1) Saranno contenti tutti coloro che
a vario titolo e con diverse argomentazioni si sono opposti all’approvazione di
una legge che sancisse come reato penale la propagazione e il sostegno delle tesi cosiddette ‘negazioniste’ in
riferimento all’esistenza dei campi di concentramento nazisti, delle camere a
gas e dei forni crematori, vale a dire rispetto all’effettualità storica della
soluzione finale, dello sterminio degli ebrei. Secondo una notizia riportata
dal Corriere della sera di quasi
un mese fa (13 novembre 2013) un professore di liceo che insegnava ai suoi
alunni nell’ordine che i fatti
dell’Olocausto non sono veri, che i filmati sulle deportazioni sono dei falsi e
che in fin dei conti gli ebrei
sono dei furbi dai quali bisogna guardarsi, è stato assolto da un
tribunale italiano ‘perché il fatto non susiste’. Non è stata applicata nemmeno la legge Mancino che sanziona
la discriminazione e l’odio etnico
sia esso di tipo nazionale,
razziale o religioso. Semplicemente non esiste una norma con cui si possa
perseguire penalmente coloro che diffondono e promuovono la negazione della
Shoah impedendogli di continuare a esternare le loro opinioni. In nome di una
perversa interpretazione dei principi della libertà di pensiero e di
espressione e facendosi scudo di una citazione - questa sì del tutto falsa - di
Voltaire secondo la quale anche se
disapprovo quel che dici mi batterò lo stesso perché tu abbia il diritto di
continuare a dirlo, si accetta che si possa impunemente negare l’Olocausto
senza comprendere che non si tratta semplicemente di un enunciato
constativo che di per sé
potrebbe essere indolore, ma di
un performativo che nel momento in cui dichiara mai avvenuto lo
sterminio per ciò stesso ne auspica la realizzazione, definitiva questa volta. Negare l’Olocausto significa soltanto che ci si è fermati a
metà dell’opera ed è tempo
finalmente di portarla a compimento.
2) Tutto quello che c’era da dire
sul ‘negazionismo’ l’ha detto e scritto egregiamente Donatella Di Cesare in Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo
(il Melangolo, Genova 2012).
Citando fra l’altro un testo bellissimo ma poco noto di Jacques Derrida
intitolato nella versione a stampa Feu la
cendre (in italiano tradotto da Stefano Agosti: Ciò che resta del fuoco), ma quando era ancora una conferenza detta
a voce [così l’ascoltai
tanti anni fa dalla viva (?) voce di Derrida] Il y à là cendre. Titoli comunque entrambi ambigui e doppi: il
primo potendo significare sia Fu la
cenere sia Fuoco la cenere e
quindi Fu fuoco la cenere e Fuoco
fu la cenere, il secondo C’è la
cenere e C’è là cenere. Inutile
dire che la cenere in questione, questa cenere che è sempre là, sempre in via di dispersione, mai presente, di cui è impossibile di
conseguenza il raccoglimento e quindi il logos, che non sopporta nessun enunciato constativo, questa cenere
è la cenere di Aschwitz, la
cenere dei forni crematori, ciò che resta,
senza restare d’altronde, dell’Olocausto, del fuoco brucia-tutto. Questa cenere
è l’unico testimone - un testimone evanescente, sempre in via di sparizione, un
testimone incredulo di ciò di cui è chiamato a testimoniare - della verità di
Auschwitz, cioè sia del fatto che
Auschwitz sia veramente accaduto sia della verità sull’uomo di cui Auschwitz è
testimonianza per quanto sia una verità di fumo, una verità che se ne va in
fumo. Questa cenere è l’unica cosa - una cosa misera e tenera - in grado di
recare testimonianza del fuoco dei forni: per questo la cenere fu fuoco, il suo
albero genealogico ha inizio nel fuoco. Ma è vero anche il contrario: fuoco fu
la cenere, il fuoco sarà stato cenere. La cenere è da sempre, ma differita nel
fuoco. Non la si potrà distruggere appiccando di nuovo il fuoco, la cenere lo precede in un passato
mai stato presente e lo incenerisce ritornando dal futuro anteriore in cui
dimora. Impossibile sfuggire alla cenere, impossibile negarla: essa è già negata e anticipa qualunque negazione
futura. Sempre là, imprendibile.
3) La cenere fa fuoco dritto al cuore. Quando ne Il
discorso e la cenere (Quodlibet 2006, ma la prima edizione è del 1988) mi
sono occupato del testo di Derrida
sulla cenere il contesto era
rappresentato da una domanda sul compito della filosofia dopo Auschwitz, in
particolare da questa domanda: che ne è della verità dopo lo sterminio? È
ancora possibile o dobbiamo rinunciarvi per sempre? Non è scomparsa dentro i
forni crematori? Non è diventata cenere? Se in gioco è la verità come
adeguazione fra la cosa e l’intelletto, la verità come deduzione sillogistica e
correttezza proposizionale, non c’è alcun dubbio: questa verità è sprofondata
per sempre. Ma per parafrasare un celebre detto di Pascal c’è una verità dei
filosofi e una verità vivente, una
verità indifferente nella sua presunta universalità alla sofferenza umana e una verità che marchia a fuoco,
una verità perforante la corazza
dell’io, una verità che vincola e costringe. Per dirla con Lacan la verità che
ci concerne è quella che fa da
causa materiale all’agire del soggetto. È questa la verità che fuma dai camini
di Auschwitz, una verità traccia, una verità evento, una verità destino, una
verità patica, una verità pena.
Ciò che più di tutto
colpisce nelle argomentazioni di
coloro che si oppongono alla legge sul negazionismo è l’uso disinvolto che
fanno della verità: essi
temono che in tal modo la
verità possa trasformarsi in una verità di stato, una verità imposta dall’alto, una volta per tutte, sottratta
di conseguenza alla libera ricerca, all’incessante revisione, al dibattito
critico. La verità, aggiungono, non può essere imposta per legge. Ma così
facendo denegano la verità, e cioè che
è la verità ad essere la legge, che anche quando essa assume la forma del più tollerante e rispettoso degli
enunciati constativi essa è in realtà un enunciato prescrittivo e performativo
insieme, una parola che ordina e fa essere la cosa. La verità non si dice nel
discorso dello storico e del filosofo, la verità accade - cade e si disperde come cenere - e
accadendo può gelare ed indurire i cuori o incendiarli fino a ridurli in
cenere.
4) Chiara Conterno ha tradotto
recentemente Gli epitaffi scritti
sull’aria di Nelly Sachs (Progedit 2013), una serie di poesie scritte fra
il 1943 e il 1946 in memoria di persone realmente esistite e deportate nei
campi di concentramento. Premio Nobel nel 1966 insieme allo scrittore
israeliano Josef Agnon, Nelly Sachs,
dopo aver vissuto
dieci anni, dal 1930 al 1940, a Berlino con la madre in condizioni disperate per le persecuzioni dei nazisti,
riesce, con l’aiuto di Selma Lagerlöf, di cui sarà la traduttrice in tedesco, a
rifugiarsi in Svezia dove, essendosi rifiutata di tornare in Gemania a guerra
finita, morirà nel 1970. Anche in
Svezia continuerà tuttavia a sentirsi perseguitata fino
ad ammalarsene; in una lettera del 1960 a Paul Celan, amico insieme alla
moglie, di Nelly Sachs, Inge Waern, una amica della poetessa, così ne descrive
la condizione: «Li è malata. A
tratti - era terribile - scriveva
anche tutto su dei pezzi di carta,
in quanto la sia spia
dovunque, e così siamo là, con le tende abbassate, e non posso nemmeno telefonare. Lei crede che i
suoi persecutori vogliono che tutti i suoi amici la prendano per una malata
mentale in modo da farla diventare
pazza». E in una lettera alla moglie Giséle, inviata da Stoccolma qualche
giorno dopo, Paul Celan scrive a sua volta: «che dirti di Nelly? Soffre molto.
Non vuole più sentir parlare delle sue poesie. “Non voglio serbare - e unisce
il pollice e l’indice della mano destra a forma di anello - che questa piccola
luce”. Disturbi che vengono da mille lati, da lontano e da vicino. A proposito
di una lettera di Ingeborg - scritta dopo la mia telefonata - alla quale I.
aveva aggiunto un paio di guanti bianchi, Nelly ha detto: “Dei guanti bianchi,
vuol dire: “mi lavo le mani nell’innocenza - ich wasche meine Hände in Unschuld
-, dunque prova di falsità”!!!». Qual è la verità per Nelly?
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