con il francese Consistance.
Per la poesia in prosa di Poe, per la poesia della conoscenza, la verità non si
dà attraverso una dimostrazione matematica, una deduzione logica o un’inferenza
empirica, ma in nome della consistenza costruita dalla parola poetica.
Dopo aver
dichiarato lo scopo che si prefigge scrivendo Eureka - « è mia
intenzione parlare dell’Universo fisico,
Metafisico e Matematico – Materiale e Spirituale: della sua Essenza, delle sue
Origini, della sua Creazione, della sua Condizione presente e del suo Destino»
- Poe precisa, tuttavia, che sarebbe sbagliato attendersi qualcosa come una
dimostrazione di un teorema - nonostante i matematici la dimostrazione, secondo
Poe, non esiste in questo mondo – e che si potrà tuttalpiù seguire un’idea regolativa che si
potrebbe formulare in questo modo: «Nell’Unità
Originaria della Prima cosa risiede la Causa Secondaria di Tutto, assieme al Germe
del loro Inevitabile Annichilimento».
Chiunque abbia
letti i racconti ‘polizieschi’ di Poe sa che Dupin non ha niente a che vedere
con Sherlock Holmes: se quest’ultimo è l’espressione del carattere scientifico
di ogni metodo investigativo moderno, l’eroe eponimo del paradigma indiziario,
Dupin è un poeta, applica nelle sue indagini la mescolanza di fantasia e
esattezza, immaginazione e analisi, e vince infatti sulla polizia nel
ritrovamento della ‘lettera deviata’ perché ha dello spazio non una concezione
geometrica, ma poetica, si potrebbe anche dire topologico-poetica: laddove la
polizia quadretta, Dupin vede spazi rovesciati, rivoltati come un guanto.
Non è un caso
dunque che per l’elaborazione di
questa fantasia cosmogonica dotata di Consistenza, tale cioè che in essa possa
trovare posto anche l’odd, il
bizzarro, il perturbante, l’insolito,
risultino inservibili i metodi scientifici più accreditati, ossia la
deduzione e l’induzione: la verità in questione non è quella piatta della
conoscenza razionale ma quella imprevedibile, quindi indeducibile da un lato e
mai già data dall’altro, di ciò che non è mai accaduto prima e non ha di
conseguenza modelli o archetipi da cui lo si possa far discendere, né atomi
sensibili e impressioni empiriche
di cui sarebbe la copia più o meno sbiadita.
Da questo
punto di vista quel carattere impersonale che Valéry credeva di cogliere nel poema di Poe e al quale si
aggrappava come all’unica speranza che restasse all’uomo della conoscenza non si riferiva forse tanto al rifiuto di una poesia lirica
quanto alla necessità che poesia e
filosofia, la poesia filosofica o la filosofia poetica, si liberassero una
volta per tutte dell’idea che il mondo coincidesse kantianamente con ciò che il
soggetto può conoscerne, cioè con quello che può essere anticipato dalle
capacità conoscitive del soggetto: questo sarebbe un mondo privo di
invenzione, in cui
nulla può sorprendere. Semmai dovrebbe essere il soggetto a rifluire nel mondo,
partecipando del suo essere fluttuante e ondulatorio, consapevole che la verità
non consiste nella prevedibilità del tutto, ma nella coerenza, nella
consistenza con cui anche ciò che è bizzarro e indeducibile si relaziona a tutto il resto.
Se dopo queste
precisazioni si tornerà all’idea regolativa enunciata da Poe in apertura di Eureka secondo la quale il compito del
poema è di tenere assieme,
di dare consistenza all’unità originaria della Prima Cosa, alla Causa
secondaria di tutto e al germe del loro inevitabile annichilimento, si comprenderà
più facilemente perché Valéry non solo riponga la speranza nel diventare
impersonali ma ritenga l’impersonalità finalmente conquistata “il gran passo
verso il tempo della fine del mondo”. Se la poesia è creazione dl mondo e
insieme della legge della sua composizione, essa è anche il principio della sua dissoluzione, del suo
annichilimento, e quindi della possibilità di una nuova creazione. La speranza
non sta nel fatto che tutto continui come prima, ma che qualcosa di
imprevisto faccia collassare il
mondo conosciuto e ne inventi un altro assolutamente nuovo.
Non saprei
come definire meglio la poesia di Stefania Negro se non ricorrendo ai termini
usati da Valéry a proposito di Eureka:
poema cosmogonico, poesia della conoscenza. Anche Stefania Negro vuole pensare
poeticamente l’universo, tener conto dei risultati scientifici più recenti e
allo stesso tempo seguire il filo dell’immaginazione. L’universo della sua
poesia è un universo ondulatorio, tutto costruito sul concetto di onda:
luminosa, sonora, cerebrale. Un universo concepito come un sistema elastico
trasformazionale o come un palloncino che si espande senza centro. E al centro
di questo universo, connesso ad esso, l’uomo; ma appunto un uomo inteso come
onda, capace di andare in risonanza con il resto. Tutto, nella poesia di
Stefania Negro è insieme relativo e cosmico: relativo perché dipendente dalla
conoscenza umana e legato a ragioni scientifiche, ma cosmico perché compreso a sua volta nell’universo.
Nella poesia di Stefania Negro entra di conseguenza tutto: i quanti, i quark,
le particelle infinitesime, le galassie, e insieme l’uomo, lo stupore che lo prende di fronte alla
vita e al suo divenire.
Nella prima
poesia di questa raccolta c’è un immagine che mi sembra racchiudere come una
matrice l’intero pensiero poetico di Stefania Negro: se da un lato, scrive, “la
storia ha definito le nostre esistenze”, dall’altro però “il limite/è in
limine”. Il limes, il limite, il
confine, che ci separa e ci distingue da tutto il resto, sta però sul limen, sulla soglia, e ciò permette
all’universo di sconfinare in noi, di entrare nella nostra soggettività, e a noi di proiettarci fuori
verso l’universo. Più propriamente il limite è la soglia, è ciò che separa e
unisce le parti di cui si compone l’universo. Così percepire è “vedere le
metamorfosi/luminose della materia, è sentire i silenzi densi di suoni”; la
memoria, invece, è ciò che plasma “il sé nel legame chiaro/e simbolico tra
l’inconscio e il mondo”. E pensare
è agire in modo che se “ti guardo e penso/al tuo volto amato, al dolce senso
dei tuoi/sguardi, alle tue labbra rosa trepide/di baci”, allora “il mio volto lievemente al/tuo
s’accosta nel febbrile moto dei sensi”. Infine noi siamo “cifre e frammenti
d’assoluto” che vivono come “lampi fluendo nel tempo” o assomigliano a dei
“colubri che svelti/corrono nelle siepi”; siamo “forme che svaniscono nel nulla
quando/l’uno con il molteplice si compone/ come favilla rossa di fuoco/che
brucia tra favule e rovi o/come favonio che soffia sul prato/e sul mare e poi
svigorito già muore”.
In
controtendenza con il lirismo e l’intimismo dominanti nella poesia italiana del
novecento, Stefania Negro si riallaccia in modo originale a quei pochi esempi
in cui si sia tentata la
costruzione/ricostruzione della totalità, anche se questa totalità fosse difficilmente afferrabile
nella sua unitariatà, nella sua consistenza, causa il dominio assoluto in essa
del divenire, del cambiamento e della trasformazione. Come dire senza vertigine
ciò che non sta mai fermo un istante e sta sempre per essere un’altra cosa?
Come rendere alla parola poetica ciò che è effimero? è a
questo proposito che bisogna evocare il nome dell’altro poeta precursore di questo poema cosmogonico,
un poeta precursore che, come ho già detto, viene chiamato in causa espressamente
da Stefania Negro che giunge fino al punto da dedicare, a lui e alla moglie,
l’intera raccolta. Il poeta in
questione è Edoardo Cacciatore.
Come scrive
Giorgio Patrizi introducendo la raccolta
di tutte le sue poesie, Edoardo Cacciatore aveva deciso di accettare la
sfida che “la realtà lancia al linguaggo e all’individuo”, e cioè “comprendere
totalmente il reale e riconoscervi l’identità totale dell’uomo”. Ciò si può
ottenere attraversando ”i fenomeni della realtà con la consapevolezza dell’alterazione
del soggetto e delle cose”. Anzi è proprio la coscienza dell’alterazione a
divenire insieme il processo conoscitivo della realtà e lo strumento
dell’autocoscienza del poeta. Prendendo le mosse dal vitalismo eracliteo e
dalla cosmogonia pitagorica, Edoardo Cacciatore aveva cercato di coniugare
conflitto ed unità, cambiamento ed equilibrio, disegnando un mondo in cui se “il tradimento è l’effemeride
mutabile” e “l’assassinio il bell’in-folio per tutti i tempi”, tutto ciò si
tiene perché “Alla fine l’inganno vero è veritiero/Tutto più si fa strano e
meno è straniero”.
Il principio
dell’alterazione per il quale “Il cacciatore anche lui diviene caccia” non
indica soltanto, secondo il detto eracliteo, il passare di ogni cosa nel suo
contrario, compreso il nome stesso del poeta, ma la sostanziale appartenenza di
ogni cosa all’alterità, a ciò che Valéry designava con il termine impersonale
tentando di commentare Eureka e
Giorgio Patrizi indica, a proposito della poesia di Edoardo Cacciatore, nel
concetto del “pensiero del di fuori” di Maurice Blanchot. A questo aspira la poesia di Stefania
Negro: a sperimentare l’altro.
Certo l’altro nel senso dell’universo. Ma anche l’altro nel senso
dell’uomo, e non nel senso soltanto dell’altro uomo, dell’uomo altro da me, ma
in quello, tutto blanchotiano, di quel che è altro nell’uomo, dell’ignoto e dell’impersonale che lo
borda, del fuori in cui esiste. In una parola dell’universo stesso. Il limite è
in limine.
Bibliografia
minima: E. A. Poe, Eureka, tr. it. di
P. Guglielmoni, Milano 2001; P. Valéry, A
proposito di Eureka, tr. it. di S. Agosti in Varietà, Milano 1971; B. Moroncini, La lettera disseminata e l’invenzione della verità. Poe, Lacan, Derrida,
in Palinsesto. I modi del discorso
letterario e filosofico (a cura di G. Zuccarino), Genova 1990; E.
Cacciatore, Tutte le poesie, San
Cesario di Lecce 2003.
Riflessione critica, in S. Negro, Fili di luce compresi negli archi del
divenire, Cierre grafica, Verona 2007, pp. 37-44.
Stefania Negro ha recentemente pubblicato una nuova raccolta di poesie per Anterem Edizioni dal titolo Oscillazioni con una riflessione critica di Flavio Ermini (Cierre grafica, Verona 2014).
Nessun commento:
Posta un commento