domenica 25 luglio 2010

Un contributo alla discussione sul lavoro immateriale

Citando Deleuze, durante l’ultimo nostro incontro, ho generato confusione, facendo credere in una mia adesione alle sue tesi generali sulla immediata e spontanea creatività della vita che non potevano che apparire contraddittorie con tutto quello che avevo sostenuto fino a quel momento contro la nozione di reddito di esistenza e/o di cittadinanza. Chiedo venia e provo a chiarire. In realtà non intendevo convocare il pensiero di Deleuze ma, attraverso Deleuze, la logica stoica. A differenza di quella aristotelica che è una logica delle proposizioni e quindi degli stati di fatto che le proposizioni enunciano (do per scontato che le proposizioni che contano per Aristotele siano quelle dichiarative, affermative e/o negative, universali e/o particolari), quella stoica è una logica dell’evento, dunque non di ciò che è, ma di ciò che avviene.
Ora è proprio perché vuole essere una logica dell’evento che la logica stoica si pone la questione di come esso venga prodotto. Gli stati di fatto sono là, li si può solo protocollare, le sostanze stanno, non avvengono, forse si trasformano ma secondo cause e principi tutti già razionalizzati. Gli eventi invece vengono prodotti, la loro ‘origine’ è casuale, dipende da un incontro, e questo incontro è materiale, è la condizione o il vincolo materiale perché gli eventi si diano. Da qui l’esempio [che è di Bréhier (La théorie des incorporels dans l’ancien stöicisme) e non riguarda forbici e carta ma scalpello e carne (Deleuze, Logica del senso, ed. Feltrinelli, p.13 , “Effetti di superficie”)]: l’incontro fra due corpi – scalpello e carne – produce l’essere tagliato. Ora l’esser tagliato non preesisteva all’incontro dello scalpello e della carne, anche se questo incontro corporeo – l’incontro, il clinamen, è il concetto specifico di ogni materialismo – rappresenta la condizione materiale di quell’effetto di superficie – quindi non profondo, non originario, non primo – che è l’esser tagliato. Deleuze sulla scia di Bréhier non lo chiama immateriale, bensì incorporeo e anche ideale, ma credo che lo possiamo chiamare immateriale senza problemi. L’interesse della logica stoica sta nel fatto che essa come ogni dispositivo materialistico parte dai corpi e dai loro incontri o mescolanze, ma poi da questi incontri corporei trae degli effetti incorporei, cioè gli attributi logici e dialettici che appunto non indicano stati di cose ma azioni. In base alla logica stoica per esempio gli enunciati heideggeriani che tanto fanno ridere i filosofi di professione tipo “il mondo mondeggia” sono in realtà perfettamente sensati. Il mondo è certamente una mescolanza di corpi, ma l’effetto di questa mescolanza è l’essere mondo del mondo che non è un ente semplicemente presente, ma un rapporto, un essere-a, appunto un essere-al-mondo. Non si è mondo, ma dal momento che si è al mondo o si è al modo dell’essere-al-mondo, si diviene mondo, noi tutti mondeggiamo in rapporto ad un mondo che mondeggia.
Provo a fare qualche salto: la logica stoica potrebbe rappresentare la logica stessa di un modo di produzione. Avremmo da un lato delle forze produttive e dall’altro dei rapporti di produzione: l’incontro casuale delle forze produttive, un certo mescolarsi di corpi fra di loro – corpi viventi e corpi macchina ad esempio – darebbe luogo a dei rapporti di produzione, cioè a delle relazioni, a dei modi d’essere come essere-a, essere-in-rapporto, etc. Da qui la mia affermazione secondo la quale la produzione materiale è sempre produzione di immateriale e questo anche quando si limita – o sembra che si limiti – a produrre oggetti. Già da adesso si potrebbe dire che se produco scarpe, le produco in vista del mio essere-al-mondo – se sono un contadino in vista del mio rapporto alla terra o al mio padrone e se sono un calzolaio in vista del mercato, cioè del rapporto ad altri mediato dallo scambio. Comunque in un rapporto al mondo. Producendo scarpe, cioè corpi, produco immaterialità, cioè azioni e rapporti.
Faccio un altro salto: la logica stoica come logica dei modi di produzione sembra riguardare in un modo quasi perfetto il modo di produzione capitalistico (e forse questa è una delle ragioni per cui Deleuze la rispolvera andandola a pescare nel cassetto degli attrezzi della filosofia). I modi di produzione antico e quello feudale si ritrovano, una volta che il concetto e le procedure per produrlo siano state elaborate, più facilmente in una logica aristotelica come logica delle sostanze e delle corrispondenti proposizioni che in una logica degli eventi e dei giudizi di inferenza (sarebbe interessante saperne di più sulle basi sociali della logica stoica): in essi il corpo vivente è come placcato sul corpo della terra, il loro incontro è subito una identità, vale a dire una servitù, e anche l’invenzione dello strumento non riesce a emancipare il corpo dalla terra e/o dalla sua natura sostanziale. I rapporti quindi invece di essere colti come effetti di superficie sono pensati come più sostanziali ancora dei corpi singoli, sono ordini identitari e immutabili. C’è un ordine cosmico retto da intelligenze astrali o identificato con il grande animale vivente.
Il modo di produzione capitalistico rompe con questo modello e mentre isola i corpi singolari rispetto al corpo della terra permette allo stesso tempo l’autonomizzazione degli attributi immateriali. Il capitalismo è cioè quel modo di produzione che permette di isolare la produzione in quanto tale come produzione di immateriale dovuta all’incontro di corpi singoli. In altri termini il capitalismo distilla il reale della produzione, il vincolo materiale, che non dipende da una presunta creatività naturale della vita, dalla sua fertilità avrebbe detto la Arendt, ma dall’incontro innaturale dei corpi, e soprattutto dal fatto che, emancipato dalla terra, anche quel che chiamiamo corpo vivente si rivela in realtà un corpo macchina: la produzione è sempre un incontro di macchine con macchine (accanto alla logica stoica qui si dovrebbe allegare Bentham e l’intera teoria delle finzioni – l’ambito dell’immateriale - , altro grande momento, non per Deleuze che privilegia Hume, ma per Lacan, di comprensione del capitalismo).
Il capitalismo come si sa è produzione di merci mediante merci, cioè attraverso e a causa di merci: questa frase ha senso ad una sola condizione, che la merce mediante la quale si producono merci sia la merce forza-lavoro. Come scrive Marx nella Critica del programma di Gotha, il lavoro, il lavoro sans phrase, «non è la fonte di ogni ricchezza», dal momento che la fonte della ricchezza è, dice Marx con un espressione ambigua come molte altre che usa, la natura (e cos’è la natura? se il termine non indica altro che gli atomi e il clinamen allora va bene, ma ne siamo sicuri?). Il lavoro diventa produttivo solo se entra in determinati rapporti, nel caso del capitalismo se diventa merce. La domanda è tutta qui: che diventa il lavoro quando diventa merce? Qui ci possono soccorrere le distinzioni concettuali della Arendt – e anche in questo caso non intendo convocare tutto il pensiero della Arendt, ma solo la tripartizione delle forme dell’agire. Come è noto la Arendt distingue fra il lavoro, l’opera e l’azione propriamente detta. Il lavoro è legato ai cicli della produzione e riproduzione biologica, appartiene al regno della necessità, è necessariamente coatto e servile, è sempre pena e fatica. È normale quindi che gli uomini obbligati al lavoro e soprattutto obbligati ad un lavoro che esonera altri dalla partecipazione comunitaria a questo munus, sognino l’età dell’oro, il paradiso terrestre, luoghi e tempi in cui la natura elargiva gratuitamente ogni bene e sostanza. E se in questo sogno c’è l’origine del comunismo – non portare in comune il peso ma togliercelo dalle spalle attraverso l’essere-comune -, dobbiamo dircelo che questo comunismo non è altro che sogno, e non diventerà mai effettuale. Come direbbe Benjamin il capitalismo ci ha svegliati da questo sogno o il sogno del capitalismo è sempre a un passo dal risveglio, è il sogno che si fa al mattino presto prima di svegliarci e che ci spinge al risveglio.
L’opera invece appartiene al regno della fabbricazione degli oggetti, all’ambito della poiesis, rinvia al lavoro artigiano: in questo caso il fare si aliena ma positivamente in oggetti che hanno una vita propria indipendente da quella di chi li ha fabbricati. Questo è il lavoro che si oggettiva, il lavoro come espressione delle abilità e delle capacità del soggetto. Il lavoro che nobilita. Gli oggetti fabbricati dal fare umano vengono ad arredare il mondo, non servono alla riproduzione immediata, ma già rappresentano un lusso, un di più. Tuttavia già da subito essi servono anche alla soddisfazione di bisogni e quindi il fare sconfina nel lavoro come pena. Il fare artigiano si sdoppia immediatamente fra l’uti e il frui, fra l’utilità che abbassa il fare al livello della produzione dei mezzi di sussistenza e il frui che lo eleva alla contemplazione disinteressata: da Agostino ad Heidegger c’è tutta la filosofia dell’arte elaborata dall’occidente.
Infine l’azione, la praxis. Totalmente staccata dalle miserie della riproduzione biologica, non interessata a produrre oggetti, la praxis è – impossibile non usare categorie heideggeriane – quella dimensione esistenziale che apre il mondo come relazione fra plurali, che fa letteralmente mondeggiare il mondo. La praxis è la relazione che istituisce i termini fra i quali si avranno le relazioni. La praxis è la produzione dell’immateriale alla superficie del mondo o che tratta il mondo come una superficie. Il limite della Arendt non sta nel valore di queste distinzioni che continua a sembrarmi altissimo, ma nel fatto che, non capendo nulla di Marx, come d’altronde il suo maestro, le usa malissimo. Intanto perché le continua a tenere separate, anzi rimprovera Marx di averle confuse, di avere confuso ad esempio il lavoro e l’opera attribuendo alla fabbricazione degli oggetti lo stesso compito del lavoro e finendo quindi nell’esaltazione acritica del principio di utilità (cioè uti senza frui), principio che si annulla da solo per il fatto di non poter rispondere alla domanda su quale sia l’utilità dello stesso principio di utilità – mi chiedo quanta critica del principio dell’utilità anche quando si dichiara comunista e marxista non sia in realtà debitrice della Arendt. La Arendt vorrebbe isolare di nuovo l’immateriale – quel che lei chiama ‘politica’ – dal vincolo materiale della produzione, dal clinamen dei corpi, ha in odio l’economia come accumulo violento delle risorse naturali, riproduzione dei corpi e anche, vivaddio, spreco suntuario, dilapidazione gioiosa e tragica insieme, eccesso del godimento.
A me sembra che invece in Marx i tre livelli dell’agire finalmente si unifichino e si unifichino proprio per merito del capitale come produzione di merci mediante merci: la merce è valore d’uso, cioè è un oggetto che risponde ad una utilità e fra le utilità anche a quella della riproduzione biologica, ma è insieme valore di scambio, cioè relazione, immaterialità. La merce è un allotropo sensibile-sovrasensibile, ha appunto lo statuto del feticcio, un oggetto che non ha nessuna utilità dal momento che sta al posto di un oggetto che non c’è, e che per questo istituisce una relazione all’altro. Il feticcio presuppone due cose per me fondamentali: si pone contro la riproduzione biologica – serve infatti a evitare il coito – e fa letteralmente mancare il corpo della madre-terra, lo escava. Come surrogato della mancanza esso attesta comunque che il corpo della madre-terra manca. Il corpo singolare è emancipato da quello della terra e a partire da questa emancipazione può riconoscersi come il produttore dell’immateriale, cioè dei rapporti. Ciò è appunto reso possibile dal fatto che, essendo la produzione di merci nel capitalismo ottenuta mediante la merce forza-lavoro, gli oggetti-merce sono letteralmente attraversati dagli attributi logici e sono di conseguenza in se stessi relazioni, portano in se stessi il principio relazionale che li rende capaci di istituire relazioni. Negli oggetti-merce come in uno specchio si riflettono i rapporti di produzione. Solo che riflettendovisi si invertono anche: l’immateriale sembra di nuovo materializzato. Invece di cogliere il livello materiale come il vincolo della produzione dell’immateriale, si tenta di placcare di nuovo l‘immateriale sulla materialità dei corpi. Tradizione delle forme del dominio dura a morire.
Letture attuali come quella di Antonio Negri o come quella di Paolo Virno, pur nella loro differenza, mi sembrano accomunate da quella che si può chiamare la sindrome arendtiana, e cioè il tentativo di isolare di nuovo l’immateriale dal vincolo materiale. E tutta la tesi del capitalismo cognitivo mi appare debitrice di queste posizioni. Finalmente, sembrano dire, i vincoli materiali, ossia i vincoli corporei, impersonali, innaturali, macchinici, sono spariti, e si assiste allo sviluppo esponenziale della potenza dell’immateriale, dell’intelletto attivo, del general intellect. L’uomo è entrato nell’età dell’oro, ma i potenti e i cattivi ne impediscono ancora l’uso – uti e frui insieme – totale. Non c’è più passività, pazienza, corpo, c’è solo praxis. E vita, vita come praxis. E la vita come desiderio di morte, come eccesso del godimento, come ebrezza, come sacro, come voglia di artificialità, come feticcio? E la vita fattizia? Da abolire come vita falsa. Tutta la grandezza umana scomparsa.
Alla nostra domanda sulla natura del lavoro e delle sue trasformazioni nel cosiddetto postfordismo risponderei così: il lavoro capitalistico non è cambiato, non si è trasformato da poiesis che era, con venature di lavoro tout court, in praxis. Il lavoro capitalistico è e resta merce forza-lavoro, corpo merce che s’incontra con altri corpi-macchina e solo per questo produce immaterialità. Insomma non è perché il lavoro è diventato immateriale che il capitalismo è diventato postfordista, ma è perché sempre di più l’immateriale in tutte le sue forme si riconosce come il prodotto della estensione del valore di scambio – le sfere della cura, cioè della produzione immateriale, sono state assunte-sussunte sotto il capitale, sono divenute merci prodotte mediante merce – che il capitale ha abbandonato la sua veste fordista.
In altri termini l’emancipazione dell’immateriale passa attraverso la merce, non fuori di essa. A meno che il fuori della merce non sia un’ebrezza tale da rompere la forma del feticcio. Ma quelli che lo fanno sono i santi e i folli: gli volete dare il reddito di cittadinanza e/o di esistenza? Ma essi non vogliono vivere. Piuttosto consumarsi. Nei miei sogni più sfrenati immagino la classe – e non il popolo o la plebe – abbandonarsi ad un potlach senza alcuna possibilità di restituzione. Portare insieme il peso dell’esistere, questo desiderio di disastro.

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