mercoledì 28 luglio 2010

Dialogando con Alberto Abruzzese su Avatar. Vedi A. Abruzzese, Un mondo senza racconti e senza miti, in Filosofie di Avatar, Mimesis, Milano 2010

Caro Alberto,
Ho finalmente visto Avatar anche se non in 3d. Più che benjaminiano questo film a me sembra deleuziano (almeno per come alcuni leggono attualmente Deleuze, vale a dire come un vitalista) cioè rizomatico: la rete dove si realizza la vita virtuale, la vita dell’avatar, è senza mediazioni la rete della vita che scorre lungo le radici degli alberi della foresta di Pandora.
Certo accanto a questa idea se ne aggiungono altre più francofortesi: per esempio la vicinanza quasi assoluta di arcaico e avvenire o la possibilità di rovesciare come un guanto la vita falsa in quella vera come se a dividerle fosse una pellicola sottile e il passaggio dall’una all’altra comportasse degli spostamenti minimi o quasi impercettibili. Insomma e come sempre basta eliminare in un duello all’ultimo sangue il cattivo gestore della tecnica perché quest’ultima ci faccia entrare nel paradiso alla velocità del fulmine. E ancora: in omaggio all’ideologia ecologica il film riprende anche la vecchia idea – sta già in Platone – secondo la quale la terra è un grande animale vivente e non un corpo materiale rotolante nello spazio destinato a diventare freddo e vuoto non appena la sua stella si sarà spenta. L’esaltazione della tecnica, vale a dire delle protesi, è manifesta nel fatto che l’eroe come quelli dei fumetti Marvel è handicappato e solo nel suo doppio virtuale riacquista l’uso delle gambe: l’incarnazione virtuale dell’avatar è più vitale dell’ uomo in carne e ossa. Oppure l’uomo è solo il cervello, emisfero destro e sinistro, e l’avatar il suo vero corpo. Una commistione totale e senza resti fra carne e fantasma: d’altronde però la carne - sarx , sarcoma – è già cadavere e quindi già spettro.
Non so se il modello sia quello cristologico., certamente è sacrificale – perché Pandora possa vincere un buono deve morire, la scienziata dalla parte degli umani e e il padre da quella degli abitanti di Pandora. Forse è il cristo buddista cui pensava Nietzsche.
Dopo i primi venti minuti ho pensato che ci trovavamo di fronte ad una abituale operazione hollywoodiana e cioè il fatto che il luogo che ha consacrato l’incontro fra il capitalismo e l’arte dando vita all’unica arte veramente moderna, cioè il cinema, tentasse di far dimenticare la sua natura spacciandosi per l’agenzia della critica al capitalismo, all’avidità e all’egoismo dei suoi rappresentanti giocando per esempio sull’opposizione quasi canonica fra lo scienziato, sempre un po’ disadattato ma amante della natura e dell’umanità, e il soldato, come faccia armata del politico e dell’affarista. Poi però ho pensato che l’ambizione questa volta era più alta: mostrare, come ho già provato a dire, che c’è una tecnica buona e una cattiva e che quella buona – la rete, le reti, la virtualità – sia già senza alcun bisogno di trasformazione politica l’anticipazione della vita vera. Certo c’è bisogno di qualcuno che renda possibile questo passaggio, che lo attualizzi integralmente e questo qualcuno è l’avatar, cioè colui che ‘cammina-nel-sogno’ e attraverso il sogno si trova chiasticamente dall’altra parte: bisogna soltanto che il sogno diventi la vera veglia. Tutto il film è attraversato dalla questione principe della modernità: sogno o son sveglio? Oppure quando ci si risveglia davvero e si smette di sognare?
Resta l’elemento religioso e sacrificale: divenuto un vero avatar, cioè un abitante di Pandora Sully vedrà la sua metà direttamente senza bisogno di altre protesi o altri mediatori, quasi come per san Paolo vi sarà un giorno in cui vedremo Dio in un faccia a faccia e non solo per enigmi e attraverso lo specchio, come a dire attraverso il sogno. Ora è proprio questa persistenza del sacrificale, tu l’hai chiamato cristologico, che mi impedisce di pensare che questo film possa avere a che fare con Benjamin. Intanto se è vero che anche Benjamin pensa che fra l’arcaico e l’avvenire possa scoccare, anzi scocchi sempre, la scintilla, però non identifica l’arcaico con la vita, con il suo scorrere rizomatico, con il suo coincidere con le radici. L’arcaico di Benjamin è vita, e cioè desiderio, ma vita già da sempre storica, anche se di una storia preistorica, già da sempre simbolo, già da sempre lingua, posta in essere addirittura dalla potenza del linguaggio. Altro che ‘ti vedo’, che vuol dire ‘ti sento’! E soprattutto anche se all’inizio o subito dopo l’inizio è una vita che è stata costretta ad entrare nel mito, vale a dire a sottoporsi al sacrificio, cioè all’immolazione come apparente unica condizione per essere nel giudizio finale vita salva e redenta, per Benjamin la sua salvezza consiste proprio nell’essere salvata dalla sua sacralità. E’ noto come Benjamin abbia rifiutato la tesi della sacralità della vita che gli sembrava del tutto consustanziale con un umanesimo responsabile d’altronde dei peggiori misfatti della storia moderna. Ora se l’affermazione sulla sacralità della vita significa che essa è intoccabile sia in entrata – la nascita – sia in uscita – la morte, ciò è reso possibile soltanto dal fatto che la vita è preventivamente immolata o direttamente o attraverso un rappresentante cristologico o comunque un avatar: la vita è resa sacra appunto attraverso il sacrificio, cioè attraverso la sua consegna alle grinfie del super-io che come l’eroe sadiano, l’essere supremo in malvagità, potrà esigere da lei tutto quello che vorrà, anche scorticarla se questo è il suo desiderio. Pur di restare in vita, pur di non consegnarsi alla posterità, la vita è disposta a subire ogni affronto e ogni violenza: se come sempre si è detto, la vita preferisce restare schiava è perchè c’è un tornaconto nella schiavitù, si sta bene nel male. D’altronde se c’è una religione della violenza questa è il cristianesimo i cui adepti sadicamente adorano un dio che non solo muore ma prima viene sottoposto a tortura. La vita di e su Pandora è sacra: e per questo non sarà mai salva. La redenzione per Benjamin implica l’abbattimento della sacralità. La vita salvata quindi è la vita che si sottrae alla sacralità e non rinuncia al desiderio in nome della persistenza nell’essere.
Ciao e a presto,
Bruno

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