lunedì 15 agosto 2011

Due lezioni sul Barocco




Nel 1990 l’Università Federico II di Napoli in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri organizzò un seminario di studi sul Barocco. Quelli che seguono sono i testi delle due lezioni che mi furono affidate.


 1) Il Barocco come epoca di decadenza
Nell'Ursprung des deutschen Trauerspiels, rife­rendosi al Barocco, Walter Benjamin sottoponeva ad una critica serrata il concetto di decadenza storica. Che fosse applicata alla sfera dell'arte, figurativa e letteraria, o alla società nel suo complesso, la categoria storiografica della 'decadenza' non poteva mostrare che il suo carattere ideologico. Interpretando come puro azzeramento, tramonto della forma, il nuovo stile o le nuove forme di vita, una storiografia retriva s'impediva di vedere l'autonomia di ogni epoca storica, l'indice storico che le apparteneva in proprio.
Se è vero che Barocco si oppone a classicismo, come l'informe al primato della forma, lo smisurato alla misura, lo sconvolgimento del sublime alla quieta contemplazione della bellezza, non per questo Barocco può valere soltanto come il sintomo di una perdita del valore artistico o tutt'al più come un correttivo, un rinvigorimento delle forme che si siano eccessivamente rinsecchite nel rispetto dei canoni. Barocco, al contrario, è una condizione dell'arte stessa nel corso della sua vicenda, vale a dire che se, in opposizione al classicismo, la forma si deforma o, come diceva Nietzsche, ‘l'arco si spezza’, è perché essa si lascia attraversare da significati e valori che il primo o eludeva o s'illudeva di aver pacificato. Se il classicismo ripone l'ideale della volontà artistica, del suo Kunstwollen, per usare l'espressione riegliana, nell'opera d'arte isolata e conchiusa, perfetta coincidenza di forma e contenuto, interno ed esterno, ragione e desiderio, e se il Barocco, invece, si caratterizza per l'estenuante ricerca della forma per se stessa, per il rifiuto della perfezione e della compattezza, ciò non significa una diminuzione del suo volere artistico, ma una modalità diversa del suo manifestarsi. Vi sono epoche, aggiungeva Benjamin, in cui affidare ancora il destino della forma all'ideale dell'opera d'arte finita, a tutto tondo, è ritrovarsi nel fronte degli epigoni.
 Il privilegio accordato dal Barocco all'incompiutezza, al frammento, al torso, ed insieme alla sconnessione della forma, alla contaminazione dei generi (l'uso del 'pittoresco' nella scultura e nella architettura), ad una certa degenerazione della legge del genere secondo il sistema classicista delle arti, ed infine alla possibilità di un rimando infinito da frammento a frammento, costituisce la strategia adeguata perchè un sentimento nuovo della forma, come avrebbe detto Wölfflin, o la sensibilità propria delle epoche di crisi, giungano anch'essi all'espressione. La crisi, infatti, - e tale è il Barocco: un'epoca di crisi  - non è il sintomo della mera decadenza, ma lo sprigionarsi di forze, desideri e aspettative che la forma classica aveva rimosso o conciliato troppo in fretta. La crisi, pertanto, è produttiva, apre nella compattezza del presente, che si vuole sterile ripetizione di un passato canonizzato e inerte, squarci, linee di fuga, prospettive impensate ed anamorfiche che annunciano e preparano la trasformazione storica, il mutamento e l'innovazione.
A controprova di questa affermazione starebbe il fatto che la discussione sul Barocco si lega in Benjamin ad una attenzione verso le forme artistiche a lui contemporanee quali l'espressionismo e più in generale le avanguardie del primo novecento. Anch'esse sono considerate il sintomo di una decadenza di cui l'ambito dell'arte è solo una delle manifestazioni, ma che riguarda tutto l'assetto della società europea che, proprio in quegli anni, con la guerra, vede definitivamente distrutto un certo periodo della sua storia. Con ciò si mostra quanto il Barocco, come d'altronde si evinceva dalla discussione contemporanea a Benjamin, fosse stato sottratto alle maglie ristrette di una storia dell'arte in cui si limitava a denotare una precisa epoca storica (con tutti i problemi inerenti della periodizzazione, della datazione, delle appartenenze e delle esclusioni), ed avesse assunto lo statuto precipuo di una categoria a se stante dalla teoria dell'arte. Il Barocco si trasformava in un'idea estetica; e come tale diveniva un paradigma per la pensabilità e la valorizzazione di epoche e di stili assai lontani, nel passato o nel futuro, dagli usuali confini del secolo diciasettesimo. L'idea del Barocco, insomma, nella riflessione estetica del primo novecento, diviene da indicazione di un periodo della storia dell'arte una categoria propriamente storica: essa è la chiave per la comprensione delle epoche di decadenze, le epoche non classiche, che vengono in tal modo strappate al desolante nichilismo di uno storicismo inavvertito e riconosciute come espressioni forti della storia umana.



2) Leibniz: l'ontologia barocca
Il ‘Tiranno’, eroe dei Trauerspiele seicenteschi, si aggira, secondo Benjamin, nello spazio chiuso della corte; la scena barocca non rappresenta più la città, e con essa la pubblica dimensione del conflitto come accadeva nella tragedia antica, bensì la sfera privata in cui l'uomo mette a prova il suo desiderio di potenza e di gloria. In tal modo si esprimeva come tratto proprio del barocco la separazione fra l'interno e l'esterno, il privato ed il pubblico. Ciò combacia con un aspetto, messo in luce da Wölfflin, dello stile architettonico barocco, e cioè la non corrispondenza fra facciata e interni. In contrapposizione ai principi classici lo stile architettonico si sdoppia: ad una architettura degli esterni corrisponde, ma differenziandosene, un'architettura degli interni. Mentre la facciata si fa cerimoniosa, fredda e riservata, l'interno presenta uno sfarzo ricco ed inebriante.
Tuttavia l'interno, pur nel suo brusco separarsi, nel suo ritrarsi al fondo della scena, resta nondimeno in una relazione con il mondo; ma più che come espressione della felice compresenza di contenuto e forma, di materia e spirito, come un punto di vista, una prospettiva che del mondo comune isola solo una maniera d'essere, che attualizza soltanto una delle infinite modalità possibili. Il barocco, insomma, decentra e dissemina lo spazio; alla visione classica che concentra e distribuisce lo spazio secondo una prospettiva unica, sostituisce la pluralità di centri soggettivi, una dispersione di aperture sul mondo, ciascuna autonoma e indipendente dall'altra.
Nulla come la monade leibniziana sembra corrispondere meglio, sul piano del discorso filosofico, al concetto di interno quale lo elabora la sensibilità barocca. La monade, infatti, è priva di finestre, vale a dire priva di aperture da cui qualcosa possa entrare o uscire. L'affermazione leibziniana non testimonia soltanto dell'opposizione al meccanicismo cartesiano che, nonostante la tesi della dualità delle sostanze, non può evitare di attribuire al corpo la possibilità di influire sull'anima e viceversa. Indica in positivo che il mondo con il quale la monade è comunque in relazione non ha niente dell'esterno che si staglia dietro i vetri o del paesaggio incorniciato dentro un quadro, ma è il dispiegamento di quanto confuso o chiaramente percepito dimorava nello spazio interno del soggetto, essendo a sua volta il risultato non di meccanici ed estrinseci rapporti, bensì di una elaborazione originale, spontanea e irriducibile.
Se il pensiero leibniziano punta così fortemente sull'affermazione della diversità dei punti di vista, sulla pluralità delle maniere, in una parola sulla differenza, tutto ciò non vuol dire che non ponga insieme il problema della loro relazione. Ma l'armonia qui non è l'effetto di una giustapposizione, quanto di un gioco della riflessione speculare; è lo specchio, vero emblema del Barocco, a permettere i passaggi fra le monadi. Ognuna infatti riflette in sé tutte le altre, ma secondo quella piccola o grande deformazione che ogni specchio produce e che fa della monade un punto di vista irriducibile. È  come una città, chiarisce Leibniz, che, se guardata da punti differenti, sembra un'altra e come moltiplicata dalle prospettive, ma che è sempre la stessa; così in nome della molteplicità delle monadi vi sono infiniti mondi che, tuttavia, sono sempre un solo e stesso mondo.
Ma parallela all'ipotesi della monade Dio che, avendo scelto fra gli infiniti mondi possibili quello che più si approssima al criterio del meglio, ha prestabilito 'dall'alto' l'accordo fra i soggetti, scorre nel pensiero leibniziano quella di un passaggio 'dal basso'. Ogni monade, infatti, include in sè un numero infinito di eventi strutturati in serie di cui solo una parte, quella più chiara e più distinta, si dispiegherà in un tratto di mondo. Al fondo della monade rimangono, invece, sotto forma di percezioni confuse e quasi indiscernibili, serie di eventi ripiegate in se stesse che per piccoli scarti differenziali legano la monade ad ogni altra monade. Questa tesi si oppone a quella del razionalismo classico per il quale gli attributi del soggetto hanno un carattere essenziale ‑ pensiero ed estensione veri ed unici attributi della 'res'. Gli attributi, al contrario, sono eventi ‑ gli accidenti nella teoria classica ‑, e da ciò discende una conseguenza solo apparentemente paradossale: che l'unità o la semplicità della monade sia in realtà una molteplicità, vale a dire una molteplicità di eventi incapsulati o ripiegati ciascuno dentro l'altro.
Non è sufficiente, infatti, dire che la monade è vivente, che è una specie di macchina divina, infinitamente superiore ad ogni marchingegno umano; è necessario aggiungere che essa è vivente in ogni sua parte. E non solo: ogni parte è ancora piena di vivente. Secondo l'immagine leibniziana ogni parte di materia è come un giardino pieno di piante o come uno stagno brulicante di pesci; ma ogni ramo, ciascun membro dell'animale, qualunque goccia dei suoi umori, è ancora un giardino o uno stagno. Il vivente include in sé il vivente anche se in una misura piccolissima ed a noi impercettibile. Non si tratta più come nel modello classico di imbrigliare gli eventi in una tassonomia essenzialistica, bensì di pensare il mondo come un regno del possibile e del contingente la cui legge è il passaggio dalla ripiegatura al dispiegamento. Questo universo 'evenemenziale' è tenuto insieme dal principio della variazione infinita della linea curva che permette la pensabilità del passaggio e della relazione. Ciò corrisponde ancora una volta ai mutamenti di stile provocati dalla sensibilità barocca; il continuo arrotondamento degli spigoli che si accompagna al primato della linea curva, il rifiuto della forma decisa a favore di quella irrequieta e saltellante, come scrive Wölfflin, o fluttuante, presa nella variazione continua; ancora la nuova percezione della materia che da rigida e dura si trasforma in 'succosa e molle'; infine il 'pittoresco' che produce l'apparenza del movimento là dove vi sarebbe solo inerzia.
Tutti questi tratti vengono presi in carico dal pensiero leibniziano che su di essi costruisce una ontologia che a buon diritto è possibile chiamare un'ontologia barocca: un'ontologia non più di essenze, ma di eventi puri.



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