domenica 25 luglio 2010

Una discussione sulla plebe e sul marxismo-leninismo

Come hanno dimostrato, almeno per me, le nostre ultime discussioni, la posta in gioco non è la plebe in quanto tale, ma da un lato il rapporto che per ognuno di noi la tradizione marxista-comunista cui in modo diverso ci sentiamo di appartenere intrattiene con quel che Peppe chiama giustamente “i francesi”, Foucault soprattutto, ma anche Deleuze, Derrida, Lacan, Blanchot e da ultimo Badiou, e dall’altro, problema più rilevante ancora e forse, se non governato, potenzialmente disgregante, la questione dell’esistenza di più marxismi, di più modi di interpretare e praticare il marxismo (come insegna la decostruzione, di interpretazioni, di letture, di tagli di qualunque cosa, ce n’è sempre uno in più, uno in più che rimette tutto in gioco, che costringe a ricominciare sempre da capo, a fare i conti con il ritorno di ciò che credevamo definitivamente morto, superato).

Per questo penso che per andare avanti sia necessario chiarire questi due punti: almeno questo è il contributo che in questo momento mi sembra importante offrire alla discussione. Non si tratta infatti, come diceva Peppe nella prosecuzione fuori stanza della nostra discussione di giovedì scorso, presente il solo Maurizio, di avere ancora simpatia per il Moro – il Moro, essendo per chi non lo ricordasse, Marx – come se ci fosse tra di noi qualcuno che non ne avesse, ma di sapere per quale declinazione del Moro si prova simpatia, a quale Marx ci si riferisce.
E allora voglio essere dall’inizio molto chiaro, perché solo così potremo poi continuare a lavorare insieme: se si indicano subito e in modo netto le differenze la possibilità di un lavoro comune ci guadagna. Quindi: il “marxismo” di Peppe non è il mio. Quella declinazione della storia del movimento operaio e quindi dell’interpretazione di Marx che si chiama operaismo non è la mia, non mi appartiene. Con Lenin credo che l’operaismo, anche chiamato spontaneismo, movimentismo, economicismo, sia soltanto la malattia infantile del comunismo, sia insomma una variante dell’estremismo. Peppe lo ha detto benissimo l’ultima volta: i caposaldi della teoria operaista sono i concetti di processo sociale e di antagonismo. L’ultima parola spetta sempre al processo sociale di produzione e all’antagonismo che lo caratterizza: nel caso del capitalismo quello fra capitale e lavoro salariato. Vale a dire che il processo sociale capitalistico non è altro che la lotta fra il capitale che cerca di porre sotto il suo comando – sussunzione formale e/o materiale del lavoro al capitale – il lavoro e quest’ultimo che cerca di sfuggirgli attraverso atti continui di insubordinazione. Da qui due corollari: 1) l’antagonismo operaio è immediatamente rivoluzionario, la lotta contro il comando capitalistico si trasforma senza soluzione di continuità in soggettività rivoluzionaria, vale a dire è già di fatto l’embrione, se non la realizzazione compiuta, di un nuovo modo di produzione, di una nuova forma di società; 2) le trasformazioni del capitale – prima fra tutte il passaggio dalla produzione assoluta di plusvalore a quella relativa con la conseguente invenzione della fabbrica fordista - sono in realtà vittorie della lotta del lavoro salariato, atti difensivi del capitale incalzato dalle lotte operaie.
Io non solo amo poco il Marx giovanile, ma amo ancor meno il Marx della cosiddetta concezione materialistica della storia, il Marx più facilmente leggibile, come ancora una volta ha detto benissimo Peppe, in chiave ‘storicista’. Il mio Marx, il mio Moro ( l’incontro con il quale era infine quasi comandato dal mio nome) è un Marx strutturalista, un Marx scienziato del capitale; e lo è fin dai tempi della tesi di laurea, dedicata non a caso a Karl Korsch, buon esempio della conversione di un teorico marxista dalla dialettica alla scienza, e quindi dai tempi della scoperta della politica rivoluzionaria nel movimento studentesco. Per me viene prima la struttura e poi la storia; l’unica storia del capitale come struttura è la sua preistoria, vale a dire l’accumulazione primitiva. La preistoria è parte della struttura, è la sua proiezione sul piano, cioè sulla dimensione orizzontale del processo. Da Benjamin ho appreso che ogni struttura, ogni configurazione ideale (l’idea in Benjamin è ciò che qui chiamo struttura) si articola o si distende in storia e preistoria.
Il processo sociale non è quindi per me il punto di partenza: la società e il suo antagonismo non sono per me la premessa generale da cui si spiega quel particolare antagonismo che è l’antagonismo del capitalismo, ma è un prodotto del capitale. La società, il rapporto sociale come noi lo conosciamo e ne parliamo, è il risultato del capitale dal momento che solo per il capitale la produzione viene interamente mediata dalla relazione sociale. Prima del capitale non c’è società in senso stretto, c’è rapporto diretto alla terra nella forma della proprietà e della servitù. Questo rapporto non è mediato dalla relazione sociale; e per quel poco che lo è, non è tale da autonominizzare fino in fondo l’elemento propriamente sociale nei confronti della terra e dello strumento. Bisognava passare alla produzione industriale generalizzata e alla contemporanea sussunzione del lavoro sotto il capitale perché anche la terra cessasse di essere un dato della natura e si trasformasse in un prodotto sociale; stessa cosa vale per l’ambito della cura in generale, vale a dire dei servizi, che negli ultimi decenni sono passati dalla sfera feudale del vassallaggio, cui non è estraneo ovviamente il motivo dell’amore del prossimo e della solidarietà, a quella del primato del valore di scambio.
Insomma il processo sociale non è niente di più di un feticcio. Se questo è vero cade del tutto il concetto dell’antagonismo e la sua coloritura soggettiva. Colto da un punto di vista strutturale, il capitale non è caratterizzato da un antagonismo soggettivo, quanto da una contraddizione oggettiva e l’antagonismo di cui parla la tradizione operaista assomiglia di più alla contrarietà kantiana che, così come si dà, si risolve sempre in compromessi: bianco e nero danno il grigio, non l’indecidibilità fra colore e non colore. In altri termini l’antagonismo fra lavoro e capitale finisce sempre in una qualche soluzione intermedia la quale, come il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda che si sia ottimisti o pessimisti contiene in realtà sempre la stessa quantità di vino, così, per quanto capitale e lavoro possano contendersela rispettivamente come una propria vittoria e una sconfitta altrui, si risolve alla fine nella riaffermazione dei rapporti sociali capitalistici. La contraddizione invece non solo non è soggettiva ma oggettiva, ma di più non è fra lavoro e capitale, almeno non nel senso che si risolva nella sola questione del comando: la contraddizione sta nel fatto che allo stesso tempo e sotto lo stesso riguardo il capitale non può non produrre plus-valore attraverso l’acquisto di merce forza-lavoro secondo il suo valore di scambio e che la produzione di plus-valore non può non abbassare tendenzialmente il suo saggio di profitto, fino al punto da impedirne letteralmente l’esistenza. Più valore si produce – attraverso l’estensione della forma merce, cioè del valore di scambio, a tutti i campi della vita e di conseguenza a tutte le forme del lavoro – più il capitale come forma dei rapporti sociali fondato sulla produzione e sul reivestimento produttivo di plus-valore è a rischio.
Il problema è che questa contraddizione è oggettiva, appartiene alla struttura, ma di per sé non implica necessariamente alcuna lotta rivoluzionaria, alcun passaggio ad una nuova forma di società, alcuna soggettivazione. La struttura senza un intervento dall’esterno sarà sempre in grado di aggiustare, differire, rinviare, il momento in cui la contraddizione si troverà acuita al punto tale da far trapassare il capitalismo in altro. E si potrebbe dire che una riduzione sistematica della contraddizione in antagonismo fa parte, se non ne è lo strumento principale, di quell’armamentario con cui la struttura capitalistica mette requie alla sua contraddizione, rinviandone sine die l’esplosione definitiva.
L’importanza di Lenin sta per me in questo: Lenin ha capito contro la socialdemocrazia da un lato ma anche contro lo spontaneismo economicista dall’altro che il comunismo viene alla classe dall’esterno. O in altri termini, termini moderni e decostruzionistici: il comunismo viene alla classe dall’altro, è dell’altro. La classe operaia, cioè chi, sussunto materialmente sotto il comando capitalistico, produce plus-valore o valore tout court, del comunismo non sa niente, né vuole saperne niente. Vive il sintomo, ma sceglie di guarire attraverso la lotta, l’antagonismo (versione di sinistra della guarigione attraverso l’amore: ma cosa sono la solidarietà o la cooperazione sociale o l’innata simpatia dell’uomo per l’uomo se non altri nomi dell’amore?). Si batte per migliorare le sue condizioni di esistenza, per avere un salario migliore, una casa pià grande etc. Per ottenerlo può fondare un sindacato, aderire a un partito, oppure distruggere le macchine, incendiare un cassonetto dell’immondizia o un’ automobile, può fare scioperi selvaggi o ordinati, concertare con il governo e/o le controparti o rumoreggiare nelle piazze: ma tutto questo con il comunismo non ha nessun rapporto. Tutto questo fa parte appunto del processo sociale antagonista, ma non guarda in nessun caso verso il comunismo.
Il comunismo viene dall’altro, arriva, se arriva, dall’esterno del processo sociale, s’iscrive negli interstizi del corso della storia: appartiene al fuori. È pensiero del fuori. E sono decisive entrambe le determinazioni: il comunismo è il fuori/fuori ed è pensiero. Lenin lo diceva in questo modo: il comunismo è il prodotto della pratica pensante, cioè teorica, di Marx e Engels ( e Engels a sua volta: il comunismo è il prodotto dell’idealismo filosofico tedesco, dell’economia politica classica e del socialismo utopistico), non è il risultato spontaneo della lotta operaia contro il capitale. Di piu: è il risultato della pratica millenaria del pensiero umano in lotta per l’emancipazione. Da qui il ruolo degli intellettuali inevitabilmente borghesi ma in grado di tradire la propria classe di provenienza per diventare dei teorici della rivoluzione comunista; da qui anche la necessità che il politico comunista sia allo stesso tempo un teorico, sia in grado cioè di operare sul fronte della lotta teorica, comprendendo che questa lotta è decisiva quanto quella direttamente politica. Quel che resta per me del partito leninista non è allora la paccottiglia del gruppo ristretto di militanti dediti alla clandestinità e al segreto: la retorica del rivoluzionario di professione. Tutto questo appartiene alla necessità di operare in stati autoritari, repressivi e polizieschi molto distanti dai nostri stati ‘democratici’ e mediatici. Ciò che conta è che il partito è un luogo della teoria a partire dal quale può avvenire la soggettivazione della classe: un luogo appunto esterno alla classe, un luogo altro.
Sembrerà ai limiti della blasfemia, ma se debbo immaginarmi il dispositivo-partito lo immagino esattamente come quello di un setting analitico: da un lato c’è il processo storico-sociale che racconta le sue lotte, i suoi momenti di disperazione, quelli più rari di felicità, le sue speranze, i suoi amori e i suoi odi; e dall’altro l’analista che ascolta distrattamente tutto questo raccontare, conscio che abbandonata a se stesso questa causerie non potrà che andare a vuoto o che i processi storici, non dissimili in questo da quelli biologici, se ne vanno sempre in merda. Ma quando gli sembra di sentire il sintomo, cioè la contraddizione, la caduta, lo scacco, allora si risveglia e produce un atto che in analisi si chiama interpretazione e in politica ‘parola d’ordine’ col quale scandisce e scardina il continuo della storia, e così facendo lo riorenta e ne dispone i pezzi, le estasi, secondo un’altra direzione: introduce di forza e con un colpo di forza il comunismo nella storia. Perché è bene dirselo: la storia così com’è non porta a niente. Come diceva Ingeborg Bachmann la storia ci può solo approntare un sepolcro da cui non c’è resurrezione.
Se non è, oggi perlomeno, il gruppuscolo dei rivoluzionari di professioni, il partito non è nemmeno il partito-massa, il partito welfarista, rubrica sotto la quale metto tutte le forme di socialdemocrazia ma anche molta sinistra una volta massimalista, oggi radicale o antagonista, e meno che mai quello ‘democratico’: ma non perché sarebbero i ‘nemici’, ma perché sono parte, e non un ‘a parte’, del processo sociale, del continuo storico, delle lotte delle masse e via di seguito. Perché non sono - altro. Il partito è un’avanguardia. Il che non vuol dire che si trova già alla fine della storia, almeno di quella capitalistica, ma che è un passo avanti rispetto alla storia, che è altro dalla storia, che è contro la storia.
Arrivati a questo punto non voglio sfuggire alla domanda: ma allora che cos’è per te il comunismo? Poiché sempre durante la discussione fuori stanza mi è arrivata l’accusa di essere uno che eternizza il rapporto sociale capitalistico solo perché respingevo la tesi di Peppe secondo la quale ogni antagonismo è in linea di principio buono se è contro il capitale e mi dichiaravo a favore della concorrenza e del mercato, lo dirò anche questa volta senza scorciatoie: il comunismo è il capitalismo condotto oltre il suo limite. Il comunismo passa attraverso la generalizzazione del valore di scambio e la trasformazione che ne deriva di tutte le forme di vita. Non c’è terza via. Un problema diverso è se culture non europee e non occidentali possano incrociare la modernizzazione senza dover passare per le forme della storia occidentale. Ma per il comunismo per come lo ha pensato Marx, cioè per il comunismo moderno, per un comunismo che non sia più soltanto un sogno o non debba ricorrere al lavoro coatto e ai diktat pseudomorali come è accaduto per lo stalinismo, non ci sono alternative: il capitalismo, cioè la produzione di plus-valore o di valore in quanto tale, è la sua condizione. Il che non significa – lo ha mostrato Lenin - che non si possano saltare le tappe o che la direzione del processo non possa essere assunta dalla classe: su questo punto non c’è nessun determinismo. Ma significa che una politica comunista consiste solo in questo: nello spingere il capitalismo a compiere quel passaggio al limite che lo rende obsoleto, vale a dire a illimitarsi. O ancora: il comunismo è il capitalismo senza limiti, ossia senza più quei limiti – la proprietà privata o statuale ad esempio, i paletti morali e esistenziali, i diritti acquisiti e le gerarchie sociali – che impediscono la fruizione generalizzata, compreso lo spreco e la distruzione, della ricchezza prodotta e accumulata. Solo questa prospettiva, difficile me ne rendo conto, ai limiti dell’impossibile, evita però le ricadute welfariste, le soluzioni pauperistiche, le derive da comunismo primitivo, ossia il ritorno a strutture sociali olistiche in cui la cooperazione implica e richiede la sottomissione di tutti al legame sociale.
Se questo è il mio Marx, se di questa pasta è fatta la mia simpatia per il Moro, è facile vedere come il rapporto con i ‘francesi’ sia stato per me quasi naturale: almeno se ci si riferisce a Lacan, a Derrida, a Blanchot. Per quanto riguarda Lacan provo semplicemente a proseguire sulla via inaugurata da Althusser. E per gli altri due bastano la questione dell’altro e il tema dell’impersonale a farmi fare i salti acrobatici fra i loro dispositivi di pensiero e quelli di Marx: senza tener conto degli spettri, dei comitati rivoluzionari durante il ’68 e di tante altre cose.
Differente è il caso di Foucault e di Deleuze. Intanto va detto, anche in questo caso con chiarezza, che la maggior parte dei ‘francesi’, tranne forse Badiou ma certamente Foucault, è caratterizzata dall’anticomunismo – il che spiega la diffidenza di Peppe. Anticomunismo che è soprattutto antistalinismo, ma che in presenza di un PCF che più asfittico e minoritario non avrebbe potuto essere, ha finito per mettere in discussione l’intera tradizione marxista-leninista. Il che però unito alla persistenza di forti tradizioni trotskijste e di un’autonomia del ceto intellettuale sconosciuta dalle nostre parti, ha permesso l’elaborazione di una serie di temi teorici assenti nella tradizione marxista ma fondamentali per continuare a pensare con Marx e oltre Marx. Per converso la presenza in Italia di un partito comunista sostanzialmente non stalinista dal punto di vista culturale – il partito nuovo di Togliatti erede del pensiero di Gramsci e in tal modo dello storicismo italiano – se ha consentito un clima più disteso al proprio interno e nei rapporti col fuori, ha finito per intristire il dibattito teorico che infatti si è rianimato soltanto negli anni prima e dopo il sessantotto ad opera di gruppi extra-partito per poi immiserirsi definitivamente a partire dagli anni ottanta. D’altronde, per avere un’idea dello sfacelo, basti pensare al fatto che uno dei brividi teorici più grandi proveniente dalle fila del partito comunista rispondeva al nome di Nicola Badaloni.
Ora Foucault è colui che nella direzione di una demolizione dell’eredità – fatta anche di molta paccottiglia – della tradizione marxista-leninista si è spinto più avanti di ogni altro. Tutta la sua analisi genealogica delle forme del potere è condotta contro i caposaldi della politica rivoluzionaria marxista-leninista: niente più sovranità centralizzata, ma dispersione, niente più repressione ma disciplinamento, quindi nessuna presa del palazzo d’inverno ma attivazione di strategie di resistenza non solo diffuse ma soprattutto non riunificabili. Abolizione della distinzione fra struttura e sovrastruttura e del concetto d’ideologia. Al loro posto gli archivi, i dispositivi e gli ordini del discorso. Decentralizzazione del ruolo dell’economia come motore rivoluzionario – si pensi al ‘granchio’ di Foucault sulla rivoluzione iraniana come rivoluzione spirituale. Centralità della follia, della sessualità: tutta roba borghese a sentir Lukacs.
Ma soprattutto conta in Foucault la scoperta decisiva del governo della vita e del concetto di popolazione, delle guerre razziste e del ruolo della biologia e della genetica: insomma l’intreccio fra politica e vita il cui livello di intellegibilità era rimasto in Marx – e non poteva essere altrimenti - quello tematizzato dalla filosofia di Hegel. Detto questo, è accaduta però secondo me una cosa strana: una certa interpretazione di Foucault tuttta centrata sulle lotte di resistenza – dei folli, dei carcerati, dei malati, e infine dei viventi tout court contro il disciplinamento e il governo della vita – ha finito, a fronte della crisi della politica comunista susseguente alla fine dell’Unione Sovietica, per saldarsi con l’antagonosmo sociale contro la globalizzazione capitalistica. Saldatura secondo me impossibile perché come si è visto dalla discussione fra Pierandrea e Peppe a proposito della plebe, alla fine il concetto foucaltiano di popolazione va in rotta di collisione con quello operaista di lavoro post-fordista.
Su Foucault mi fermo qui perché confesso di non avere le idee chiare su come si possa coniugare la posizione di Foucault che d’altronde considero per molti aspetti irrinunciabile con quel marxismo cui prima mi sono riferito. Mi premeva far vedere che mole di problemi si nascondesse dietro una apparentemente semplice discussione sulla plebe. Su cui non ripeterò le cose che si trovano nel libro, anche perché mi interessa di più andare avanti. E andare avanti, al punto in cui era giunta la nostra discussione, consisteva per me nel chiarire le cose che ho provato ad articolare fino a ora.
Per il momento basta. A lunedì, Bruno

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