1) La rinuncia di Benedetto XVI
e la conseguente presenza simultanea di due papi, uno cosiddetto ‘emerito’ e
l’altro effettivamente in ‘carica’, offre lo spunto per alcune considerazioni
sullo statuto della sovranità moderna. La cui provenienza è, come sulla scorta
di Carl Schmitt sosteneva Walter Benjamin nell’Origine
del dramma barocco tedesco,
controriformistica, ossia cattolica. Questa teoria ‘estremistica’ della sovranità che
potrebbe tranquillamente coincidere con il modello hobbesiano per la centralità
che essa accorda al supremo potere esecutivo e al suo carattere coattivo, si
oppone alle teorie razionalistiche della sovranità che fondano l’esercizio del
potere sulla razionalità della norma e sulla forza di legge ratificata dal
diritto. La teoria controriformista della sovranità lega invece
quest’ultima allo stato
d’eccezione, esattamente ad un evento la cui realtà non è mai deducibile delle
norme vigenti. Da qui la definizione schmittiana che Benjamin fa sua secondo la
quale «Sovrano è chi decide sullo
stato d’eccezione» ed è investito
del potere supremo di abolirlo, di
mettervi la parola fine ripristinando l’ordine che la situazione eccezionale ha
infranto, instaurando una dittatura, come scrive Benjamin, «la cui utopia sarà
sempre quella di porre, al posto dell’instabile divenire storico, la ferrea
costituzione delle leggi di natura».
Inutile dire che lo stato
d’eccezione contro cui ogni volta si erge la sovranità non è altro che lo stato
di peccato in cui l’umanità storica si trova da quando ha deciso di voltare le spalle al suo
creatore. In ultima istanza la sovranità moderna lotta contro il peccato per
ripristinare l’innocenza. Il lemma teologia-politica non indica pertanto solo
il carattere catecontico della sovranità politica, il suo compito
esclusivamente negativo di fungere da freno nei confronti del male che avanza,
ma accenna anche e forse soprattutto ad un suo aspetto positivo, alla sua
capacità cioè di estirpare il male una volta per sempre. È a questo punto che
il discorso di Benjamin si separa da quello schmittiano: ciò che il dramma
barocco mette in scena è proprio l’impossibilità di decidere che affligge il
tiranno barocco, il suo doversi riconoscere, non appena tenti di esercitare il
potere sovrano, nulla di più di una misera creatura. Per quanto «alto troneggi
sopra i sudditi e lo stato, scrive infatti Benjamin, il suo rango rientra nel
mondo della creazione: egli è il signore delle creature ma rimane creatura».
La questione cruciale del
cattolicesimo - non del cristianesimo che nella sua declinazione protestante e
poi settaria convive felicemente, come si sa da Weber in poi, con il mondo
moderno - non è quella di come
faccia a sopravvivere all’avvento del moderno sotto i colpi del quale avrebbe dovuto da tempo soccombere
fino a scomparire, ma quella per
la quale è proprio la natura del moderno a richiederne il primato. Se come ha dimostrato Lacan
il moderno è caratterizzato dal fatto di aver condotto allo zenit l’oggetto a,
l’oggetto-causa del desiderio, l’istanza del più-di-godimento, nell’aver in
altri termini fatto diventare solo imperativo etico il comando Godi!, solo la chiesa cattolica romana è
l’istituzione in grado di reggere l’onda d’urto rappresentata dall’avvento
senza veli del reale per essere l’unica che con assoluto sprezzo del ridicolo
mantiene in vita il discorso oblativo dell’amore contro le derive
utilitaristiche della modernità. Ed essendo tanto più credibile quanto più
questa opposizione fra l’amore e il potere attraversa lo stesso corpo della
chiesa, chiamandola continuamente alla rigenerazione.
È sintomatico allora che da
quando il moderno si è installato nella storia umana la chiesa cattolica romana
sia periodicamente attraversata da ondate riformistiche - la stessa
controriforma cos’altro era se non un movimento di riforma e rigenarazione della chiesa?
Costantemente la chiesa tenterà la restaurazione, il ripristino della sua
vocazione originaria, il ritorno alla povertà cristiana, allo stare nel mondo
senza appartenervi, contro appunto
le tentazioni del mondo e del potere temporale, contro il lusso e la
decadenza dei costumi, contro gli intrighi della curia che paradossalmente è
l’ambiente in cui viene elaborata la dottrina estremistica della sovranità di
cui stiamo parlando. L’attacco alla curia e dunque alla sua stessa esistenza è
parte integrante del dispositivo salvifico della chiesa cattolica romama.
Se tuttavia Benjamin ha ragione,
questi tentativi sono destinati allo scacco: allora però ci si dovrebbe
chiedere perché essi continuino ad essere seguiti anche in quelle parti del
mondo del tutto secolarizzate e in cui la
dottrina della fede sostenuta dalla chiesa cattolica è, se non
esplicitamente irrisa e disattesa, perlomeno ignorata. La risposta spetta ancora
a Benjamin: che cosa continua ad affascinare, si chiede, nella figura del
sovrano barocco e proprio nel momento in cui rovina? È «il conflitto tra
l’impotenza e l’abiezione della sua persona e la certezza del potere sacrosanto
del suo ruolo», è la divaricazione, si potrebbe dire, fra il corpo politico
della sovranità, impassibile ed eterno, e il suo corpo naturale, esposto alla sofferenza ed alla morte. Non serve a niente
ricordare che questa è esattamente la doppia natura del Cristo: la sovranità
moderna regna a partire dalla
fine di ogni ordine provvidenziale, di ogni piano soprannaturale di
salvezza. Alla fine il corpo di Cristo risorge dalla croce e diviene un corpo
glorioso. Quello del suo vicario, anche quando se ne tenti la santificazione,
resta un corpo patiens. Lo si era visto chiaramente con Giovanni Paolo II che,
in assenza della fede nella resurrezione, aveva scelto di far sopravvivere ad
oltranza il suo corpo malato e in via di disfacimento irridendo demonicamente
le leggi generali della vita.
Benedetto XVI più in stile con la sua natura di studioso
ha preferito abdicare quando si è reso conto che il suo corpo non lo reggeva più e che il compito di
riformatore della chiesa era divenuto superiore alle sue forze. Anche lui quando si è trattato di
decidere ha scoperto di essere impotente.
2) Vedere i due papi, fianco a
fianco, vestiti tutti e due di bianco, come fossero l’uno la replica dell’altro
e quasi nell’impossibilità di decidere chi sia quello in carne ossa e chi quello in immagine,
produce un effetto di vertigine.
Tutti a chiedersi: come potranno coabitare? Il papa in carica andrà a consultare l’altro? E se Benedetto XVI si ritrovasse in disaccordo con le decisioni del suo successore, sarebbe autorizzato a smentirne pubblicamente il dicastero? Per il momento i due papi se ne stanno entrambi in Vaticano, uno apparentemente nascosto, l’altro affacendato nei suoi compiti istituzionali. Il fatto è che il concetto di sovranità di cui la figura del papa è, come si è visto, una delle principali incarnazioni, ha fra i suoi attributi essenziali quelli dell’unità e dell’indivisibilità. Fra i paradossi della teoria moderna della sovranità popolare c’è appunto quello per cui, pur restando una e indivisibile, senza contare che fino ad una certa data era considerata anche ‘assoluta’, non soltanto la si sottopone al primato della legge ma la si divide anche in base al principio costituzionale. La sovranità è una, ma divisa in tre poteri, così come Dio è un’unica sostanza in tre persone. Come è noto il perfetto bilanciamento dei poteri che dovrebbe essere l’effetto della loro divisione si trova perennemente squilibrato, periodicamente uno dei poteri tenta di subordinare gli altri due proprio in nome o di una maggiore rappresentatività della sovranità o del fatto che essa è appunto una e indivisibile. In quest’ultimo caso si invoca la democrazia diretta, ossia l’abolizione della divisione dei poteri: la teoria hobbesiana e controriformista della sovranità a favore di quello esecutivo, quella rousseiana-giacobina del legislativo e i piccoli-borghesi innamorati della norma astratta del potere giudiziario.
Tutti a chiedersi: come potranno coabitare? Il papa in carica andrà a consultare l’altro? E se Benedetto XVI si ritrovasse in disaccordo con le decisioni del suo successore, sarebbe autorizzato a smentirne pubblicamente il dicastero? Per il momento i due papi se ne stanno entrambi in Vaticano, uno apparentemente nascosto, l’altro affacendato nei suoi compiti istituzionali. Il fatto è che il concetto di sovranità di cui la figura del papa è, come si è visto, una delle principali incarnazioni, ha fra i suoi attributi essenziali quelli dell’unità e dell’indivisibilità. Fra i paradossi della teoria moderna della sovranità popolare c’è appunto quello per cui, pur restando una e indivisibile, senza contare che fino ad una certa data era considerata anche ‘assoluta’, non soltanto la si sottopone al primato della legge ma la si divide anche in base al principio costituzionale. La sovranità è una, ma divisa in tre poteri, così come Dio è un’unica sostanza in tre persone. Come è noto il perfetto bilanciamento dei poteri che dovrebbe essere l’effetto della loro divisione si trova perennemente squilibrato, periodicamente uno dei poteri tenta di subordinare gli altri due proprio in nome o di una maggiore rappresentatività della sovranità o del fatto che essa è appunto una e indivisibile. In quest’ultimo caso si invoca la democrazia diretta, ossia l’abolizione della divisione dei poteri: la teoria hobbesiana e controriformista della sovranità a favore di quello esecutivo, quella rousseiana-giacobina del legislativo e i piccoli-borghesi innamorati della norma astratta del potere giudiziario.
In parte la teoria della
divisione dei poteri potrebbe trovare una sua giustificazione nella figura
tripartita della sovranità nelle culture indoeuropee oggetto della ricerca di
Gorges Dumezil. E d’altro canto la
compresenza di due papi potrebbe assomigliare ai periodi di turbolenza
rivoluzionaria in cui esercitano un potere legittimo due governi allo stesso
tempo, quello del vecchio regime
che resiste caparbiamente all’attacco dei ribelli e quello del nuovo che attende ansiosamente il
riconoscimento. Ma non sembra questa la situazione in cui si è venuta a trovare
la chiesa con la presenza contemporanea di papa Benedetto XVI e papa Francesco.
Perché in questo caso quel
che sembra spezzarsi è la
continuità del corpo sovrano, quella per cui morto un re se ne fa un altro e morto un papa accade
altrettanto o come si dice ‘Il re è morto, viva il Re’. Nella serie potenzialmente illimitata dei corpi
mortali l’assenza di discontinuità fra un corpo e l’altro è la conferma del
carattere uno e indivisibile della sovranità, della sua appartenenza alla dimensione
dell’eternità.
Né la chiesa si è
costituzionalizzata o la sovranità è passata al popolo di dio o all’assemblea
dei vescovi come nella democrazie liberali. La sovranità non si è banalmemte
pluralizzata o relativizzata. La sovranità si è semplicemente ma in modo
inaudito e inimmaginabile contraddetta. Quando l’uno diventa due non significa
che è diventato molti, significa che è entrato in contradizione con se stesso,
la divisione non è quella elaborata da Montesquieu, è il principio della
diaresi platonica, è la vittoria di una dialettica asintetica. I due
si spaccheranno a loro volta generando i quattro e i quattro gli otto e
si andrà avanti così all’infinito.
L’unico modo per dissolvere la
sovranità e la teologia politica non è provarsi a limitarla o a pluralizzarla,
è disseminarla attraverso la diaresi. Farla diventare innumerabile, frantumarla
in una miriade di cose singolari. Provate a immaginare: ognuno dei due papi si
divide a sua volta, e poi ancora fino a che come delle donne di don Giovanni si perderà il conto. A quel
punto non ci sarà più sovranità.
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