lunedì 15 agosto 2011

La pace e la complessità




 Nel 1991 in occasione della prima guerra del golfo fu organizzato un seminario sulla guerra da un gruppo di  ricercatori e di studenti della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Napoli: questo è il testo del mio intervento.

Leggo sul numero di febbraio di Linea d'ombra la trascrizione di una conferenza tenuta nel novembre '90 da Johan Galtung, fondatore dell'International Peace Research Institute di Oslo ed esperto di teoria dei conflitti. Ciò che mi colpisce non è soltanto la lungimiranza di un'analisi in grado di prevedere quasi tutto quello che è accaduto in seguito, ma soprattutto quel che chiamerei l'assiomatica che guida la ricerca e che permette la formulazione di una congettura così precisa da corrispondere poi quasi interamente alla realtà degli eventi. Se si vuole comprendere una situazione, tentare di individuarne le linee di tendenza, è da irresponsabili affidarsi unicamente ad una descrizione vagamente fenomenologica dei fatti; è necessaria invece una teoria che individui delle leggi di struttura; sono necessari, per usare l'espressione di Galtung, dei teoremi, proprio come quelli della geometria che soli ci permettono di pensare la realtà dello spazio.
Allo stesso modo essi sono indispensabili per articolare la realtà della guerra e della pace. Perché è inutile dichiararsi contro la guerra e a favore della pace se l'aspirazione alla pace resta appunto niente più di un desiderio o di un anelito che abbandona inevitabilmente la realtà alla brutalità della guerra. Tra le varie funzioni della teoria una è proprio quella di far piazza pulita delle ideologie, cioè delle illusioni o dei misconoscimenti della coscienza: di fronte al fenomeno guerra il misconoscimento consiste nel fatto che si continua a prendere la pace come normalità e la guerra come l'eccezione. È  vero esattamente il contrario: la guerra nella storia umana è la condizione di normalità e la pace l'eccezione o, per dirla tutta, l'impossibile. Ora né l'approccio fenomenologico né tanto meno quello storicistico (che non equivale all'approccio storico), sono in grado di circoscrivere l'impossibile; essi anzi lo escludono in linea di principio, ed è per questo che per entrambi la pace si limita ad essere o un ideale regolativo alla maniera kantiana, ed è il caso migliore, o un desiderio vago, ed è il peggiore. Solo la formalizzazione teorica è in grado senza illusioni di isolare l'impossibile, la pace come l'impossibile.
Prima di analizzare i teoremi di Galtung vorrei fare un'osservazione che conferma quanto detto finora. Una teoria della pace è in realtà una teoria dei conflitti. Ciò si oppone alla tesi corrente per la quale pace e conflitto si escludono a vicenda e che pensa la pace come la fine e l'eliminazione del conflitto. Niente di più falso: la pace si basa sul conflitto, la pace è l'articolazione del conflitto. Dal che deriva che una cultura della pace implica preliminarmente l'acquisizione del carattere positivo del conflitto, vale a dire che senza conflitto, anzi senza più conflitti intrecciati fra di loro, parlare di pace è parlare a vuoto. Ho sempre creduto che il vero problema non fosse quello di elaborare un discorso della pace, ma di approfondire quello della guerra o del conflitto.
Veniamo dunque ai teoremi: 1) ogni conflitto nel mondo empirico e nell'astrazione ideologica è sempre un conflitto complesso, formato cioè da molteplici dimensioni. Ne deriva come corollario che quanto più si tende a semplificare, tanto più ci si allontana dalla realtà con conseguenze catastrofiche. Infatti il secondo teorema dice: 2) è più facile trovare una soluzione per un conflitto complesso che per uno non complesso. Ad esempio se un conflitto presenta solo due attori alle prese con un'unica posta in gioco non sono possibili né compromessi né scambi, cioè l'esito è la guerra. La soluzione di un conflitto, infatti, presuppone due cose: un numero alto di attori e di poste in gioco e tempo a disposizione; è necessario che si possa applicare il principio seguente: A dà una cosa a B, B dà una cosa a C, C dà una cosa a D, e via di seguito. Quando si è solo in due e si vuole la stessa cosa, il Kuwait ad esempio, non c'è nulla da dare in cambio: o è mia o è tua. Terzo teorema; 3) la prima vittima di un conflitto intenso è la complessità. Vale a dire che si arriva alla guerra attraverso una brusca e violenta riduzione della complessità, si trasforma cioè nella opposizione semplice: buoni e cattivi, mio e tuo, o me o te; una rivalità puramente immaginaria e speculare il cui esito, come ha insegnato Hegel, è la morte. Dei tre teoremi della teoria dei conflitti fondamentale ai miei occhi è il secondo. Esso infatti stride nel modo più assoluto con il buon senso che molte volte, troppe, si spaccia per intelligenzaformalizzazione proprio perché solo la teoria è in grado di tenere insieme un numero molto elevato di variabili. Per ragioni di economia psichica e politica, che valgono per i singoli come per le collettività, la tendenza generale è quella alla riduzione e alla semplificazione delle situazioni complesse e ciò a causa della difficoltà che si incontra nel tentativo di abbracciare con lo sguardo e con il pensiero tutte le componenti in gioco e tutte le relazioni che intercorrono fra esse. Quindi, per quanto possa apparire paradossale, tanto più alto è il numero dei conflitti, tanto più basso è il pericolo di guerra.
Ora, uno sguardo, speriamo retrospettivo, alla guerra del golfo dimostra la validità della teoria dei conflitti. Dimostra non solo la sua capacità di prevedere i fatti ‑ per questo basta leggere il testo della conferenza di Galtung ‑ ma soprattutto la sua forza euristica. Di conflitti in gioco a partire dal 2 Agosto del '90, Galtung ne elenca addirittura venti. Ne riporto qui un assaggio: c'era il conflitto fra l'Iraq e il Kuwait, quello fra gli arabi e gli israeliani, quello fra i palestinesi ed Israele, quello degli arabi fra di loro ‑ Siria, Egitto, Arabia Saudita e Iraq ‑ quello fra mussulmani e cristiani, quello fra nord e sud, quello fra Europa e Usa, quello fra gli Usa e l'Urss nonostante il disgelo e si potrebbe continuare ancora. Provate a fare la guerra per risolvere tutti questi conflitti: è impossibile. Non resta che la soluzione negoziale, lunga, faticosa, ma che evita la guerra. Che cosa è accaduto invece? È accaduto che progressivamente la gran parte dei conflitti in gioco è stata espunta dalle considerazioni dei governi, della stampa e dell'opinione pubblica: non si trattava di un conflitto fra il nord e il sud del mondo, non c'entrava la differenza di religione, non era in gioco la questione palestinese e via di seguito. Il conflitto era solo fra l'Iraq e il resto del mondo, ossia fra due, e la posta in gioco era una sola, il piccolo Kuwait ed è bastato questo per zittire quei pochi che continuavano a sostenere che la situazione era molto più complessa. Nonostante tutto quello che si è detto e scritto sulla paura della guerra, il mondo preferiva la versione semplificata del conflitto: la riduzione della complessità ha l'effetto di una catarsi, rilassa, chiede uno sforzo minimo, vale a dire di schierarsi, e prendere posizione per noi o per loro è sempre più facile che mettersi a pensare.
Vi è dunque un solo modo per evitare la guerra: tenere alto il numero dei conflitti, e resistere alla tentazione della riduzione della complessità, accettare le soluzioni di compromesso, non pretendere di risolvere tutto in una sola volta e in breve tempo. La pace non è e non sarà mai una realtà effettuale, tutta in presenza, vale a dire un mondo del tutto privo di conflitti. Al fondo della spinta alla riduzione della complessità c'è l'illusione che, se si riduce il numero dei conflitti ad uno solo e si risolve quest'unico conflitto con la forza, di conflitti non ve ne saranno più: pensare questo vuol dire soltanto che vi saranno sempre più guerre. La pace non appartiene all'orizzonte del possibile, è l'impossibile. E' un evento che, se si dà, si dà al di fuori della nostra intenzione. La pace non si costruisce: si costruisce soltanto lo spazio in cui essa può avvenire: questo spazio è lo spazio del conflitto o lo spazio della complessità. Se volete che la pace avvenga non avete che una chance: accrescere la complessità.


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