sabato 20 agosto 2011

Colonna continua 3






1)  In un libro non recente di Jacques Rancière, Ai bordi del politico (1998),  ma solo adesso tradotto in italiano (Cronopio 2011), trovo la più bella definizione della democrazia che mi sia capitato d’incontrare: la democrazia è «l’autoregolazione anarchica del molteplice tramite la decisione della maggioranza».
La definizione non  fa altro che prendere sul serio  la descrizione conservatrice e al limite del caricaturale offerta della democrazia da Platone nel libro VIII della Repubblica. L’escamotage con cui Platone può liquidare la democrazia sta, per Rancière, nello schiacciamento del concetto del demos su quello dell’ochlos (un termine che compare nel Gorgia e nel Politico e che significa massa, folla, turba, un molteplice senza principio d’ordine). Mentre l’ochlos è appunto la  turba del popolo, ossia l’infinita «turbolenza di insiemi di individui sempre diversi da se stessi che vivono nell’intermittenza del desiderio e nella lacerazione della passione», il demos è al contrario ciò che all’interno dell’ochlos introduce distanza e separatezza, il principio  che divide l’ochlos da se stesso, in termini maoisti la contraddizione in seno al popolo.  Mentre l’ochlos proprio perché incapace di autoregolarsi, è inevitabilmente attraversato da una passione dell’unità, da un desiderio di ripartizione degli oggetti del desiderio siamo essi materiali o immateriali per cui finisce per richiedere, fosse anche in una forma tirannica, un  ordine qualsiasi in cui tutti siano soddisfatti, ognuno abbia il suo posto e la sua parte, il demos invece, che non è l’insieme del popolo, ma solo una sua parte, e per la precisione quella che non verrebbe contata, che non parteciperebbe alla partizione comunque ottenuta,  quella che risulterebbe sempre in più, in eccesso ad ogni nomos, dissolve l’ordine implicito nelle richieste dell’ochlos, apre un dissidio, un disaccordo con e dentro l’ordine sociale in cui quest’ultimo si adagia.
 La scommessa della democrazia  sta tutta qui: può governarsi un insieme anarchico? Arché, come si sa, non significa soltanto l’origine, la provenienza, indica anche il principio d’ordine in base al quale si organizza e si struttura  un insieme, il suo principio di classificazione.  Stabilire quale sia l’origine significa anche imporre una graduatoria, indicare che cosa venga per prima e cosa per seconda, imporre una successione. Nell’ordine politico stabilire per esempio chi comanda, chi ha titolo a  governare e chi no. È evidente che chi non  ha titoli di sorta non  è ammesso alla partizione dei beni, alla loro fruizione. Ma in democrazia non ci sono ordinali, non c’è il primo, il secondo, il terzo e così via; in democrazia ci sono soltanto cardinali, si conta uno, due, tre, all’infinito.  Ciò significa che in democrazia chiunque ha titolo a governare,  anche i pazzi, i malati, i perversi e i poveri: in questo senso la democrazia è anarchica e l’insieme  costituito dai soggetti del potere democratico resta un insieme inconsistente, un insieme che non si conta per uno, che non è unificato, ma che è sempre diviso. Tuttavia questo insieme è capace di autogovernarsi e lo fa affidandosi al principio della maggioranza, ossia ad una conta che tuttavia non abolisce la divisione, ma appunto la conserva come il dispositivo essenziale della democrazia. Ciò  di cui bisogna avere paura in democrazia non è il potere eccessivo delle maggioranze, bensì che venga meno il potere della divisione da parte del demos, la sua  capacità di spezzare l’ochlos, di produrre disaccordo, il potere di «disfare le parti, le collezioni e gli ordini».

2)   Una precisazione importante: è vero che demos prima di essere  quello  della comunità, è  il nome di una sua parte: i poveri; «ma, chiarisce Rancière,  l’espressione i poveri non designa la parte economicamente sfavorita della popolazione, bensì semplicemente tutti quelli che non contano, che non hanno titoli per esercitare la potenza dell’arche (dare inizio all’azione, secondo il dettato della Arendt, e quindi comandare), quelli che non  hanno titoli per essere contati». Il popolo è sì il soggetto della democrazia, ma non nel senso che sarebbe la somma dei membri della comunità o la sua classe lavoratrice; «il popolo è la parte supplementare in rapporto a ogni conteggio delle parti della popolazione, che permette di identificare con il tutto della comunità il computo di coloro che non sono contati».
Con ciò si esclude qualunque lettura economicista della democrazia come potere del popolo, si rompe l’identificazione fra proletariato e povertà, una categoria religiosa e non politica, si rifiuta  che la democrazia possa essere interpretata come dispositivo di risoluzione  delle storture della società. Non si tratta di  riconoscere una rivendicazione, di far partecipare anche gli attualmente svantaggiati alla ripartizione sociale della ricchezza; si tratta di rompere la logica politica dell’arche, vale a dire del comando. La democrazia non è la panacea dei problemi sociali, ma l’esercizio della politica come divisione, come rottura della legge. Non c’è continuità fra politica e società, c’è discontinuità e conflitto:  la politica democratica è la costante rottura del legame sociale. 

3) Ogni società, ogni ordine sociale con le sue ripartizioni è un ordine poliziesco nel senso di Rancière. Polizia indica infatti non un potere più o meno repressivo ma un situazione della società in cui ciascuno abbia  il e stia al il suo posto, il posto che gli spetta in base ai titoli e alle credenziali  di cui dispone e con cui partecipa alla divisione sociale. Politica, e cioè democrazia, è la rottura di quell’ordine, la messa in discussione del principio, arché, della distribuzione delle parti. Così per Rancière non  c’è continuità fra la fratellanza come istanza politica, programma dell’eguaglianza, e la liberazione del lavoro: «emancipare i lavoratori  non significa far apparire il lavoro come principio fondatore  della nuova società (aggiungerei: come titolo per appartenervi: altrimenti è vero che chi non lavora non  mangia o non fa l’amore e falso che ciascuno darà secondo le sue capacità ma riceverà secondo i suoi bisogni), ma far uscire i lavoratori dallo stato di minorità ( che non  è una condizione sociale, ma un titolo politico-giuridico), provare che  appartengono anch’essi alla società e che comunicano con tutti all’interno di uno spazio comune; che non  sono solo esseri che hanno bisogni, recriminazioni o lamentele (che non sono ‘vittime’), ma esseri dotati di ragione e di parola, capaci di opporre ragione a ragione e di costruire la propria azione come una dimostrazione (un sillogismo o un inferenza)».
  
4) Nelle parole di Rancière sembrano  riecheggiare da un  lato le tesi leniniste  sulla necessità di lottare contro l’economicismo, lo spontaneismo, l’autonomia operaia,  per ribadire che il comunismo viene alla classe dall’esterno e solo così può spingere la classe operaia, il proletariato, a portare a  termine il compito che la posizione nel sistema capitalistico di produzione della ricchezza le assegna, di abolire tutte le classi compresa se stessa, cosa che non potrebbe fare se restasse inchiodata all’obiettivo di vedere soddisfatte le sue richieste in quanto classe; dall’altro una distinzione terminologica e concettuale che s’impose alle origini del movimento operaio (ma ciò si spiegherebbe con gli studi di Rancière sulle lotte operaie degli anni ’30 del   diciannovesimo secolo). Come ha fatto notare Eric Hobsbawm (Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità di Marx) a differenza della parola ‘comunista’ che aveva sempre significato un programma, la parola ‘socialista’ indicava invece un  tipo di persona caratterizzato  da   una particolare concezione della natura umana, persone che ritenevano ad esempio che in essa avessero una importanza fondamentale la ‘socievolezza’ o ‘gli istinti sociali’ e  che di conseguenza credevano nella necessità o nella possibilità di un  modo particolare di azione sociale, soprattutto in questioni di pubblico interesse, come l’intervento nelle operazioni del libero mercato. I socialisti sono quindi i riformatori della società, quelli che vogliono ricondurre la società ai suoi  fondamenti originari, alla sua vera e propria arche, combattendo  le deformazioni che un individualismo gretto e egoista ha provocato. Essi vogliono realizzare un ordine sociale che sia giusto perché finalmente costruito a partire dai fondamenti veri della società: altruismo, solidarietà, eguaglianza. Ma appunto essi vogliono un ordine; i comunisti al contrario vogliono la rottura dell’ordine e la destituzione del principio stesso dell’arche. Non c’è il buon assetto della società, non esiste il buon ordine. Ciò vuol dire che il demos sul piano sociale resta quell’ochlos, quella massa indistinta, individualista, preda dei desideri più sfrenati e più contraddittori, descritta da Platone,  che una politica come democrazia non deve tentare di raddrizzare o di riunificare  reprimendola, ma deve  piuttosto riuscire a spaccare evitando di assecondare la sua spontanea tendenza verso l’unità, la sua passione dell’Uno, vale a dire la sua richiesta d’ordine. Vi sarà in altri termini sempre uno iato fra la politica della democrazia come programma egualitario e la sua resa effettiva nella compagine sociale: la democrazia vive di e per questo scarto.

5) Al bel libro di Francesca Serra, Le brave ragazze non leggono romanzi, che ricostruisce il nesso fra l’emancipazione femminile e  l’invenzione  della letteratura moderna, il romanzo, andrebbe aggiunto in appendice questo passo crociano tratto dal Breviario di estetica: «Secondo un'osservazione più volte rinnovata, la letteratura moderna, cioè degli ultimi centocinquant'anni, ha l'aria, nella sua fisionomia generale, di una grande confessione, e il suo libro capostipite sono per l'appunto le Confessioni del filosofo ginevrino. Questo notato carattere di confessione designa l'abbondare in essa dei motivi personali, particolari, pratici, autobiografici, di quanto ho di sopra chiamato «sfogo », distinguendolo dalla « espressione»; e accusa una correlativa debolezza nel rapporto della verità integrale, e perciò debolezza o assenza di ciò che si suoi chiamare stile. E sebbene siano state molte volte, disputate le cagioni della parte sempre più larga che nella letteratura vengono prendendo le donne (e un autore tedesco di «Poetica », il Borinski, ha sostenuto che la società moderna, intenta alla dura lotta quotidiana degli affari e della politica, viene a loro delegando le funzioni poetiche, come già le primitive società guerresche le assegnavano alle druidesse e altrettali profetesse!), a me pare_evidente che la cagione  genuina debba riporsi nell'anzidetto carattere di «confessione», aaasunto dalla letteratura moderna. Per effetto di esso sono state spalancate le porte alle donne, esseri sommamente affettivi e pratici, che, come sogliono leggere i libri di poesia, sottolineando tutto ciò che consuona con le proprie e personali avventure e disavventure sentimentali, così si trovano sempre a grande agio quando sono invitate a vuotare le loro anime; né della mancanza di stile si danno troppo pensiero, perché, com'è stato detto argutamente: «Le style, ce n'est pas.. la femme». Le donne baccheggiano nella letteratura moderna, perché gli uomini stessi si sono, esteticamente, alquanto infemminiti; e segno d’infemminimento è la scarsezza di pudore onde sciorinano tutte le loro miserie, e quelIa frenesia della sincerità, la quale, per essere frenesia, non è sincerità, ma più o meno abile infingimento, che procura acquistarsi fede col cinismo, secondo l'esempio che offrì pel primo il Rousseau. E come gli ammalati, i gravemente ammalati, usano volentieri rimedi che, sotto specie di alleviare, aggravano il male, così, lungo il secolo decimonono, e anche ai nostri giorni, si sono seguiti molteplici tentativi di restaurare la forma e lo stile, l'impassibilità, la dignità, la serenità dell'arte, la bellezza pura; e queste cose, cercate per sé, davano nuovo indizio e prova della deficienza che si avvertiva e non però si risanava. Più virile fu l'altro tentativo di oltrepassare il romanticismo mercé il realismo e il verismo, chiedendo sussidio alle scienze naturali e all'atteggiamento che esse promuovono; ma l'esagerazione nel risalto dato al particolare in quanto tale, e alla folla dei particolari, fu non attenuata ma accresciuta in quella scuola, che era anch'essa, per derivazione e carattere, romantica. Alla stessa esagerazione vanno riportate altre ben note manifestazioni letterarie: dalla «scrittura artistica », che in Francia fu invocata e rappresentata segnatamente dai Goncourt, fino agli spasmodici sforzi del nostro Pascoli per rendere realisticamente le impressioni immediate, e che di lui fanno, in certo senso, il precursore del futurismo e della musica dei "rumori"».
Dal che si può misurare il bene che l’isterizzazione generalizzata della cultura e della società europea  iniziata   verso la fine del settecento   e  tuttora in corso abbia prodotto ai fini dell’emancipazione umana.

Postilla: il verbo ‘baccheggiare’ vuol dire ‘far tripudio come le baccanti’ e quindi ‘folleggiare, far baldoria’ (Devoto-Oli).
   

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