domenica 7 aprile 2013

Papato e sovranità

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1) La rinuncia di Benedetto XVI e la conseguente presenza simultanea di due papi, uno cosiddetto ‘emerito’ e l’altro effettivamente in ‘carica’, offre lo spunto per alcune considerazioni sullo statuto della sovranità moderna. La cui provenienza è, come sulla scorta di Carl Schmitt sosteneva Walter Benjamin nell’Origine del dramma barocco tedesco, controriformistica, ossia cattolica. Questa teoria ‘estremistica’ della sovranità che potrebbe tranquillamente coincidere con il modello hobbesiano per la centralità che essa accorda al supremo potere esecutivo e al suo carattere coattivo, si oppone alle teorie razionalistiche della sovranità che fondano l’esercizio del potere sulla razionalità della norma e sulla forza di legge ratificata dal diritto. La teoria controriformista della sovranità lega invece quest’ultima  allo stato d’eccezione, esattamente ad un evento la cui realtà non è mai deducibile delle norme vigenti. Da qui la definizione schmittiana che Benjamin fa sua secondo la quale  «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione»  ed è investito del potere  supremo di abolirlo, di mettervi la parola fine ripristinando l’ordine che la situazione eccezionale ha infranto, instaurando una dittatura, come scrive Benjamin, «la cui utopia sarà sempre quella di porre, al posto dell’instabile divenire storico, la ferrea costituzione delle leggi di natura».
Inutile dire che lo stato d’eccezione contro cui ogni volta si erge la sovranità non è altro che lo stato di peccato in cui l’umanità storica si trova da quando  ha deciso di voltare le spalle al suo creatore. In ultima istanza la sovranità moderna lotta contro il peccato per ripristinare l’innocenza. Il lemma teologia-politica non indica pertanto solo il carattere catecontico della sovranità politica, il suo compito esclusivamente negativo di fungere da freno nei confronti del male che avanza, ma accenna anche e forse soprattutto ad un suo aspetto positivo, alla sua capacità cioè di estirpare il male una volta per sempre. È a questo punto che il discorso di Benjamin si separa da quello schmittiano: ciò che il dramma barocco mette in scena è proprio l’impossibilità di decidere che affligge il tiranno barocco, il suo doversi riconoscere, non appena tenti di esercitare il potere sovrano, nulla di più di una misera creatura. Per quanto «alto troneggi sopra i sudditi e lo stato, scrive infatti Benjamin, il suo rango rientra nel mondo della creazione: egli è il signore delle creature ma rimane creatura».
La questione cruciale del cattolicesimo - non del cristianesimo che nella sua declinazione protestante e poi settaria convive felicemente, come si sa da Weber in poi, con il mondo moderno - non  è quella di come faccia a sopravvivere all’avvento del moderno  sotto i colpi del quale avrebbe dovuto da tempo soccombere fino a scomparire, ma quella  per la quale è proprio la natura del moderno a richiederne  il primato. Se come ha dimostrato Lacan il moderno è caratterizzato dal fatto di aver condotto allo zenit l’oggetto a, l’oggetto-causa del desiderio, l’istanza del più-di-godimento, nell’aver in altri termini fatto diventare solo imperativo etico  il comando Godi!, solo la chiesa cattolica romana è l’istituzione in grado di reggere l’onda d’urto rappresentata dall’avvento senza veli del reale per essere l’unica che con assoluto sprezzo del ridicolo mantiene in vita il discorso oblativo dell’amore contro le derive utilitaristiche della modernità. Ed essendo tanto più credibile quanto più questa opposizione fra l’amore e il potere attraversa lo stesso corpo della chiesa, chiamandola continuamente alla rigenerazione.
È sintomatico allora che da quando il moderno si è installato nella storia umana la chiesa cattolica romana sia periodicamente attraversata da ondate riformistiche - la stessa controriforma cos’altro era se non un movimento di riforma e  rigenarazione della chiesa? Costantemente la chiesa tenterà la restaurazione, il ripristino della sua vocazione originaria, il ritorno alla povertà cristiana, allo stare nel mondo senza appartenervi, contro appunto  le tentazioni del mondo e del potere temporale, contro il lusso e la decadenza dei costumi, contro gli intrighi della curia che paradossalmente è l’ambiente in cui viene elaborata la dottrina estremistica della sovranità di cui stiamo parlando. L’attacco alla curia e dunque alla sua stessa esistenza è parte integrante del dispositivo salvifico della chiesa cattolica romama.
Se tuttavia Benjamin ha ragione, questi tentativi sono destinati allo scacco: allora però ci si dovrebbe chiedere perché essi continuino ad essere seguiti anche in quelle parti del mondo del tutto secolarizzate e in cui la  dottrina della fede sostenuta dalla chiesa cattolica è, se non esplicitamente irrisa e disattesa, perlomeno ignorata. La risposta spetta ancora a Benjamin: che cosa continua ad affascinare, si chiede, nella figura del sovrano barocco e proprio nel momento in cui rovina? È «il conflitto tra l’impotenza e l’abiezione della sua persona e la certezza del potere sacrosanto del suo ruolo», è la divaricazione, si potrebbe dire, fra il corpo politico della sovranità, impassibile ed eterno, e il suo corpo naturale,  esposto alla sofferenza  ed alla morte. Non serve a niente ricordare che questa è esattamente la doppia natura del Cristo: la sovranità moderna regna a partire dalla   fine di ogni ordine provvidenziale, di ogni piano soprannaturale di salvezza. Alla fine il corpo di Cristo risorge dalla croce e diviene un corpo glorioso. Quello del suo vicario, anche quando se ne tenti la santificazione, resta un corpo patiens. Lo si era visto chiaramente con Giovanni Paolo II che, in assenza della fede nella resurrezione, aveva scelto di far sopravvivere ad oltranza il suo corpo malato e in via di disfacimento irridendo demonicamente le leggi generali della vita.
Benedetto XVI più  in stile con la sua natura di studioso ha preferito abdicare quando si è reso conto che il suo corpo non lo  reggeva più e che il compito di riformatore della chiesa era divenuto superiore alle sue forze.  Anche lui quando si è trattato di decidere ha scoperto di essere impotente.

2) Vedere i due papi, fianco a fianco, vestiti tutti e due di bianco, come fossero l’uno la replica dell’altro e quasi nell’impossibilità di decidere chi sia quello  in carne ossa e chi quello in immagine, produce un  effetto di vertigine.
Tutti a chiedersi: come potranno coabitare? Il papa in carica andrà a consultare l’altro? E se Benedetto XVI si ritrovasse in disaccordo con le decisioni del suo successore, sarebbe autorizzato a smentirne pubblicamente il dicastero? Per il momento i due papi se ne stanno entrambi in Vaticano, uno apparentemente nascosto, l’altro affacendato nei suoi compiti istituzionali. Il fatto è che il concetto di sovranità di cui la figura del papa è, come si è visto, una delle principali incarnazioni, ha fra i suoi attributi essenziali quelli dell’unità e dell’indivisibilità. Fra i paradossi della teoria moderna della sovranità popolare c’è appunto quello per cui,  pur restando  una e indivisibile, senza contare che fino ad una certa data era considerata   anche ‘assoluta’, non soltanto la si sottopone al primato della legge ma  la si divide anche in  base al principio costituzionale. La sovranità   è una, ma divisa in tre poteri, così  come Dio è un’unica sostanza in tre persone. Come è noto il perfetto bilanciamento dei poteri   che dovrebbe essere l’effetto della loro divisione  si trova perennemente  squilibrato, periodicamente uno dei poteri tenta di subordinare gli altri due proprio in nome o di una maggiore rappresentatività della sovranità o del fatto che essa è appunto una e indivisibile. In quest’ultimo caso si invoca la democrazia diretta, ossia l’abolizione della divisione dei poteri: la teoria  hobbesiana e controriformista della sovranità a favore di quello esecutivo,  quella rousseiana-giacobina del legislativo e  i piccoli-borghesi innamorati della norma astratta del potere giudiziario.
In parte la teoria della divisione dei poteri potrebbe trovare una sua giustificazione nella figura tripartita della sovranità nelle culture indoeuropee oggetto della ricerca di Gorges Dumezil.  E d’altro canto la compresenza di due papi potrebbe assomigliare ai periodi di turbolenza rivoluzionaria in cui esercitano un potere legittimo due governi allo stesso tempo, quello del vecchio regime  che resiste caparbiamente all’attacco dei ribelli  e quello del nuovo  che attende ansiosamente il riconoscimento. Ma non sembra questa la situazione in cui si è venuta a trovare la chiesa con la presenza contemporanea di papa Benedetto XVI e papa Francesco. Perché in questo caso  quel che  sembra spezzarsi è la continuità del corpo sovrano, quella per cui  morto un re se ne fa un altro e morto un papa accade altrettanto o come si dice ‘Il re è morto, viva il Re’. Nella serie  potenzialmente illimitata dei corpi mortali l’assenza di discontinuità fra un corpo e l’altro è la conferma del carattere uno e indivisibile della sovranità, della sua  appartenenza alla dimensione dell’eternità.
Né la chiesa si è costituzionalizzata o la sovranità è passata al popolo di dio o all’assemblea dei vescovi come nella democrazie liberali. La sovranità non si è banalmemte pluralizzata o relativizzata. La sovranità si è semplicemente ma in modo inaudito e inimmaginabile contraddetta. Quando l’uno diventa due non significa che è diventato molti, significa che è entrato in contradizione con se stesso, la divisione non è quella elaborata da Montesquieu, è il principio della diaresi platonica, è la vittoria di una dialettica  asintetica. I due  si spaccheranno a loro volta generando i quattro e i quattro gli otto e si andrà avanti così all’infinito.
L’unico modo per dissolvere la sovranità e la teologia politica non è provarsi a limitarla o a pluralizzarla, è disseminarla attraverso la diaresi. Farla diventare innumerabile, frantumarla in una miriade di cose singolari. Provate a immaginare: ognuno dei due papi si divide a sua volta, e poi ancora fino a che  come delle donne di don Giovanni si perderà il conto. A quel punto non ci sarà più sovranità.

1 commento:

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