1) In un precedente intervento su
questo blog mi è capitato di scrivere che ciò che caratterizza il capitalismo è
il fatto di mettere al lavoro il tempo, tutto il tempo, da ultimo anche
l’ultimo tempo che si sottraeva al lavoro, ossia il tempo impiegato in ciò che solo con un
eufemismo o con un ironia che sconfina nella crudeltà veniva definito ‘lavoro’ intellettuale. E di aver sostenuto
che l’obiettivo di chi si professa comunista consiste nel liberare il tempo,
tutto il tempo, dal lavoro. Ma che cosa vuol dire liberare il tempo dal lavoro?
Se questa affermazione ha un senso, essa
deve significare la sottrazione del tempo a qualunque forma di durata. È
del tutto inutile ad esempio porsi
l’obiettivo di liberare il tempo dallo scopo del capitalismo che consiste
nell’accumulazione senza limiti, se poi lo si assoggetta ad un qualunque tipo
di progetto fosse il più apparentemente nobile e disinteressato. Liberare il
tempo deve voler dire non investire più sul tempo e non investire più il tempo
in scopi e finalità che richiedano il rinvio del piacere presente in vista di un vantaggio futuro
qualunque esso sia. Se si
vuole sfuggire all’imperativo
economico bisogna smettere in primo luogo di risparmiare e di risparmiarsi, e
la prima cosa su cui l’uono ha tentato di risparmiare è stato il tempo, il primo granaio che ha costruito è stata
la memoria, la prima cosa che ha
imparato è stato come fare a sopravvivere. Tutto questo perché il tempo non è come vorrebbe chi ha tutto l’interesse a mantenere in
vita la divisione del lavoro e a distinguere dunque fra l’attività manuale e
quella intellettuale, fra il lavoro asservito e il lavoro come realizzazione
libera di sé, il lavoro come
l’essenza più propria dell’umanità,
ciò che dura e, durando,
sostiene il progetto e permette l’edificazione, ma la perdita incessante,
l’usura senza limiti, la corrosione irremediabile. Se di una durata del tempo è
possibile parlare, essa è solo la
durata della perdita.
2) Traggo l’espressione ‘durata
della perdita’ impiegata per definire la natura del tempo da un bel libro di
Ciro Papparo dedicato al pensiero di Georges Bataille e dal titolo,
programmatico come pochi, Perdere tempo
(Mimesis 2012). Il lungo e non
ancora terminato processo di messa al lavoro del tempo da parte del capitalismo non ha lasciato insensibile la riflessione
filosofica: in concomitanza con la rivoluzione dei rapporti di produzione il
pensiero più avvertito del novecento, da Bergson a Heidegger, da Benjamin fino
appunto a Bataille, ha tratto la conclusione che il caro e vecchio essere della
tradizione della metafisica occidentale, l’essere identico ed eterno, fosse ormai
divenuto tempo. ‘Essere e tempo’
significa in realtà ‘Essere è tempo’, l’essere è evento, storia,
destino. Invio e compito. Impossibile d’ora in poi separare l’essere dalle
estasi temporali del passato, del presente e dell’avvenire: l’essere è
estatico, gettato-proiettato fuori di sé. Detto ancora in altro modo: l’essere
è ex-sistenza. È accaduto tuttavia che in questa presa in carico da parte del
pensiero filosofico, che è sempre, anche quando non ci pensa esplicitamente,
decostruttivo e critico, di un processo storico-mondiale quale la messa al
lavoro del tempo, si sia prodotto
un rovesciamento e l’essere divenuto tempo si sia rivelato non un serbatoio o un magazzino, non un
‘fondo’, bensì un colatoio. In un passo del Su
Nietzsche. Il culmine e il possibile, col quale Papparo chiude la sua
ricostruzione del pensiero di Bataille, il filosofo francese scrive: «Quando
l’essere stesso è divenuto il tempo - tanto è roso all’interno - quando il moto
del tempo ha fatto di esso, alla lunga, a forza di sofferenze e diserzione,
questo colatoio dove scorre il tempo, l’essere si fa aperto all’immanenza, non
differisce più dall’oggetto possibile».
3) Divenuto tempo che cola, come
sangue da una ferita aperta, l’essere si sottrae definitivamente a qualunque gerarchia come quelle
ad esempio fra il permanente e il
transuente, il necessario e il
contingente, l’ideale e l’empirico, l’autentico e il non autentico,
l’importante e l’effimiro, sfugge all’ansia del trascendere,
non si sottomette più al progetto, non si risparmia più. Coincide infine
con l’insieme del possibile, con il semplice accadere, con la gratuità dell’esistere,
con quella malattia inguaribile della vita umana che è il suo essere mortale. Citando Svevo,
Papparo esclude che il tempo
possa, come si dice, guarire: come cifra di una vita mortale, il tempo somiglia
in realtà alla malattia che «procede per crisi e lisi e ha i giornalieri
miglioramenti e peggioramenti», anche se «a
differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure».
L’essere divenuto tempo concide col puro divenire; ma il divenire a sua volta è
scialo - nel senso di una ricchezza
tanto lussureggiante quanto inutile - vale a dire spreco, dispendio. Se il
lavoro implica, come diceva Hegel, la messa a freno del desiderio - e non è importante se si tratti del lavoro della mano o di quello della
mente -, il rinvio a più tardi - per Lacan è la parola d’ordine di tutti i
capi, democratici o no, quella che
intima: «Cari sudditi, per i desideri ripassate più tardi!» -, perdere tempo
dovrà avere necessariamente a che fare con una certa inoperosità, con un certo
non fare, anche, come voleva Lafargue, con un certo ozio a condizione però che lo si
utilizzi non per lo studio, ma per
il piacere. Ma soprattutto perdere tempo
vuol dire accettare fino in fondo che il tempo è ciò che si perde e in
cui ci si perde, o, in altri termini, che il tempo è ciò che passa e che a noi
è dato soltanto di far passare il tempo, di essere noi stessi solo il tempo che
passa.
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