1) Ho passato tutta l’ultima
estate a leggere i titoli - libri, saggi e articoli - presentati dai candidati
all’abilitazione scientifica in Filosofia morale: un’attività ai limiti
dell’abbrutimento. Unica distrazione e unica salvezza, in una città chiusa per
ferie, è stato rivedere - una
puntata a sera come ai vecchi tempi - molti degli sceneggiati televisivi degli
anni sessanta-settanta riversati su dvd e commercializzati dalla Rai. Non
tutti: di alcuni come Mastro don Gesualdo, I Giacobini, I Camaleonti, La
pisana, o non c’è più traccia o sono per il momento esauriti e in attesa di
ristampa. Guardandoli ho pensato spesso a un passo benjaminiano dei Passages:
quello in cui Benjamin sostiene che in ogni cosa - vita umana, opera o epoca
storica - giace sul fondo, nascosto ma allo stesso tempo protetto dalle forze
della distruzione, un nucleo redento, adempiuto e salvo, che cerca costantemente il momento giusto,
l’adesso adatto, per manifestarsi. Lo chiama: ‘l’indistruttibilità della vita
più elevata in ogni cosa’. A tal fine questo nucleo non disdegna nulla, sfrutta tutto, anche quello che dal punto di vista di una cultura ‘alta’ ‘nobile’
e ‘disinteressata’ oltre che ‘progressista’, viene considerato o spurio o del
tutto negativo. Nelle figure dei Passages: i passaggi stessi, poi l’architettura in ferro e vetro, le esposizioni universali, la
prostituzione, le vetrine, la moda e, dulcis in fundo, la merce. E quindi anche
i nuovi media. Secondo l’ideologia borghese non può che essere un affronto nei
riguardi di Goethe, scrive
Benjamin, ‘ridurre cinematograficamente il Faust’ e ‘un abisso separa il
poema del Faust e il film su Faust’. Per Benjamin al contrario il vero abisso sta fra ‘una buona riduzione
cinematrografica del Faust e una cattiva’ e decisivi non sono mai ‘i “grandi
contrasti” ma solo quelli dialettici che spesso sembrano estremamente simili a
delle sfumature’: è da questi ultimi però che ‘la vita rinasce sempre di
nuovo’.
Non è detto allora che la vita
del Faust di Goethe, il suo nucleo indistruttibile e elevato, la sua verità
colta sub specie aeternitatis, sia rispettata solo da una lettura in solitaria
o da una messa in scena (già questa, come è noto, ai limiti
dell’impossibilità). Lo può essere da un
opera musicale, da una riscrittura in prosa, da una traduzione (penso a
quella italiana di Franco Fortini), da un film e infine da uno sceneggiato
televisivo, oggi da un video. La differenza non si fa fra il medium della
lingua e quello delle immagini in movimento riprodotte tecnicamente, ma fra una cattiva lettura e una buona, fra una traduzione pessima e una ottima
(nel senso di Benjamin: quella che più si avvicina alla pura lingua), fra un
film sbagliato e uno riuscito (come quello di Sokurov), fra uno sceneggiato
televisivo e una fiction. Insomma
fra ‘La vita è bella’ di Benigni e
il fumetto Maus di Art Spiegelmann è quest’ultimo che rende giustizia alle
vittime dei forni e rilancia la verità di fumo dei campi di concentramento.
2) Allora lo si chiamava: lo
specifico televisivo. L’espressione, coniata sul più vecchio e blasonato
‘specifico filmico’ di Guido Aristarco & company, indicava la ricerca della
prestazione specifica sul piano dell’espressione artistica che le nuove
tecnologie mediatiche potevano offrire. Come sempre accade un nuovo media,
prima di scoprire la sua vocazione propria, ricapitola tutti i precedenti e in particolare quelli
che gli sembrano i più affini. Così la fotografia rifece la pittura e la televisione il cinema e
il teatro. Più tardi si capì che la televisione discendeva dal telefono e al
massimo dal radar e le cose incominciarono a cambiare. Sono tuttavia proprio i primordi, i tempi preistorici, i tempi cioè in cui le cose non sono
ancora definite, ma fluttuano in un vortice, quelli più adatti all’innovazione e alla
sperimentazione: così fu tentata attraverso la trasposizione di opere letterarie a vario titolo famose in
sceneggiati ed il trasferimento di pièces teatrali dai palcoscenici agli studi
televisivi, l’invenzione di un
nuovo linguaggio che non fosse né letterario e né teatrale ma nemmeno filmico,
qualcosa appuno di televisivo e basta, nonostante - o forse era proprio per questo? - facesse propria la maggior parte delle
innovazioni prodotte dai e nei precedenti media. Di tutti gli sceneggiati che ho
rivisto l’unico che non rispetta il criterio che ho indicato è proprio I
promessi sposi (la prima edizione quella di Sandro Bolchi con Paola Pitagora e
Nino Castelnuovo nelle parti di Lucia e Renzo, Tino Carraro come Don Abbondio, Lea Massari la monaca di
Monza e Massimo Girotti fra Cristofaro): la monumentalità di cui in Italia il
romanzo di Manzoni è stato
rivestito tolse agli sceneggiatori
e al regista qualunque libertà. Ne venne fuori un prodotto
ingessato, eccessivamente didascalico con quelle pedanti introduzioni alle puntate e i
pedagogici riassunti di quelle precedenti
letti oltretutto da un funereo e triste Giulio Bosetti. Ma per tutti gli
altri vale il principio sovra esposto: sono delle invenzioni pure, né
letteratura, né teatro e neppure cinema. Sono un irripetibile, un blocco di
opere che andrebbe studiato in quanto tale come un genere a sé e in cui
spiccano almeno tre nomi di registi (alle volte anche sceneggiatori) che
andrebbero trattati come dei veri e propri autori e che sono: Giacomo Vaccari,
Sandro Bolchi e Edmo Fenoglio. Il primo diresse L’idiota con Giorgo Albertazzi
e Anna Proclemer, Annamaria Guarnieri, Gianni Santuccio, Lina Volonghi e Sergio
Tofano (oltre come già detto un Mastro don Gesualdo con Enrico Maria Salerno e
Lidia Alfonsi); il secondo, certamente il più prolifico, le due parti del
Mulino del Po di Riccardo Bacchelli, I fratelli Karamazov e I demoni di Dostoevskji, Anna Karenina di Tolstoi e i Miserabili di
Hugo (cito ovviamente quelli che ho rivisto); Edmo Fenoglio i Buddenbrook di
Thomas Mann.
3) La libertà di questi autori
nei confronti sia del media precedenti sia verso la stessa televisione è
totale. Essi sfruttano a pieno le differenze del mezzo televisivo riguardo a ciò cui pure si ispirano: rispetto
alla letteratura l’espressione attraverso la sequenza delle immagini in
movimento, rispetto al teatro le tecniche della fotografia e del cinema: il
fermo immagine e il rallenti, il primo piano e lo zoom, il campo medio e la
ripresa multipla e soprattutto il piano-sequenza, rispetto al cinema la diretta e il qui e ora.
Contemporaneamente Edmo Fenoglio gira i Buddenbrook come un film di Fassbinder o
di Angelopoulus sottoponendo gli spettatori di allora ad uno stress percettivo
e cognitivo come quando riprende in campo lungo l’atrio della fastosa dimora dei
Bundenbrook all’epoca del loro splendore
facendo ogni volta attraversare agli attori lo studio in tutta la sua lunghezza quasi ci si trovasse a teatro. Usano a piene mani il dolly, riprendono
la scena dall’alto, muovono di continuo le telecamere - e tutto questo in
studio. Sandro Bolchi arriva ad inondarlo per girare la piena del Po. Ma ciò
che più colpisce è la prestazione degli attori: e non solo perché sono i più
bravi attori italiani di teatro - da Corrado Pani a Umberto Orsini, da Salvo
Randone a Lea Massari, da Carla Gravina a Giancarlo Sbragia, da Sergio Fantoni
a Valeria Moriconi, da Raul Grassilli a Ottavia Piccolo, da Nando Gazzolo a
Glauco Mauri, da Ileana Ghione a Tino Carraro, da Giulia Lazzarini a Gastone
Moschin, da Luigi Vannucchi a Lilla Brignone, da Gianni Santuccio a Lina
Volonghi, da Giorgio Albertazzi a Anna Proclemer e da tanti altri altrettanto
bravi anche se meno conosciuti -, ma perché sono stati capaci di unire due
tecniche attoriali non solo diverse ma soprattutto opposte: quella teatrale e
quella cinematografica. Le scene in cui erano suddivisi quegli sceneggiati
duravano di media dai venti minuti
alla mezzora ed erano recitate in diretta e senza tagli: l’attore doveva usare
una tecnica teatrale. Allo stesso tempo
recitavano non per un
pubblico in carne e ossa ma per
una apparecchiatura e in questo caso
la tecnica attoriale era quella cinematografica. Oggi che la fiction è
girata fuori dagli studi o in ex
studi cinematografici, l’attore televisivo può al massimo trasferirsi al cinema
ma non appena tenta il teatro frana inevitabilmente: gli manca il controllo
della voce, la capacità di concentrarsi, la costruzione in tempo reale del personaggio. Basterebbe
questa strabiliante perfomance attoriale per riconoscere allo sceneggiato
televisivo di quegli anni un posto di rilievo nella storia della cultura e
nelle scuole per attori.
Poiché mi tocca la seconda tornata dell’abilitazione scientifica prego la Rai di pubblicare in tempo tutto il rimanente posto che ce l’abbia ancora e, visto che andava tutto in diretta e non sempre si registrava, non sia andato perduto.
Poiché mi tocca la seconda tornata dell’abilitazione scientifica prego la Rai di pubblicare in tempo tutto il rimanente posto che ce l’abbia ancora e, visto che andava tutto in diretta e non sempre si registrava, non sia andato perduto.
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