lunedì 10 giugno 2013

Il dono di Lacan

Questo saggio risale al 1993 ed è la trascrizione riveduta e corretta di un intervento tenuto alla Giornata di Studio organizzata dall'associazione Cosa freudiana di Roma e dal  Centro lacaniano di studi psicoanalitici di Napoli  intorno al tema «La questione della fobia nell'insegnamento di Jacques Lacan» e svoltasi a Roma il 12 giugno di quell'anno nella sede dell'Istituto della Enciclopedia Italiana. Gli atti furono poi pubblicati in un volume non commerciale a uso interno delle due associazioni. Dal momento che Fabio Ciaramelli ha avuto la bontà di citarlo in un suo articolo pubblicato sull'ultimo numero di Alfabeta2 (Giugno 2013), dedicato al problema politico-sociologico del dono, ho pensato di ripubblicarlo qui per renderlo di nuovo, o piuttosto per la prima volta, leggibile.

 Con questo breve intervento vorrei provare ad articolare una questione che potrebbe avere come titolo: ‘Dei debiti e dei doni di Lacan’. Del dono che Lacan ci ha fatto, ma insieme e indecidibilmente del dono che Lacan è, forse anche a se stesso. E del debito, impagabile come tutti i debiti, cui, attraverso questo dono duplice ed ambiguo, ci ha costretto e ci costringe. Giacché un dono indebita e, paradosso che attiene al concetto del dono in quanto tale, tanto più indebita quanto più è gratuito. Se ci si ferma, infatti, sul dono ‘vero e proprio’, sul concetto del dono preso nella sua apparente e presunta purezza, non v'è dubbio che un dono lo si fa per niente, che da un dono non ci si aspetta né si vuole nulla in cambio ed è per questo che un pensiero del dono tale quale l'ha tentato Marcel Mauss (debito di Lacan? e in che senso?) si oppone punto per punto alla logica e/o alla legge dell'economia politica e domestica, fondate entrambe sul risparmio e sullo scambio. La conseguenza è che il dono è eslege: la sua assoluta gratuità lo situa al di là della legge, fa del dono un fuori‑legge. Il dono non fa legge, né ha forza di legge, è anti‑nomico. Ma c'è di più: non solo il dono si oppone alla legge, ma la estingue. E l'altro senso dell'oblatività: offerta gratuita, ma anche e soprattutto estinzione del reato, obliterazione del debito. E dal momento che non c'è né reato né debito se non c'è legge, il dono è destituzione della legge stessa, cancellazione di ciò a partire da cui c'è della legge in generale.
Già Mauss[i], tuttavia, prima ancora dei suoi critici, era stato costretto, forse suo malgrado, a mitigare questa opposizione semplice ed univoca che separava nettamente un pensiero del dono dalla legge dello scambio e dalla sfera del debito. La pratica del potlach ‑ che Lacan tradurrà, con un occhio a Kojéve lettore e misinterprete della fenomenologia hegeliana, nella lotta a morte immaginaria per il puro prestigio ‑ mostra come il dono generi un debito tanto più obbligante quanto più incapace di lasciarsi governare dalla legge dello scambio. Giacché ciò che è in gioco nella pratica del potlach non è la restituzione dell'esatto equivalente di quanto è stato ricevuto, restituzione che azzererebbe il debito una volta per tutte, ma una resa in eccesso: l'obbligo del dono è una donazione più grande che, mentre sembra estinguere il debito cui il donatore aveva sottoposto il donatario, operando quindi da oblazione, si limita a rilanciare sul primo l'obbligo, da cui l'altro si era liberato, di una ulteriore e più estesa donazione. La logica del potlach, che è poi la logica e/o la legge dello stesso dono, implica, infine, un dono tale da non poter essere mai restituito, un dono rispetto al quale non ci sia nulla di più grande da donare. Ed è evidente che l'esito di un potlach o di una gara di doni coincida inevitabilmente con la distruzione di entrambi i contendenti: quale dono più grande di quello della vita stessa?
Non è vero dunque che il dono non abbia una sua legge, che non faccia legge; è vero invece che la sua legge non è quella dello scambio, non è quella dell'equivalenza. Piuttosto è quella dell'eccesso, non del risparmio, ma della dépense. Il dono instaura un debito, ma un debito impagabile, un debito cioè non misurabile. E infatti, se l'obbligo del dono è donare di più, non c'è misura, vale a dire raffronto, paragone, commensurabilità, in una parola equivalenza, fra un dono e l'altro. Il dono è incommensurabile. Questo debito, che solo il dono inaugura, è ciò che Lacan chiama il debito simbolico.
Ma esiste un primo dono? Si può pensare un proto‑donatore? Ora, proprio la logica e/o la legge del dono che abbiamo tentato di isolare, esclude questa ipotesi: un donante, per il solo fatto di porsi come tale, risponde, che lo sappia o no, alla legge del dono. Il suo dono è già restituzione e la gratuità del suo atto è già contaminata dalla legge: il suo dono è obbligato, è l'effetto di un debito contratto in precedenza. Non c'è quindi un primo dono che splenderebbe isolato come un unico sole nella volta del cielo: c'è costellazione o catena dei doni. Un dono ne presuppone sempre un altro, presuppone un altro dono di cui l'attuale è, o tenta d'essere, la restituzione in eccesso. Ma effetto più sconvolgente ancora, la catena dei doni coincide e si confonde con quella del debito simbolico: c'è sempre una certa contaminazione fra dono e debito, legge e gratuità, oblazione ed obbligo. Il che comporta ancora che l'opposizione fra dono e legge, da cui un pensiero del dono non può non prendere le mosse, non solo vada mitigata, come abbiamo già visto, riconoscendo anche al dono il valore e la forza di legge, ma vada, anche se con cautela e pronti come sempre a ripristinarla (legge del dono anche questa), addirittura epochizzata nel senso che un dono si espone, per il solo fatto di scoprirsi sottoposto a un debito, ad una trascrizione secondo il registro dello scambio e dell'equivalenza: all'incommensurabilità metaforica del dono corrisponderà sempre la sua reiscrizione in una catena metonimica.
Riprendo la questione di partenza: se la logica del dono è questa logica paradossale per la quale il dono instaura un debito, la gratuità fa legge e l'oblazione non libera ma obbliga, che ne è allora del nostro debito nei confronti del dono di Lacan e che ne è del debito di Lacan di fronte al dono che lui stesso è? In altri termini, se Lacan ci fa dono, in questo seminario sulla relazione oggettuale[ii], di un pensiero del dono e perciò solo ci indebita, ci costringe a restituirgli un dono più grande ‑ il quale avrà la forma della comprensione esatta di quanto ci ha trasmesso, della difesa da chi non lo comprende o peggio lo fraintende, della propagazione degli effetti di significazione che questo dono, che è un discorso sul dono, ha e crediamo debba avere nella comunità analitica e nella comunità tout court ‑, di chi o di che cosa allora Lacan è a sua volta debitore, qual è il dono che lo precede e a cui risponde, in quale catena, di doni e debiti e di debiti e doni, si è già trovato iscritto? Giacché il rischio di qualunque comunità che fonda la propria consistenza sulla potenza del nome di un padre fondatore, è quello di credere che egli sia appunto un proto‑donatore, un'origine assoluta, eslege, un inizio ex‑nihilo.
Per contro, il pericolo insito nel modo stesso con cui ho posto la questione sta proprio nell'oblatività: nell'estinguere stavolta non soltanto il debito, ma insieme al debito anche il dono. In parole povere, nell'annullare il dono di Lacan. Che cosa impedirebbe infatti che la reiscrizione del dono di Lacan nella catena del debito simbolico si trasformasse inavvertitamente in quel pietoso reperimento delle fonti, in quell'affannosa quanto inutile ricerca delle filiazioni e delle genealogie, in quel fatale storicismo insomma, che caratterizzano il sapere accademico o se volete il discorso universitario? Così facendo il dono di Lacan verrebbe ricondotto ad una misura, ad una misura di sapere, e in tal modo l'evento stesso che Lacan è, ciò che per parafrasare Heidegger si potrebbe chiamare l’es gibt Lacan’, il ‘si dà Lacan’, il ‘c'è dono di Lacan, annegherebbe fra le onde calme del sapere, sarebbe sottoposto al calcolo, reimmesso nella legge dello scambio, ed infine archiviato, microfilmato e micro‑processato. Tutto questo ‑ è meglio che se ne sia avvertiti ‑ già avviene, è già avvenuto, continuerà ad avvenire.
Sembra che quando si tenti di parlare di Lacan ‑ ma vale per tutti, anche se quello di Lacan è un caso a parte, quasi la cartina di tornasole di tutti gli altri casi, ciò che fa da paradigma e da legge ‑ si sia costretti a stare in bilico per non cadere in uno dei due estremi: quello del primo‑donatore da una parte e quello dell'oblazione del dono dall'altra. Il ripercorrimento, quindi, di un pensiero del dono di Lacan (frase che leggerete come sempre nel doppio senso del genitivo) dovrà, sempre che un'operazione simile riesca, articolarsi su una doppia scena: sulla prima si iscriverà il debito, il nostro, nei confronti del dono di Lacan, sulla seconda, invece, il debito, questa volta di Lacan, nei confronti per esempio di Mauss, di Lévi‑Strauss e, perché no?, di Heidegger[iii] . Di Mauss ho in un certo modo già parlato, ed è evidente che l'emergenza del dono, il dono del dono se così potessi esprimermi, il fatto cioè che il dono sia considerato non solo un oggetto degno di una ricerca sociologica, ma un ‘fatto sociale totale’, risponda ad un'esigenza per così dire ‘epocale’. Non vi sarebbe discorso sul dono se l'esperienza della modernità non testimoniasse della ormai totale sottomissione delle forme di vita alla legge dello scambio, se non testimoniasse insomma della generale mercificazione che colpisce non soltanto gli oggetti, i cari vecchi oggetti che appartenevano (o almeno tale era la credenza) alla sfera dei bisogni, ma anche i soggetti, i cari vecchi ‘io’, che godevano (o tale almeno era la credenza) degli oggetti di cui sopra. L'intento di Mauss è di mostrare l'illusione di una vecchia economia politica e della sociologia ad essa collegata che dello scambio fa la forma ‘naturale’ delle relazioni intersoggettive e di cui il baratto non sarebbe che l'arcaica prefigurazione. Al di là dello scambio, ma anche contro, e del suo apprendista il baratto, sta il dono. Quest'ultimo non è una pratica che il dominio dello scambio relega, ancora per poco, nella sfera privata dove gratuità e benevolenza, amicizia e amore, si concedono il lusso di ignorare la dura legge del mercato in cui vigono indifferenza e calcolo. Esso è appunto un fatto sociale totale, non una realtà parziale, ma il sociale tutto intero, l'intera rete dell'intersoggettività di cui è anzi l'inaugurazione. E a partire dal dono che una società è possibile, che si stringono alleanze e si contraggono obblighi reciproci. E tutto questo senza che si passi per lo scambio; anzi è lo scambio adesso ad apparire derivato, caduta e deriva appunto dalla e della verità del dono. Il dono non è solo, dunque, l'altro dallo scambio, ne è la critica, è ciò che, se non ne dissolve, almeno ne riduce l'istanza di dominio: il soggetto umano non vive solamente della ricchezza prodotta dal mercato, ma anche e soprattutto della sua distruzione, del suo spreco. E in questa forma, dunque, che un pensiero del dono giunge fino a Lacan, è questo il dono del dono che lo indebita? E questa sarebbe già un'esemplificazione: salteremmo infatti tutta una tradizione della sociologia francese, tradizione in un certo senso unitaria sia quando si esprime nelle forme canoniche della comunità accademica ‑ Lévi‑Strauss per esempio ‑' sia quando assume l'aspetto di un saggismo al limite fra letteratura e ortodossia scientifica ‑ Roger Caillois, Georges Bataille, il Collegio di sociologia ‑, tradizione comunque che già reinterpreta, modifica e stravolge il dettato di Mauss. Ma anche così è in questo debito che Lacan si iscrive. Eppure non del tutto: per la stessa legge del dono c'è resto ed eccedenza, vale a dire c'è di nuovo dono. Giacché il pensiero del dono cui Lacan ci obbliga prende di mira preliminarmente proprio quell'aspetto oblativo, di estinzione del debito, che appartiene al dono nella misura in cui con esso e attraverso esso si vorrebbe sottrarre il soggetto all'arida e fredda legge dello scambio. È  sintomatico allora che un pensiero del dono si colleghi in Lacan fin dall'inizio ad un discorso sull'amore e che l'enunciato che gli fa da battistrada sia quello per il quale «amare è donare ciò che non si ha»[iv]. Ripercorriamo per un attimo la genealogia di Eros quale l'enuncia il mito di Diotima: Eros è figlio di Penia e di Poros. Penia è povertà, assenza di risorse, mancanza radicale; Poros, al contrario, è espediente, astuzia, ricchezza di sapere. Durante il banchetto degli dèi, da cui Penia è esclusa, Poros ubriaco si addormenta. Penia che si aggira nei paraggi lo vede addormentato nel giardino e lo desidera: giace con lui che continua a dormire e dal connubio prende vita Eros. Penia è dunque la desiderante e lo è perché manca, perché appunto è Aporia, la priva di risorse. Ma se amare è donare e, se chi ama, ama solo perché povero, allora ciò che amando si dona è la mancanza. Poros, infatti, quando si sveglierà ‑ e il dormire è qui metafora di un'illusione di pienezza ‑ si scoprirà mancante a propria volta: colui che fino ad allora se la dormiva beato nella sua certezza di sapere si troverà sottomesso alla legge che obbliga a desiderare, a desiderare ciò che non si ha.
L'amore antico, dunque, l'Eros pagano e classico, lungi dall'essere oblativo, lungi dall'estinguere la legge, la conferma. Ma di più: l'Eros è ciò attraverso cui la legge si trasmette. Donare ciò che non si ha, donare la mancanza, come fulcro dell'amore, è comunicare, certo al di fuori dello scambio e al di là di ogni equivalenza, la coazione a desiderare, l'obbligo o il debito che fa di noi dei soggetti e non dei meri enti naturali sprofondati ‑ dormienti ‑ nel proprio sapere cinestetico. Ma qual è allora quell'amore il cui dono avrebbe invece la capacità di sostenere il potere della legge? Non Eros certo. Agape forse? Non credo di discostarmi molto dal dettato lacaniano se arrischio la tesi che il pensiero del dono che Lacan ci dona ci aiuta tra le tante altre cose ad articolare la differenza di struttura che separa l'Eros antico dall'amore cristiano, facendo emergere tale differenza dal nucleo più profondo dell'esperienza soggettiva[v]. E l'amore cristiano, quell'esperienza dell'amore per cui la divinità stessa è amore ed il suo dono è il dono di se stessa attraverso l'incarnazione e la morte, ad avere il potere oblativo, il potere di sospendere la legge. Basta leggere le lettere di Paolo per cogliere in questo amore, non a caso onnipotente, l'oblazione totale delle legge, l'estinzione del debito che il pensiero cristiano iscrive nell'esperienza soggettiva sotto il significante del peccato. Certo Lacan ha buon gioco nel notare che proprio questo dono d'amore che più di ogni altro dono sembra veramente essere fatto per niente ‑ ciò che è diverso, lo si sarà compreso, dal ‘donare niente’ ‑, getta il soggetto nella colpevolezza: colpa non di fronte alla legge, per evocare la parola kafkiana, che anzi qui la legge è estinta, ma colpa di fronte a quest'amore che proprio in nome della sua gratuità assoluta fa sentire il soggetto come un verme, schiacciandolo irrimediabilmente sulla dimensione creaturale[vi].
Secondo Lacan, dunque, se si separa il carattere di gratuità del dono, se si isola, in altri termini, la grazia, dalla catena del debito simbolico, l'effetto sarà quello di impedire l'accesso del soggetto al desiderio, vale a dire di impedire la formazione del soggetto in quanto tale. Giacché si dà soggetto solo nella misura in cui esso venga strappato dalla potenza della legge alla pienezza di un reale dove nulla manca. Perché il desiderio emerga, è necessario che il soggetto venga alla mancanza o che della mancanza gli sia fatto dono. Tutti noi, insomma, prima di divenir soggetti siamo come Poros, addormentati nel sogno di un reale in cui ad ogni bisogno corrisponde un oggetto messo lì a disposizione dalla benignità della natura. Se non ci fosse Penia a coglierci nel sonno ed a renderci gravidi di Eros, non accederemmo mai ad una vita umana.
La differenza fra l'Eros antico e l'Agape cristiana sembra, dunque, questa: Eros è l'effetto del dono di Penia, di colei che manca e perciò desidera; donando il niente che lei stessa è, Penia non solo trasmette ad Eros la mancanza, ma gli mostra insieme di essere a sua volta sottoposta alla legge che ha introdotto la mancanza nel reale. Eros è quindi in debito, deve alla legge ‑ di cui Penia è nient'altro che il rappresentante ‑ la sua esistenza come desiderante, ossia come soggetto. Agape, invece, viene dalla sovrabbondanza, dall'onnipotenza: non dona la mancanza, ma afferma, al contrario, la pienezza del donante. Colui che dona non è a sua volta sottoposto alla legge, è al di là della legge, ed è per questo che, invece di trasmettere un debito, apre, a suo nome e ad esclusivo beneficio del suo nome, un credito infinito. Questo dono, con lo stesso movimento con cui oblitera il reato, rende, cioè, la creatura capace di non peccare, trasforma retrospettivamente il desiderio in colpa: è a partire dal dono, infatti, che il soggetto scopre che es­sere un soggetto alla/della legge, e perciò desiderante, era per lo sguardo onniscrutante del DioAmore la cifra della colpa, il marchio della malvagità.
Non solo, quindi, il dono per Lacan deve rimandare al debito, essere solo parte di una catena di debiti e doni e di doni e debiti, ma deve soprattutto avere, nell'esperienza soggettiva, la funzione di negazione della pienezza del reale, deve cioè introdurre la mancanza nel reale o sottoporre il reale alla legge. Ma per dirla in un modo ancora più appropriato, il dono non introduce tanto la legge nell'esperienza soggettiva, quanto, introducendo la legge nel reale, introduce qualcosa come un soggetto d'esperienza. In altri termini, è la legge che fa emergere il soggetto come colui che è capace di esperienza in generale: prima non esiste soggetto, semmai cinestesia, auto‑affezione, bisogno che ‘si’ sente, squilibrio immediatamente auto‑riferito. L'esperienza (Erfahrung, non Erlebnis) implica, invece, la scomposizione e l'articolazione del reale e, quindi, necessariamente la sua preliminare negazione: se il reale fa da fondo e fondale, luogo che non è un luogo e non ha luogo, ‘chora’ primordiale e mitica, in cui si confondono figura e sfondo, soggetto e oggetto, bisogno e soddisfazione, allora il dono ne è lo sfondamento, vi introduce la béance, l'apertura o, per dirla con Heidegger, la Lichtung.
Non è per nulla casuale che il pensiero del dono di Lacan si colleghi non solo al tema dell'amore, ma anche alla domanda su che cosa sia reale: se scopo del seminario del 1956‑1957 è la messa a fuoco della sindrome fobica ed in particolare della natura dell'oggetto fobico, preliminare sarà, allora, l'interrogazione sullo statuto dell'oggetto in generale ed in special modo sulla sua realtà. Strizzando l'occhio ad Hegel, Lacan, parlando di quell'unica ‘realtà’ che deve interessare un analista, accenna ad una Wirklichkeit simbolica, storica e dialettica, e la mette in contrapposizione con lo Stoff, con un'idea della materia cioè che, per quanto sia letta come impulso, flusso o tendenza, conserva i tratti della sostanza metafisica, permanente ed immutabile, e che nel suo ‘materialismo’ non è altro che il residuo di una tradizione meccanico‑ dinamistica che si riallaccia all'idea dell'Homme‑machine[vii]. La realtà dell'oggetto consiste­rebbe, dunque, nel costituire semplicemente uno dei poli dello scambio fra l'individuo e l'Umwelt o non sarebbe piuttosto l'effetto retroattivo, nachträglich, l'effetto après‑coup, ossia Wirkung, del simbolico? L'oggetto, aggiunge qualche lezione dopo, non è un dato ‘naturale’, bensì ciò che è ‘trovato’ in un'invenzione primitiva e che, quindi, nell'esperienza soggetiva è sempre un oggetto ri‑trovato, l'effetto di una retrouvaille, cioè di un incontro che è insieme un ritrovamento. Incontro, manco a dirlo, sempre mancato ed insoddisfacente[viii].
Realtà è ciò che viene instaurato dal simbolico, dalla potenza della legge. Ma a che prezzo? A prezzo appunto di quello sfondamento del reale di cui parlavo prima. Si comprende, allora, come realtà e reale siano per Lacan termini distinti e da distinguere accuratamente, significando l'uno ciò che, sottoposto al potere della differenza, viene articolato dal e nel discorso, l'altro ciò che, chiuso nell'identità semplice con sé, resta muto ed opaco. Ora è questo passaggio che instaura l'esperienza soggettiva, passaggio dal reale alla realtà, dall'oggeto come corrispettivo del bisogno all'oggetto come oggetto del desiderio umano, a costituire la funzione specifica del dono. Come avviene? L'esempio cui Lacan ricorre è ancora una volta quello freudiano del bambino del rocchetto. Giocando col rocchetto, lanciandolo al di là della cortina del letto in modo da farlo scomparire dal suo campo visivo, facendolo ricomparire richiamandolo a sé, accompagnando questo andirivieni con l'emissione dei suoni Fort‑Da, ripetendo questo gesto infinite volte, il nipotino di Freud aveva trovato il modo di sopportare l'assenza della madre.
Il rocchetto sta al posto della madre assente, ma questa ‑ è dono di Lacan ‑ non è una metonimia: è una metafora, è l'entrata del bambino nell'ordine simbolico o, all'inverso, è il marchio a fuoco che il simbolico imprime sul corpo del soggetto umano. Che cosa voglio dire? Che se il rocchetto può divenire metafora materna non è perché, ad esempio, è un oggetto transazionale, non perché sostituisce l'oggetto‑corrispettivo-del-bisogno ‑ la madre oggetto‑seno ‑, non perché è un rochetto tel quel, di cui quel che si può dire non è altro che il rocchetto è un rocchetto, è un rocchetto, è un rocchetto e così via, ma perché è un rocchetto che non è più un rocchetto, che non è più identico a se stesso, è un rocchetto che si scinde secondo l'opposizione significante Fort‑Da. Nessun rocchetto reale, in altri termini, può essere ‘via’ o può essere ‘qui’, giacche se fosse ‘via’ mancherebbe da ‘qui’ e se fosse ‘qui’ mancherebbe da ‘là’ dove l'ho mandato. Ma nel reale nulla manca o, se si vuole, nulla manca al suo posto.
Il rocchetto reale non c'è più, è stato cancellato; quel che esiste ora, ma nel senso forte dell'ex‑sistere, dell'esser gettato fuori dal reale, è la realtà del rocchetto, la sua articolabiità come rocchetto‑là e rocchetto‑qui. Ma il rocchetto stava al posto della madre, ed allora anche la madre reale ‑ enorme seno che satura il bisogno ‑ non esiste più; se esiste, ex‑siste anch'essa come realtà simbolica. La vocalizzazione ‑ l'emissione dei suoni articolati Fort‑Da ‑ va intesa, secondo Lacan, in senso forte: vocalizzare, ossia dare suono al muto, a ciò che solo attraverso la vocale diviene appunto con‑sonante, è vocare, vale a dire appellare e chiamare[ix]. Vocalizzando, il bambino dà realtà alla madre, la fa venire all'essere; ma, glossa Lacan, l'appello alla presenza avviene sempre su «uno sfondo d'assenza»[x]. Il che vuol dire che, quando è appellata ad esser ‘da, la madre non è per questo meno assente di quando è appellata ad andar ‘fort’. Praesentia in absentia: è lo statuto del significante. È  come se l'assentarsi della madre nel reale, che di per sé resterebbe nell'insignificanza, costituendo anzi un buco nel reale e rendendo impossibile l'emergenza del soggetto[xi], si metaforizzasse in quell'assenza che, per essere un effetto del significante, appunto la sua Wirkung, diviene, per parafrasare Hegel, razionale, vale a dire discorsiva ed articolabile. Ma qual è il rapporto fra questa simbolizzazione arcaica ‑ nulla più di Fort‑Da ‑, che fa emergere la realtà della madre, e il pensiero del dono di Lacan? La madre, certamente, è per il bambino il proto‑donatore: gratuito il suo esser là solo per lui, senza ragione il suo porgere il seno, miracolo d'amore il suo corpo caldo e protettivo, pura grazia quel godimento assoluto ed irripetibile che da lei s'irradia. Ma poiché la realtà della madre emerge solo a partire dall'opera della simbolizzazione, per quanto arcaica e primitiva possa essere ‑ pre‑edipica tanto per rispondere alla Klein ‑, e dal momento che questa simbolizzazione presuppone lo sfondamento di una madre reale, ecco che la proto‑donatrice si trova iscritta nel debito simbolico. Colei che dona è a sua volta in debito, in debito di un dono verso l'altro donatore; essa quindi manca e in quanto manca desidera; allora il suo amore è il dono di ciò che non si ha, il suo dono è il dona‑niente[xii].
Marchiato a fuoco dalla legge del significante, tuttavia il soggetto potrà sempre tentare con un salto all'indietro di ripristinare quella madre reale fonte di un godimento senza pari e il cui amore sembra dotato del potere dell'oblatività. Questo è l'oggetto della retrouvailles, dell'incontro sempre mancato ed insoddisfacente; giacché ormai il soggetto è, volente o nolente, al di là della soglia del significante e l'oggetto del suo desiderio gli si può offrire solo come oggetto irrimediabilmente perduto.
Manca ancora un tassello per completare il discorso del dono di Lacan: in che modo il dona‑niente di una madre simbolica si riverbera nell'esperienza soggettiva o, come si usa dire, sul piano del vissuto? Attraverso l'esperienza della frustazione. Concetto ‘evanescente lo definisce Lacan[xiii]. E con ragione: giacché la frustrazione non è altro che il nome di un passaggio, mitico senza dubbio, dalla sfera del bisogno a quella dell'ordine simbolico, passaggio che, come quello hegeliano dalla natura al mondo spirituale, si ricostruisce sempre a posteriori, retrospettivamente. Sbagliano, quindi, coloro che leggono nella frustazione nient'altro che la privazione di un oggetto reale come oggetto del bisogno: se anche per loro, in fin dei conti, la mancanza del seno vale per il bambino come sot­trazione dell'amore materno, allora la frustrazione ha già cambiato di registro. Se la frustrazione è l'opera della madre simbolica e se la madre simbolica è colei che dona‑niente, allora, più che di frustrazione, occorrerebbe, secondo Lacan, parlare di Versagung, vale a dire di revoca e disdetta. La frustrazione, in altri termini, è la revoca del dono, il passaggio dal dono oblativo, dal dono dona‑tutto al dono dona‑niente[xiv].
La frustrazione è la sottrazione dell'oggetto del bisogno; ma se l'oggetto è già il testimone dell'amore materno, allora quel che il dona‑niente revoca non è solo l'oggetto, ma l'amore stesso. Il paradosso del pensiero del dono di Lacan sta in questo: se amare è donare ciò che non si ha, allora questo dono come dono del niente, disdice, nell'atto stesso del suo darsi, l'amore che ne era la premessa e la promessa, revoca l'amore come al di qua o al di là della legge. La revoca del dono dell'amore è il dono e al posto dell'amore, giusta la parabola del bambino del rocchetto, stanno i segni. Il dono del niente è il dono del significante[xv].
Tutto sta, come è facile capire, ad intendersi sul valore di quel niente che fa di un dono un dono‑di‑niente. Che cos'è il niente, posto che il niente sopporti una domanda che interroga sull'essenza e la sostanza di ciò che è in questione e fa questione? E a questo punto che io vorrei mostrare uno fra i tanti dei debiti in cui s'iscrive il dono di Lacan: mi riferisco ad Heidegger e mi limiterò a un solo esempio. Dalla Seinsfrage o Uber Die Linie che si voglia, cito questo passo: «’L'uomo è il luogo‑tenente del niente’. La frase vuol dire che l'uomo tiene libero il luogo per il tutt'altro rispetto all'ente, in modo tale che nella sua apertura possa darsi qualcosa come l'essere‑presente (l'essere). Questo niente, che non è l'ente, e che però si dà, non è nulla di nullo, ma appartiene all'essere‑presente. Essere e niente non si dànno l'uno accanto all'altro, ma l'uno si adopera per l'altro, in una sorta di parentela di cui appena abbiamo pensato la pienezza essenziale. Né la pensiamo finché tralasciamo di chiederci: che cosa intendiamo con quel ‘ciò (es) che qui ‘si dà’ (gibt)? In quale tipo di dare si dà? In che senso appartiene a questo ‘si dà l'essere e il niente’ ciò che si rimette a questo dono custodendolo? Diciamo alla leggera: si dà. L'essere ‘è’ così poco, quanto il niente. Ma si danno entrambi»[xvi].
Non è mia intenzione quella di tentare un'analisi, non dirò completa, ma neppure parziale di questo passo così complesso e così potente. Tralascerò il testo ed il contesto, le linee e le svolte del pensiero  di Heidegger. Ma come non notare, e restare allo stesso tempo indifferenti, la corrispondenza fra il discorso di Lacan e questa tesi heideggeriana in base alla quale il niente tuttavia ‘si dà’, es gibt? il niente non è l'ente, è nessun ente, è la negazione di ogni ente, la negazione attiva dell'ente in generale, e tuttavia appartiene [xvii]all'essere‑presente, anche se in una modalità che testa tuttora non pensata. Si  dà niente, c'è dono del niente: eppure questo niente non è nulla, questo dono del niente dona l'essere. È  evidente che essere e ente non sono la stessa cosa, che anzi ciò contro cui Heidegger lotta è proprio l'identificazione fra l'essere e l'ente, lo schiacciamento dell'essere sull'ente. Certo l'essere è sempre e soltanto l'essere dell'ente, ciò che fa in modo che l'ente sia l'ente che è, e tuttavia fra essere e ente c'è differenza, l'essere non è l'ente, ne è la provenienza, ciò a partire da cui c'è dell'ente in generale e che, appunto per questo, resta sempre altro dall'ente.
L'essere non è l'ente: ma solo per dirla questa frase non abbiamo forse bisogno del niente? Non abbiamo bisogno che ci sia dato il niente, che ci sia dato niente, non c'è bisogno di un dono‑di‑niente? Il dono del niente è, quindi, quel dono che donando l'essere e la differenza dell'essere dall'ente, dona infine l'ente esattamente non donandolo, anzi disdicendone la pretesa di sostituirsi all'essere. L'uomo, l'esserci per Heideger, non è un ente fra gli altri enti, ma se è un essere‑nel‑mondo, in rapporto continuo con la totalità dell'ente, lo è a partire da quell'apertura d'essere che è il dono del niente.
Così per Lacan: il soggetto sta nella realtà, il suo mondo è popolato di oggetti di ogni tipo; egli può anche misconoscerli interpretandoli come meri oggetti naturali, enti semplicemene presenti; può addirittura prendere se stesso come un ente è può immolarsi di fronte al sacrificio di un ente supremamente essente. Eppure tutto questo non sarebbe possibile se egli non fosse a sua volta l'effetto di un dono dona‑niente. Ma per Lacan il dono dona‑niente è insieme revoca del dono: è così anche per Heidegger? Sembrerebbe di sì: perché se è vero che il dono del niente dona l'essere presente, vale a dire la manifestazione della totalità dell'ente, è anche vero che proprio il niente fa che l'essere non sia l'ente, sia il tutt'altro dell'ente. L'essere allora nello stesso momento in cui si dà come essere-presente, si sottrae, non si dà a vedere, resta nascosto: se l'essere donandosi fa in modo che il nascosto passi nel non nascondimento, tuttavia ‘si’ nasconde e ‘si’ oblia. Il dono del niente come dono d'essere è insieme revoca dell'essere. Dovremmo dire che l'essere è frustrante o che ‘si’ frustra?
Ma a questo punto non so più se quel che dico di Heidegger sia il dono che indebita Lacan o, al contrario, se sia il dono di Lacan che trascina nel suo debito il pensiero di Heidegger. Chi dona e a chi? Chi è in debito e con chi? Ma se un dono apre sempre un debito e se un debito rinvia sempre ad un dono, se non c'è un proto‑donatore, allora queste domande sono indecidibili. E se fosse proprio questo il dono di Lacan? Che il pensiero del dono è indecidibile?



[i] M. Mauss, Essai sur le don, in "Année sociologique", serie II, 1923‑1924, t. I, ri­stampato in Id., Sociologie et anthropologie, Paris 1950, tr. it. in Teoria generale del­la magia e altri saggi, Torino 1965, passim. Di questo scritto di Mauss si presuppongono, per ovvi motivi di spazio, la lettura ed il commento: si dà dunque per noto il rapporto fra Mauss e la sociologia durkheimiana e il concetto centrale di ‘fatto sociale totale’ di cui il dono è un esempio. Per quanto riguarda il debito di Lacan è sintomatico che Claude Lévi‑Strauss, nell'introduzione, ne citi un testo del 1948, L'aggressivité en psychanalise, a proposito dell'eziologia sociale del disturbo psichico. 
[ii]  J. Lacan, Le Séminaire livre IV.  La relation d'objet. 1956-1957, Seuil, Paris 1994, ed. it. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007. All’epoca in cui questo testo fu scritto non esisteva ancora l’edizione francese di Miller né tantomeno la traduzione italiana: utilizzai, come tutti allora, il dattiloscritto.
[iii] Il primo che ha attirato l'attenzione sulla referenza heideggeriana di Lacan a proposito del dono e dell'enunciato lacaniano «Amare è donare ciò che non si ha» è stato Jacques Derrida in Donner le temps 1. La fausse monnaie, Paris 1991, pp. 12-13, testo che si leggerà anche per la questione del dono in generale.
[iv] La frase compare per la prima volta nello scritto La direction de la cure et les principes de son pouvoir del 1958, poi ristampato negli  Écrits (Paris 1966, p. 618) che riprendeva l'analisi sul dono condotta appunto nel 1956‑1957 nel seminario su La relation d'objet; ritorna in seguito prepotentemente nel seminario del 1960‑1961 dedicato al transfert ed in particolare nel commentario del Simposio platonico (Le Seminaire livre VIII. Le transfert, Paris 1991, passim).
[v]   Secondo una linea o strategia di pensiero che era già di Freud: le ipotesi di Totem e tabù, ad esempio, non prendevano le mosse dai dati dell'esperienza clinica?
[vi] D'altronde l'oblazione è sì estinzione, ma anche adempimento della legge. Il biglietto obliterato sull'autobus estingue il debito dell'utente, ma adempie insieme la norma che obbliga al pagamento del servizio.
[vii] «In altri termini questa specie di bisogno che abbiamo di pensare, di confondere lo Stoff o la materia primitiva o l'impulso o il flusso o la tendenza con ciò che è realmente in gioco nell'esercizio della realtà analitica, è qualcosa che non rappresenta nient'altro che un misconoscimento della Wirkilichkeit simbolica» (J. Lacan, La relation d 'objet, cit., p. 33, ed. it. p. 28).
[viii] «La questione è ora quella di articolare la concezione dell’oggetto che è in gioco e, per poterlo fare, occorre vedere attraverso quali giri Freud ci conduca per farci concepire l’efficacia di questa istanza. Siamo già giunti a porre in rilievo, grazie a vari punti ben diversamente articolati in Freud, la nozione che l’oggetto non è mai nient’altro che un oggetto ritrovato a partire da una Findung primitiva, e che quindi che la Wiederfindung, il ritrovamento, non è mai soddisfacente» (Ivi, p. 60, ed. it. p. 55)
[ix] «L'oggetto materno è propriamente chiamato quando è assente - e rigettato, quando è presente, nello stesso registro dell'appello, per esempio con un vocalizzo» (Ivi, p. 67, ed. it. p. 62).
[x] «È il fondo della relazione del soggetto con la coppia presenza-assenza, relazione con la presenza su sfondo d'assenza, con l'assenza in quanto  costituisce la presenza» (Ivi, p. 183, ed. it. p. 182).
[xi] È  lo schema della privazione secondo Lacan in cui l'agente è il padre immaginario, la mancanza dell'oggetto è appunto reale e l'oggetto è simbolico. Non si dimentichi che il nipotino di Freud faceva, in assenza della madre, anche un altro gioco: si metteva davanti allo specchio e faceva in modo di non vedere più la sua immagine riflessa. Assentandosi la madre, si assentava anche lui, ma dal simbolico.
[xii] «Il dono implica tutto il ciclo dello scambio,  in cui il soggetto si introduce in modo tanto primitivo quanto potete supporre. C’è dono solo perché c’è un’immensa circolazione di doni che ricopre tutto l’insieme intersoggettivo» (J. Lacan, La relation d 'objet, cit., p. 182, ed. it. p.  181).
[xiii] «Il momento della frustrazione è un momento evanescente. Sfocia in qualcosa che ci proietta in un altro piano da quello del puro e semplice desiderio» (Ivi,  p. 101, ed. it. p. 97).
[xiv] «La frustrazione in se stessa non è pensabile (...) che come rifiuto di un dono in quanto il dono è   simbolo dell'amore» (Ivi, p. 181, ed. it. p. 180).
[xv] «Il dono si manifesta all’appello. L’appello si fa sentire quando l’oggetto non c’è. Quando c’è , l’oggetto si manifesta eseenzialmente  solo come segno del dono, vale a dire come niente in quanto oggetto di soddisfacimento» (Ivi, pp. 182-183, ed. it. pp. 181-182).
[xvi] M. Heidegger, Zur Seinstrage, pubblicato per la prima volta col titolo Uber Die Linie, come contributo agli scritti in onore di Ernst Jünger per il suo sessantesimo compleanno: Freundschaftliche Begegnungen, Frankfurt a. M. 1955. Ristampato come opuscolo a sé presso lo stesso editore nel 1956 e ripreso poi in Wegmarken nel 1967 presso Klostermann, ristampato poi nel 1976 come IX volume delle opere  complete. Traduzione italiana  a cura di Franco Volpi da quest'ultima edizione, Adelphi, Milano 1987, p. 367.

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