martedì 16 agosto 2011

Segno e pittura. L'arte come menzogna


  Questo è il mio contributo per il catalogo della mostra del pittore Rino Volpe intitolata ‘Soprapensieri sulla poesia di Nietzsche’ tenutasi a Napoli nel 1990.
  

I quadri di Rino Volpe pongono immediatamente una questione: quella del rapporto possibile fra il testo letterario e/o filosofico e l'iscrizione grafico/pittorica. Frasi intere, decontestualizzate dal corpus cui tutto un certo regime di proprietà e di attribuzione, un certo lavorio febbrile dell'acribia filologica, una certa strategia dell'arte interpretativa, insomma tutto un ordine del discorso, le destinava, passano, come in uno stato di 'soprapensiero', sulla superficie della tela e si trovano iscritte in un altro discorso, sottoposte ad un'altra legge dell'incorniciatura, prese in un altro percorso della scrittura.
Fra la frase ed il quadro non si instaura nessun rapporto semantico: la citazione  - se ancora di citazione si può parlare ‑ non illustra la figura, non sta lì a denotare il significato dell'immagine in nome di un primato del linguaggio verbale che solo per accidente decade nella condizione, derivata e secondaria, della scrittura. La frase accede alla superficie del quadro in virtù del suo carattere grafico; non poesia visiva, ma resa del segno alfabetico al movimento di un'iscrizione grafica in generale. Il segno si modula secondo le esigenze della composizione: occupa lo spazio in verticale come un geroglifico, si distende secondo la larghezza della tela o è come scosso da un movimento ondulatorio, alle volte lieve, altre affrettato.
Così come non fa da illustrazione del quadro, allo stesso modo la frase non funge da titolo; nome d'autore e titolo dell'opera da cui è tratta entrano a loro volta, come parte integrante della frase, nell'economia generale della composizione pittorica. Ogni quadro di Rino Volpe ha così un doppio titolo, è la messa in scena del carattere indecidibile e paradossale della titolazione. Se il titolo, insieme al nome d'autore, è la funzione che permette l'attribuzione, se rimanda cioè ad un regime di proprietà e a una economia ristretta della produzione artistica, letteraria, infine della produzione in generale, la pratica pittorica di Rino Volpe mi sembra consistere in una consapevole e programmatica  mise en abîme del dispositivo dell'intestazione. Si prenda ad esempio ‘Soprapensieri n° 168’ : su uno sfondo rosso, una doppia figura ancestrale è iscritta su di una superficie prodotta da degli assi cartesiani; su quello delle ordinate, che si sdoppia a formare una scalanatura, si trova, scritta lettera per lettera, la frase 'ogni lingua ha un suo silenzio'; su quello delle ascisse, trattato allo stesso modo, un nome: 'elias canetti'; più sotto infine, in basso a destra, c'è la firma 'Rino Volpe', e una data. Ma del titolo, del titolo vero e proprio (se mai ve n'è uno), nel quadro non c'è traccia; esso è fuori, come caduto, si situa in un altro testo o su di un altro supporto: un catalogo, una targhetta.
Chi è, dunque, l'autore e qual è il titolo? In linea di diritto, nulla impedisce di assumere la frase di Canetti come titolo del quadro e il nome 'Rino Volpe' come nome d'autore della frase, mentre il nome 'Elias Canetti' potrebbe essere il nome d'autore del quadro. Ora, se un simile scambio, una simile inversione, sono possibili, ciò è dovuto al fatto che nome, titolo e testo entrano nell'economia generale dell'iscrizione grafica - procedimento non smentito nemmeno dall'irruzione del colore. È  l'economia generale del segno grafico che sdoppia, divide, le funzioni identitarie ed unificanti del nome e del titolo; essa le dissemina, ed in tal modo decostruisce l'istanza stessa della genealogia, tutto un regime rigido di appartenenza decontestualizzata dal suo luogo d'origine, dimostra che il testo o l'opera non erano un tutto unitario, o lo erano solo per convenzione, in base ad una esigenza classificatoria e di delimitazione, che si racchiudeva appunto nelle funzioni del titolo e del nome d'autore. Ma quando la frase compare nel quadro, non per questo è sottoposta alla genealogia 'artistica' (distinzioni dei generi, uso dei materiali, filiazioni di scuola), dal momento che qui ‘l'arte’ è già contaminata a sua volta da altri generi di discorso: infine 'arte', 'filosofia', 'letteratura', in quanto generi, vengono sottoposti ad un processo totale di trasformazione e di spostamento dalla pratica generale della scrittura.
Torniamo al quadro  ‘Soprapensieri n° 168’: la frase 'ogni lingua ha un suo silenzio' che, a pieno titolo ‑ è proprio il caso di dirlo ‑. potrebbe far da titolo del quadro con la sua firma ed il suo nome d'autore, enuncia dall'interno o dal fondo stesso dell'incorniciatura (dove si situano un titolo ed una firma? dentro, fuori, sul bordo della tela? e a sua volta dove finisce un quadro? la cornice è interna od esterna alla figura?) la legge generale della traduzione del testo scritto in disegno. Ogni resa al disegno è passaggio dal verbale al muto, dal sonoro all'insonorizzazione, dalla parola all'opacità del segno. Cosicché quando la frase, strappata al testo in cui sembrava dotata di un significato più o meno stabile ed univoco per il fatto che il segno vi si trovava governato da un'idealità oggettiva, trapassa sulla tela, viene investita da una disseminazione segnica in cui perde la connotazione di partenza. Le superfici di Rino Volpe sono attraversate da una vera e propria proliferazione segnica: aste, geroglifici, popolano la tela. Scritture arcaiche, figure abbozzate che rimandano alle iscrizioni che i nostri progenitori lasciarono sulle pareti delle caverne, alfabeti tanto misteriosi come se provenissero da un altro mondo, segnali immaginari, forse sognati, si distendono sul fondo o piuttosto lo costituiscono. Per riprendere un’osservazione di Benjamin la linea grafica indica la superficie e la determina in quanto la coordina con se stessa, ossia col suo fondo: ma allo stesso tempo la linea non può esistere che su questo fondo. In altri termini, la linea, il segno che si fa disegno, produce il fondo su cui viene a stagliarsi: nessuna forma o idea predetermina il farsi della linea, nessun cliché occupa già, in absentia, il fondo della tela. La lotta del pittore è una lotta contro l'archivio disponibile della immagini, contro la stereotipia delle figure già comprese, già dotate di senso, già omologate e rese unidimensionali. Il pittore lotta per rendere visibile l'invisibile ed invisibile il già visto.
II fondo, il bianco della tela, valgono allora soltanto come legge della spaziatura: essi rendono discreto il movimento della linea, impediscono che il disegno copra totalmente il fondo cessando in tal modo d'essere un disegno. Il rapporto fra la linea e il fondo è retto da una legge dialettica: il fondo emerge solo nel movimento della linea, ma la linea è tale solo in rapporto al fondo; una linea continua che esautorasse il fondo per ciò stesso cesserebbe d'essere una linea. La linea, prosegue Benjamin, non ha rapporti con la rappresentazione, essa cioè non rimanda alla sfera dei significati, ed è proprio per questo che essa dà accesso ad un ordine che ci è del tutto ignoto: l'ordine puro ed assoluto del di‑segno e della scrittura.
Se la linea grafica eccede il mondo dei significati, è il colore che li reintroduce nella composizione pittorica. Alla dialettica linea‑fondo se ne sovrappone un'altra: la dialettica linea‑colore. Si vedano ad esempio i tre quadri dedicati alle tre metamorfosi nietzscheane: qui il colore sovrasta il disegno, lo fa esplodere. Ma quel che può apparire come un eccesso di simbolismo che contrasta con l'ordine puro della linea si rovescia nel suo esatto contrario: alla pura linea si sostituisce la purezza e l'assolutezza del colore. L'intensità stessa del colore eccede la troppo facile corrispondenza fra simbolo e figura, impedisce che il quadro si riduca alla semplice riproduzione del significato concettuale cui si può costringere la tessitura del testo nietzscheano. È  come se il colore, al contrario, traducesse quel di più di senso che già eccede il testo filosofico e che solo come ‘soprappensiero' può divenire quadro.
Riconducendo il fare pittorico al dominio della scrittura, Rino Volpe riprende e rovescia, inconsapevolmente forse e tuttavia in modo rigoroso, un paradigma che governa la storia occidentale e che accomuna nello stesso discredito la tecnica della scrittura e l'arte delle immagini. Si apra il Fedro platonico: la scrittura, dice Socrate, si trova in una strana condizione simile in tutto a quella della pittura. I prodotti di quest'ultima ci stanno sì davanti come se fossero vivi, ma, se li interroghiamo, non rispondono, restano in silenzio: essi sono muti. Allo stesso modo avviene con le parole scritte: esse danno l'illusione di poter parlare, ma se le si chiede qualcosa di ciò che dicono, ripetono sempre la stessa cosa. Se la pittura è muta, la parola scritta è ripetitiva come un pappagallo. Ma la ripetizione, sembra dirci Socrate, è una forma di mutismo; la parola vivente, animata dall'idealità del significato, impressa nell'anima e proferita nel soffio della voce, una volta che sia consegnata al segno scritto si pietrifica, s'immobilizza e tace. Il testo scritto, privo della protezione paterna ‑ del suo autore, del nome in nome del quale si legittima ‑ non risponde all'intenzione che vorrebbe ridurla al significato, si sottrae all'ordine del senso. Così tace anche la pittura, ma solo perché nel suo mutismo s'iscrive la disseminazione segnica o la pura macchia del colore.
La fratellanza fra la pittura e la scrittura fa parte, nel testo di Platone, di un ben più vasto campo di battaglia, quello in cui si combatte la lotta nei confronti della tecnica sofistica connessa all'intera sfera delle arti imitative (cui non sfuggono nemmeno la poesia epica e quella tragica, ma che nella pittura sembra trovare il suo statuto più proprio). Il sofista vi è descritto come un esperto dell'imitazione e più propriamente dell'arte di produrre simulacri: se la copia conforme è già di natura derivata rispetto alla purezza dell'idea ‑ il letto reale rispetto all'idea del letto ‑ e la copia della copia ‑ un quadro che rappresenta un letto ‑ è un ulteriore allontanamento dal mondo della verità, un simulacro invece rappresenta l'abisso vertiginoso in cui il processo imitativo fa sprofondare l'idea, dal momento che confonde definitivamente verità e finzione. Simulare, infatti, significa far finta che ciò che è solo imitazione sembri vero; mentre un letto ben fatto non si confonde mai con la sua idea e un letto ben imitato dichiara sempre dl non essere altro che un'imitazione, un letto‑simulacro è quello sul quale ci viene voglia di sdraiarci e schiacciare un pisolino tanto ci sembra vero. Non che  Platone voglia espellere del tutto le arti imitative dal territorio della buona repubblica, quella cioè governata dai filosofi; vuole semplicemente che l'imitazione dichiari sempre la sua natura imitativa, che all'interno dell'opera sia sempre individuabile una marca di riconoscimento: come se da dietro il quadro una voce ci ricordasse che in fondo è sempre e solo di un quadro che si tratta. È  facile vedere che questa funzione di marca viene espletata dal titolo e dal nome d'autore.
Quando allora Platone deve sferrare l'attacco decisivo al sofista è ad una metafora pittorica che ricorre: se il sofista si vanta di saper far tutto e ciò con un'arte sola, quella appunto dell'imitazione, egli assomiglierà a quel pittore che mostrando da lontano a dei fanciulli i suoi disegni, gli fa credere di poter realizzare in modo compiuto qualunque cosa gli passi per la testa. L'arte del sofista, come si vede, costituisce un pericolo per la repubblica ordinata perché distrugge le competenze, dissolve i generi, permette infine che uno solo possa produrre un mondo intero. Il sofista è il rovescio del filosofo: questi guarda il mondo sensibile con la mente rivolta al sopramondo delle idee, quello, invece, attraverso lo specchio. La pittura, dunque, è un altro mondo che smentisce quello vero o che piuttosto lo pone in bilico fra l'apparire e l'essere.
L'antico apologo di Zeusi e di Parrasio illustra, meglio di ogni altro, lo statuto che Platone attribuisce alla pittura. I due pittori decidono di fare una gara per stabilire chi sia il migliore. La performance di Zeusi è notevole; ha imitato dell'uva con tanta arte da giungere ad ingannare l'occhio degli uccelli che, visto il quadro, si precipitano a beccarla. Ma Parrasio è più bravo: sul muro ha dipinto soltanto un velo, ma così somigliante che Zeusi, venuto più vicino, non può trattenersi : 'Fammi vedere il quadro, gli dice, che hai nascosto dietro il velo'. Parrasio vince perché il suo grado d'abilità nel produrre il simulacro è più alto di quello di Zuesi: se è vero, infatti, che quest'ultimo è un perfetto imitatore tanto da aver ingannato gli occhi degli uccelli. Parrasio porta a tal punto la simulazione dell'apparenza da riuscire ad ingannare l'ingannatore stesso. Se l'apologo si adatta così bene al discorso platonico sulla pittura è perché esso mostra che la cifra di quest'ultima consiste nell'ingannare l'occhio: la pittura è essenzialmente il trompe-l’œil, l'inganna‑occhio, quell'occhio che dovrebbe essere tutto illuminato dalla luce che si irradia dalle idee.
Potremmo moltiplicare ‑ e non è questo il luogo ‑ le citazioni platoniche in cui questo rapporto fra la tecnica sofistica, le arti imitative, la pittura e infine il segno scritto, è ripreso a prova appunto che il dominio del segno si oppone punto per punto al sistema onto‑teo‑logico, non tanto perché lo sostituisca con un altro sistema dotato tuttavia degli stessi caratteri di univocità e idealità, quanto perché lo smonta e lo decostruisce; mettendolo in scena, inabissandolo nella vertigine del segno‑scrittura, lo mostra per quel che è: un prodotto di finzione.
Che ad un certo momento del suo percorso pittorico Rino Volpe dovesse incontrare Nietzsche sembra dovuto allora a quella necessità che scaturisce dalla cosa stessa. Giacché sarebbe veramente difficile trovare un altro luogo in cui, non solo l'arte sia al centro dell'edificio teorico, ma soprattutto sia metodicamente connessa alla menzogna. Non si troveranno in Nietzsche che rari accenni alla pittura e oltretutto irrilevanti (fra le arti, come si sa, è alla musica, oltre che all'arte tragica, che Nietzsche dedica la maggiore attenzione); vi si troverà in compenso, già dalle prime opere, una dizione dell'arte che sorpassa i confini ristretti dell'estetica per aprirsi ad una dimensione ontologica. L'arte, insomma, è una pratica generale d'interpretazione del reale che costantemente lo smentisce: gli stessi sistemi di verità che tentano d'imporre un ordine stabile ed univoco ad una realtà che è, al contrario, incessante movimento, continua trasformazione ‑ per usare l'espressione nietzscheana: che impongono l'essere al divenire ‑, non sono altro, visti in questo senso, che finzioni, dunque prodotti dell'arte. Se, secondo una tesi diffusa, ancorché troppo semplice, Nietzsche rovescia il platonismo, è in realtà perché lo prende sul serio; quando Platone combatte col sofista, e dunque con le arti imitative e la scrittura, lo fa proprio perché è estremamente consapevole della vicinanza e della prossimità della verità alla finzione. Quanto più, da filosofo (e di Platone si racconta che, prima di dedicarsi alla filosofia, fosse uno scrittore di tragedie), delimita i rispettivi campi, impone gerarchie, stabilisce la scala dei valori, tanto più tutto questo immenso lavorio fa da spia del fatto che in fondo la stessa verità potrebbe essere nient'altro che una perfetta finzione.
Vogliamo dire che, se è vero che Nietszsche rovescia il platonismo, ciò non significa che semplicisticamente apponga il marchio del valore là dove l'altro aveva visto soltanto disvalore; in altri termini, l'arte non prende il posto che prima era occupato dalla verità ‑ una verità più vera, più vicina alla vita, più corposa. L'arte  conserva lo statuto che il platonismo le attribuiva: apparenza, finzione, attività menzognera; quel che cambia è, invece, proprio lo statuto del vero: è la verità che si scopre essere nient'altro che finzione, apparenza e sogno. Quando l'arte, cioè, si riconosce come consapevole 'creazione menzognera', allora tutto il sistema di opposizioni ‑ mondo vero ed apparente, essere ed apparire, profondità e superficie, ragione e senso, logos e poiesis ‑ su cui si gegge la nostra tradizione onto‑teo‑logica, vacilla, perde peso. Non che l'arte lo azzeri; una finzione, infatti, che non avesse più una verità cui confrontarsi, cesserebbe d'essere finzione: dove tutto è finzione, tutto è egualmente vero. La differenza non è tolta né la tensione acquietata; piuttosto la violenza dell'opposizione ne risulta accresciuta: se la verità è un prodotto di finzione, dovremo costruire una finzione di gran lunga più potente se vogliamo che ne prenda il posto. Vi sono gradi diversi di finzione, c'è una differenza fra le forze e fra le volontà di potenza. Perché vi sia una nuova creazione è necessario uno squilibrio, una differenza d'energia; il nuovo atto creativo non annulla il precedente, al contrario lo rivaluta, lo usa, lo valorizza, ne incorpora il tantum di forza, di volontà di potenza, di cui pure era l'effetto. La creazione, infine ‑ ed è un grande tema nietzscheano ‑, rende produttiva finanche la malattia, la decadenza morale e fisica, dal momento che vi riconosce, anche se in forma reattiva, la presenza della volontà di potenza: la malattia, insomma, non è l'effetto della decadenza, ma la testimonianza che la vita lotta ancora per non soccombervi.
Eppure c'è un criterio per distinguere: non tutte le finzioni sono uguali, le infinite maschere non coprono sempre lo stesso volto né tantomeno la parata dei simulacri nasconde il sempre‑uguale. C'è una finzione più 'vera' delle altre, ed è quella che più di tutte sopporta gioiosamente d'essere soltanto una finzione. Se vi è una ragione per cui la verità è destinata a perdere il suo ruolo sovrano in nome dell'arte come creazione menzognera essa sta in questo: la verità una finzione che fa finta di non esserlo. Compito dell'arte è smascherare la verità e riderne.
Null'altro significa la sentenza nietzscheana 'dio è morto': la morte del dio della morale e  della verità, del dio che pronuncia la condanna contro il corpo, contro il potenziamento della vita, non deve indurre alla rassegnazione, ad un nichilismo tanto impotente quanto disperato. La vita è lotta ed è contrasto. La verità piuttosto è che dio sopravvive a dio, ma il dio che resta è un dio‑artista, una divinità ironica, un dio-clown. ‘Dioniso contro il crocefisso', così Nietzsche si firma nei biglietti della follia, ed il nome d'autore non solo scompare nelle infinite maschere, ma si sdoppia, si duplica. Il nome d'autore è il luogo di una lotta, di uno scontro, fra la verità e la finzione, fra il senso di colpa e l'innocenza.
Forse l'arte non è altro che questo: affermazione dell'innocenza del divenire, gaia scienza della metamorfosi, totale accettazione del mutamento. Ed il dio artista è un fanciullo divino che crea i mondi a caso, per gioco, con un colpo di dadi.

 

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