1) Secondo il Corriere della sera di venerdì 2 marzo di quest’anno Mario Monti avrebbe esortato a più riprese i ministri del suo governo «ad astenersi da iniziative politiche che potrebbero destabilizzare la ‘strana maggioranza’ in parlamento» sostenendo la tesi secondo la quale «il governo ha compiti limitati, e ciò nonostante difficilissimi. Questo compito riusciremo a svolgerlo se osserveremo una certa distanza rispetto ai partiti».
Il senso delle parole di Monti è abbastanza chiaro: il governo deve limitare il suo intervento agli ambiti - quelli dell’emergenza economica - per i quali è stato formato ed è sostenuto dai tre maggiori raggruppamenti politico-partitici italiani. Non deve in ogni caso invadere il campo dei partiti che sarebbe composto da riforme costituzionali, leggi elettorali, interventi sulla Rai, ed altre decisive questioni. Strana tesi! Come se la riforma delle pensioni, le liberalizzazioni (in gran parte mancate), la riforma del mercato del lavoro, la cosiddetta crescita, in realtà la nuova accumulazione del capitale, non fossero questioni eminentemente politiche. La favola del governo tecnico ha fatto il suo tempo: il governo di Mario Monti è l’unica istituzione in Italia che faccia in questo momento politica nel senso forte di questa parola - insieme, purtroppo, a Silvio Berlusconi che sembra aver capito perfettamente il senso del governo Monti e perciò lo appoggia, mentre il Pd annaspa e si divide come al solito - e produca effetti politici importanti e duraturi. Sono i partiti che da tempo non fanno più politica. Per due ragioni: 1) perché tendono a interpretare la politica come mera rappresentanza degli interessi immediati dei ceti e delle classi che già partecipano alla divisione della ricchezza sociale, e non come governo, ossia guida della comunità storica verso uno scopo la cui realizzazione può e quasi sempre deve colpire gli interesi consolidati e i privilegi accumulati col tempo; 2) perché secondo una tradizione specificatamente europea tendono a identificarsi con lo stato. A destra è il lascito dei partiti fascisti e a sinistra del partito stalinista - in Italia il partito ‘nuovo’ di Togliatti. Da qui la centralità del tema del consenso confuso con le forme della legittimazione nelle costituzioni democratiche. L’identificazione dei partiti con lo stato produce non la politica - che in fin dei conti è sempre quella del Re Sole: si mette l’aristocrazia tendenziamente frondista a bagnomaria impegnandola nei giochi di corte e si dà via libera alla borghesia in via di formazione, cioè si sposta il potere da una classe ad un’altra - ma la polizia, vale dire l’ordine che esclude, la partizione che genera i senza parte.
Vorrei provare a leggere le parole di Mario Monti in un altro modo: ‘osservare una certa distanza dai partiti’ vuol dire mettere la politica a distanza dallo stato. Anche qui non c’entra nulla il carattere accentratore del governo Monti. Al di là della retorica, la democrazia non esclude affatto anzi richiede l’esercizio del governo. Il problema è se questo esercizio viene dal basso o dall’alto. Se oggi viene dall’alto - ma sempre come ciò che è altro rispetto alla situazione - è perché il basso è colonizzato dal peggio del movimento rivoluzionario: l’operaismo, l’ecologismo, la decrescita. La piccola borghesia impaurita dai processi in atto di proletarizazzione ha preso la direzione dei movimenti contro una classe operaia in difficoltà a causa delle trasformazioni del capitale. La prova sta nel fatto che i movimenti attuali mirano, come i loro antenati luddisti, non a trasformare i rapporti sociali di produzione, ma a distruggere gli oggetti. Lottano contro i treni e i ponti, contro gli sviluppi della scienza alimentare, contro gli inceneritori. Perché una cosa è non confondere la rivoluzione dei rapporti sociali di produzione con quella tecnologica, un’altra è scambiare la lotta contro la tecnologia con quella contro il capitale.
2) A differenza di molti miei colleghi ho sempre saputo che se siamo pagati dallo stato, con quello che Jean-Claude Milner ha chiamato il salario dell’ideale, cioè la possibilità di fruire dell’ozio, non è perché facciamo bene o male i filosofi, ma perché insegnamo, cioè trasmettiamo alle giovani generazioni quel sapere accumulato che una società storica ritiene necessario per la sua riproduzione. La verità è che da Socrate in poi c’è inimicizia fra i filosofi e lo stato. Il che non vuol dire essere costretti ad ogni piè sospinto a bere la cicuta, ma significa che la pratica filosofica tende a contrapporsi alle ideologie della città, che è quasi sempre critica verso il conformismo di stato. Ciò è vero anche per quei filosofi che una vulgata dura a morire identifica come i filosofi di stato o dello stato, i filosofi idolatri dello stato come ad esempio Hegel (ancora poche settimane fa sul supplemento domenicale del Corriere della sera La lettura Edoardo Camurri sosteneva che lo stalinismo fosse in qualche modo erede del pensiero politico di Hegel o all’inverso che nella Filosofia del diritto pubblico hegeliana fossero anticipate le pratiche del Gulag: frequentare le lezioni di Vattimo non deve avergli fatto tanto bene).
Posto quindi che la posizione dei filosofi all’interno dell’Università fosse sostanzialmente spuria ciò ha tuttavia permesso quella che con Derrida chiamerei una politica dei bordi: si poteva da dentro l’istituzione che in quanto tale non può che essere conservatrice, attivarne la decostruzione, la critica immanente. Tenendo conto che ogni istituzione ha un bordo che la separa e la pone in relazione con il contesto esterno e che un bordo ha sempre due lati, uno interno e un altro esterno, si trattava di trasbordare continuamente dall’uno all’altro forti del fatto che la posizione filosofica era per lato dentro l’Università - il lato insegnamento - e per un altro fuori - il lato critico e decostruttivo.
L’attivazione del dispositivo della valutazione nazionale del sistema universitario per come è concepita soprattutto nei confronti della filosofia, dei saperi filologico-letterari e di gran parte delle scienze umane renderà tutto questo impossibile, anzi prepariamoci all’espulsione definitiva della filosofia dall’università. Niente di tragico beninteso: l’identificazione fra il filosofo e il ruolo del professore universitario è recente nella storia occidentale, riguarda soprattutto l’università moderna così come viene concepita nella stagione idealistica fra fine settecento e inizi dell’ottocento. Per Schelling, per Schleiermacher anzi l’università moderna o è filosofica o non è. E anche per coloro per i quali le cose non stavano così - Kant o Humboldt - la posizione critica della facoltà filosofica è ritenuta strategica sia per il buon funzionamento dell’Università che per quello dello stato. Ma insomma Spinoza si guadagnava la vita molando le lenti, Derrida non è mai stato professore, Benjamin fu bocciato al concorso a cattedra, Nietzsche abbracciava cavalli.
Non è solo per l’asservimento della filosofia ai modelli di valutazione dei saperi scientifici - posto che questi ultimi si valutino come sostengono gli esponenti dell’Anvur, l’agenzia nazionale della valutazione - ma è per i criteri in quanto tale della valutazione che ogni possibilità di sopravvivenza della filosofia è preclusa. Non c’è valutazione senza l’indicazione dei modelli cui parametrare la produzione scientifica: ma ciò vuol dire che saranno valutati positivamente solo quei risultati che saranno conformi ai criteri stabiliti. Sarà il trionfo del conformismo di Stato nel pensiero. Colpisce quindi che una parte dei filosofi italiani abbia accettato le richieste dell’Anvur di approntare liste - di proscrizione - di editori e di riviste divisi in fascia A e fascia B per permettere la valutazione dei singoli prodotti che saranno valutati di meno se compaiono in riviste di fascia B invece che di A o se sono editi da editori di fascia B invece che di A. Per fare un esempio la storica rivista Aut-Aut, una delle più importanti riviste della filosofia italiana contemporanea, una rivista fondata da Enzo Paci, è classificata in fascia B. Dispiace dirlo ma il comportamento di questi colleghi assomiglia a quello dei presidenti delle comunità ebraiche incaricati dai nazisti di preparare liste di persone da deportare.
È tempo invece che i filosofi italiani incomincino a pensare all’invenzione di altre istituzioni, non statali, in cui esercitare la pratica della filosofia: università libere, editori non compromessi, riviste anche on line indipendenti.
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